Le sue opere provocatorie...
a un punto di vista strettamente storico,
l’esagerazione delle opere di Leone è tanto evidente quanto
intenzionalmente provocatoria.
Esaminando accuratamente la storia della
Frontiera americana dell’ Ottocento, scopriamo infatti che James
Butler Hickok, il celebre sceriffo di Hays City e Abilene noto come
Wild Bill (1837-1876) uccise in tutta la sua carriera soltanto una
trentina di persone, mentre Wyatt Earp (1848-1929) il giustiziere
dell’O.K. Corral di Tombstone, non arrivò forse neppure a dieci.
Le sparatorie nei villaggi e nelle cittadine
del West non assunsero mai le proporzioni contenute nella maggior
parte dei film. Neppure le guerre contro gli Indiani furono tanto
sanguinose, se i resoconti ufficiali riferiscono di perdite
irrisorie da ambo le parti: dal 1865 al 1890 le carabine e le
pistole dei Bianchi uccisero in combattimento poco più di 5.300
Indiani, ma secondo le testimonianze dei Pellirosse questa cifra
andrebbe addirittura ridotta ad un terzo o un quarto. Le perdite
dell’esercito furono a malapena un migliaio in un trentennio,
nonostante l’enorme risonanza avuta dalla battaglia di Little Big
Horn, in cui perirono 265 militari e guide e probabilmente un
analogo numero di guerrieri indiani.
Nella sfida all’O.K. Corral, svoltasi nel 1881
a Tombstone, in Arizona, Wyatt Earp e i suoi due fratelli Virgil e
Morgan, appoggiati dall’ex dentista John “Doc” Holliday, eliminarono
solo 3 dei 7 pericolosi malviventi della banda Clanton-Mc Laury. Nei
primi due film di Leone – “Per un pugno di dollari” e “Per qualche
dollaro in più” – Clint Eastwood e Lee Van Cleef sterminano invece
quasi cento banditi, usando la pistola con estrema disinvoltura,
un’abitudine decisamente smentita dagli stessi protagonisti
dell’epopea.
Il marshal Wyatt Earp si creò addirittura la
fama di persona piuttosto restia ad impugnare le armi contro i suoi
avversari, se non in caso di estrema necessità. Ad un giornalista,
che gliene chiese il motivo durante l’ultimo periodo della sua
esistenza, rispose tranquillamente: “La pistola non va adoperata con
leggerezza. Quando la si estrae, è soltanto per uccidere”. Il
regista John Ford avrebbe poi attribuito l’affermazione, nel suo
“Sfida infernale” (1946) a Old Man Clanton (attore Walter Brennan)
padre dei banditi uccisi dagli Earp durante e dopo lo scontro
dell’O.K. Corral.
I film di Leone sono tutti concepiti in
funzione della sfida finale, la resa dei conti che rappresenta il
punto di non ritorno.
La sua irreale elaborazione della dinamica del
duello costituisce la fase culminante di uno scontro fra giganti,
esattamente come nella mitologia greca. Se all’O.K. Corral il
confronto fra gli Earp e i Clanton si risolse, secondo le
testimonianze, in meno di 20 secondi, la prova di forza fra i
duellanti di “Per qualche dollaro in più” appare letteralmente
sospesa nel tempo. Prima che i duellanti impugnino la pistola, lo
spettatore vede scorrere nei loro occhi le paure, le tensioni e le
motivazioni che li hanno spinti al fatale confronto. La loro ferma
determinazione di uccidere è accompagnata dalle drammatiche note di
un carillon che evoca ricordi di morte e fa riaffiorare i sentimenti
più forti dell’animo umano.
La musica e la gestualità espressiva sono il
vero filo conduttore dell’azione, legata all’uso dei primi piani
fino all’esasperazione, tecnica che John Ford detestava.
Come osservò Charles Silver, “nei western
tradizionali gli uomini uccidono i loro simili per amore, odio o
denaro. Nei film di Leone lo fanno per l’effetto estetico” (“I film
western”, Milano Libri, 1980, p. 131).
