Il west di Sergio Leone
aesaggi assolati, città polverose, volti di
pietra, pistole pronte a seminare la morte: uno scenario desolante
popolato da taciturni giustizieri, banditi drogati e cacciatori di
taglie in cerca di delinquenti. Era questo il West di Sergio Leone,
una trasposizione esasperata del mondo romantico che John Ford aveva
celebrato nei suoi film.
ll regista italiano era un uomo corpulento dall’aspetto bonario,
innamoratosi del western dopo avere esplorato i misteri
dell’antichità con “Gli ultimi giorni di Pompei” e “Il colosso di
Rodi”.
Nato il 3 gennaio 1929 a Roma, figlio del regista Roberto Leone e
dell’attrice Bice Valerian, non avrebbe goduto di una vita lunga, ma
molto intensa e ricca di successi personali. Si spense
improvvisamente la notte fra il 29 e il 30 aprile 1989 a soli 60
anni, nella sua abitazione all’EUR, dopo avere portato trionfalmente
sugli schermi la “trilogia del dollaro”, il monumentale “C’era una
volta il West”, il satirico “Giù la testa” e il nostalgico “C’era
una volta in America”.
Aveva esordito con lo pseudonimo di Bob Robertson agli inizi degli
Anni Sessanta, riuscendo nell’ambizioso intento di colmare il vuoto
lasciato da Ford, del quale si dichiarava sincero ammiratore (gli
rese infatti omaggio girando “C’era una volta il West” nella rovente
Monument Valley dell’Arizona, teatro dei migliori successi del
regista irlandese) pur non condividendone completamente il pensiero
(“Non gli perdono, ad esempio, “Un uomo tranquillo”, la favola
dell’Irlanda verde e tranquilla, mentre in realtà il paese era
dilaniato dalla guerra dell’IRA”, Francesco Mininni, “Sergio Leone”,
Il Castoro, Milano, 1994, p. 8). In una intervista, il padre del
western all’italiana, sottolineò la differenza fondamentale fra lui
e il regista americano di origine irlandese: “Ford era un ottimista,
mentre io sono un pessimista.” (Massimo Moscati, “Western
all’italiana”, Pan Editrice Milano, 1978, p. 52).
Leone si buttò nel western con l’entusiasmo di un ragazzo,
sfornando, in rapida successione, le sue opere migliori. Il sogno
statunitense ebbe termine nel 1984 con il capolavoro, “C’era una
volta in America”, perché pochi anni dopo una prematura morte gli
impedì la realizzazione di un film imperniato sull’assedio di
Leningrado durante il secondo conflitto mondiale.
Se Ford si divertiva a “fare a pugni con la storia”, Leone riuscì a
mettere k.o. tutto ciò che il West possedeva di oggettivamente
autentico.
Il creatore dello “spaghetti-western” sapeva quanto i modelli da lui
proposti fossero lontani dal reale contesto della Frontiera; le sue
spettacolari sfide, simili a vere e proprie stragi, non potevano
trovare una collocazione storica. Tuttavia, al pari del suo maestro,
era fermamente convinto che “quando la storia si scontra con la
leggenda, è sempre quest’ultima ad avere il sopravvento”.
I personaggi di Leone somigliano, più che ad uomini della Frontiera,
agli eroi omerici ed ai samurai nipponici di Akira Kurosawa: i
duelli riconducono, anziché alla storica sfida dell’O.K. Corral, ai
titanici confronti della guerra di Troia. Il West non esiste come
realtà autonoma, ma è la metafora di un contesto leggendario che da
sempre alimenta le fantasie dell’immaginario collettivo.
La sua lettura del periodo più affascinante della storia americana
si apre con lo scenario di un ipotetico villaggio messicano e si
chiude nella rossa atmosfera di un deserto americano, dove uomini e
donne sono alla ricerca di una nuova identità. Il solitario
pistolero di “Per un pugno di dollari”, trasformatosi
nell’enigmatico vendicatore di “C’era una volta il West”, cede il
passo ad un avversario molto più spietato dei delinquenti che ha
dovuto eliminare: il progresso. L’uomo con la pistola abbandona il
campo dinanzi alle locomotive che avanzano sbuffando nella prateria,
perché la sua è “una razza vecchia” destinata ad essere cancellata
dalla storia. Infatti, come profetizza Armonica nell’ultimo faccia a
faccia con Frank, “verranno altri Morton e la faranno sparire. Il
futuro non riguarda più noi due.” (Massimo Moscati, “Western
all’italiana”, cit., p. 42).
Per dare maggior risalto alla fase cruciale della metamorfosi – la
scomparsa dei leggendari pistoleros dal panorama della Frontiera in
via di civilizzazione - il regista aveva addirittura preteso che i
tre fuorilegge uccisi alla stazione ferroviaria di Sweetwater
(“C’era una volta il West”) fossero impersonati rispettivamente da
Clint Eastwood, Lee Van Cleef ed Eli Wallach, gli eroi delle sue
pellicole precedenti. Wallach accettò, Van Cleef manifestò
perplessità e Eastwood, ormai avviato ad una promettente carriera
cinematografica, rifiutò decisamente. L’attore californiano obiettò
infatti che “una star non può soccombere nei primi dieci minuti di
film”. |