La tecnica del duello seguita da Leone è un
evidente falso storico, ma ricalca quella già adottata dal cinema
western fin dagli albori. Soltanto John Ford si prese la briga di
trattare la questione con la giusta dose di realismo ne “L’uomo che
uccise Liberty Valance”, dove il fuorilegge viene abbattuto a
tradimento con un preciso colpo di Winchester sparato da un John
Wayne nascosto nell’ombra. La scena non è molto spettacolare, ma
rappresenta una verità più accettabile delle innumerevoli sfide in
cui prevale “il più veloce ad estrarre la pistola”. E’ un fatto che
gli uomini del West si affrontavano con le armi in pugno, senza
tentare di dimostrare la propria velocità – che non era comunque
consentita dalla scarsa maneggevolezza delle armi impiegate –
nell’estrarre la Colt. L’abilità consisteva esclusivamente nella
mira personale e nella freddezza con cui ci si esponeva al rischio
di essere colpiti prima di riuscire a centrare il bersaglio. Tutto
il resto, per quanto se ne conosce, è pura fantasia letteraria e
cinematografica, come confermò lo stesso Wyatt Earp, che fu
consulente di Ford negli Anni Venti del Novecento.
La tipologia dei personaggi proposta dal
regista italiano è estremamente ristretta; dopo “Per un pugno di
dollari”, sembra ripetitiva e scontata, almeno fino all’apparizione
di “C’era una volta il West”.
Le figure di Ramon Rojo e El Indio, entrambe
impersonate da Volontè, sono praticamente uguali ad eccezione di
qualche particolare (l’Indio è uno squilibrato che fuma marijuna).
Eastwood ripete sostanzialmente se stesso in tre film e si incolla
addosso la parte talmente bene da replicarla, con opportune
varianti, in altri lavori successivi (“Lo straniero senza nome”, “Il
Texano dagli occhi di chiaccio”, ecc.). Van Cleef, cacciatore di
taglie in “Per qualche dollaro in più”, si trasforma invece nel
cattivo Sentenza ne “Il buono, il brutto, il cattivo”. La veste di
giustiziere viene poi assunta da Charles Bronson in “C’era una volta
il West”, mentre i protagonisti della trilogia del dollaro escono
definitivamente di scena.
Banditi, vendicatori, duelli, rapine: il
contesto non subisce grosse variazioni nelle prime quattro
produzioni di Leone. “Giù la testa” prescinde invece dalle sfide
all’ultimo sangue e si dedica maggiormente all’approfondimento dei
personaggi, aggrappandosi alla rivoluzione come pretesto per mettere
a nudo le debolezze, le finzioni e le contraddizioni di fondo dei
suoi protagonisti.
Sono del tutto assenti dal proscenio dello
spaghetti-western gli Indiani, ma ciò è dovuto probabilmente a
ragioni organizzative, anche se Leone giustifica la scelta
soprattutto con “l’impossibilità di trovare dei nativi autentici”,
avendo rifiutato a priori il ricorso ad interpreti bianchi
cammuffati da Pellirosse, come faceva spesso il cinema hollywoodiano
(Mininni, “Sergio Leone”, cit. p. 7).
Ciò che colpisce è però la mancanza delle
figure tradizionali della Frontiera: emigranti, contadini,
allevatori, cacciatori di pellicce. Il suo universo, nei primi due
film, è popolato esclusivamente di gente pronta a sfidarsi in duello
e soltanto in un secondo tempo compaiono militari (“Il buono, il
brutto, il cattivo”) pionieri, operai delle ferrovie (“C’era una
volta il West”) e rivoluzionari (“Giù la testa”) prima di esplorare
il mondo dei gangster in “C’era una volta in America”.
I personaggi di Leone sembrano inseguire solo
dollari o vendette: la ricerca della ricchezza, la caccia alle
taglie, o il desiderio di punire l’assassino dei propri famigliari:
nessuno di essi cerca terre da coltivare o pascoli per allevare
bestiame. Eppure la loro indole mercenaria nasconde un’etica di
fondo che affiora ogniqualvolta lo spettatore si aspetti un
intervento del bounty killer a sostegno dei deboli. In ultima
analisi, neppure Leone riesce a sottrarsi al fascino del “Cavaliere
della valle solitaria” (George Stevens, 1953) e al mito che da
sempre ne accompagna le gesta.
Pur avendo lo scopo di sterminare la banda Rojo,
Joe (Eastwood) non esita ad esporsi per liberare Marisol (Marianne
Koch) costretta a diventare l’amante di Ramon, mentre il colonnello
Douglas Mortimer (Lee Van Cleef) rinuncia ad una lauta ricompensa,
accontentandosi di avere vendicato una sorella oltraggiata e uccisa
da El Indio. Anche in “C’era una volta il West”, Armonica (Charles
Bronson) si batte con il perfido Frank (Henry Fonda) per fargli
pagare il barbaro assassinio del fratello, ma assume le difese di
Jill Mc Bain (Claudia Cardinale) perseguitata dall’affarista Morton
(Gabriele Ferzetti) e dal suo scagnozzo Frank (Fonda) che l’hanno
resa vedova anzitempo.
Tradimento e desiderio di riscatto guidano
invece l’intreccio di “Giù la testa”, dove l’Irlandese Sean Mallory
(James Coburn) e il medico Villega (Romolo Valli) risolvono il
conflitto con se stessi sacrificando le proprie vite per salvare dei
compagni.
Si tratta ancora una volta di un duello, ma
sotto la forma di uno spietato confronto con la propria coscienza,
una sfida che viene raccolta anche dal bandito Juan Miranda (Rod
Steiger) convertitosi suo malgrado alla causa della rivoluzione.
L’influenza di Sergio Leone si rivelò subito
determinante sia sulla produzione western nazionale – che, dopo un
promettente avvio, sconfinò in una interminabile sequenza di
improbabili Diango, Sartana, Sabata, Trinità, ecc., guastando
irrimediabilmente il filone e forse accelerandone la fine – quanto
su quella hollywoodiana dei trent’anni successivi. Non è infatti
difficile ritrovare ne “Gli spietati” di Clint Eastwood (1992) e
“Pronti a morire” di Sam Raimi (1995) lo stile del regista italiano.
La sua impostazione, inaccettabile per i tradizionalisti del western
legati agli schemi di “Sfida infernale” (John Ford, 1946) e “Un
dollaro d’onore” (Raul Walsh, 1959) condizionò il cinema americano,
che faticò parecchio a distaccarsi dalle particolarissime atmosfere
inventate da Leone. Allorchè Kevin Costner vinse 7 Oscar con “Balla
coi lupi” nel 1990, Eastwood gli replicò rifacendosi agli
insegnamenti del suo vecchio maestro, a cui va senz’altro una parte
di merito per i 4 Oscar ottenuti da “Gli Spietati”.
Nell’ultimo film di Leone – “C’era una volta il
West” – acquista notevole risalto la figura femminile di Jill Mc
Bain, interpretata dalla bellissima Claudia Cardinale, ormai nel
pieno della sua maturità artistica.
Il mondo dei bounty killer, dei fuorilegge e
dei vendicatori si dissolve rapidamente dinanzi alla Frontiera degli
speculatori, dei costruttori di città e delle persone comuni che
cercano una vita migliore. I pistoleri che non sono morti con le
armi in pugno, si spengono dopo una lenta agonia, uccisi dai nuovi
padroni del West, gente che – sostiene l’avventuriero Cheyenne (Jason
Robards) - “non sa sparare”.
La donna diventa l’elemento di continuità del
nuovo assetto sociale portato dal progresso, il trait d’union fra la
“wilderness” e la società organizzata che i pionieri si sono
lasciati alle spalle nella loro marcia verso occidente. Il suo
ambiguo passato nei bordelli svanisce insieme al mito degli uomini
dalla pistola facile. E’ la catarsi di un’epopea cresciuta
nell’anarchia, nutrendosi di effimeri modelli condannati ad un
malinconico tramonto. Mentre l’ultimo pistolero, ormai svuotato di
ogni scopo esistenziale, lascia la vallata invasa dai cantieri
ferroviari, Jill rimane a simboleggiare la vittoria del colono sul
selvaggio West.
Nel finale del quarto film di Sergio Leone, che
conclude la serie dedicata al genere, si scopre una straordinaria
somiglianza con “L’uomo che uccise Liberty Valance”, il lavoro di
Ford che il regista romano preferiva. Ma la figura femminile di Jill
Mc Bain è più prepotente e positiva rispetto a quella della
protagonista fordiana Hallie Stoddard (Vera Miles) perché mostra una
maggiore consapevolezza del proprio ruolo e la capacità di
effettuare una scelta senza eccessivi rimpianti.
E' il prototipo delle donne che tracciano il futuro del West, la
storia che riprende il sopravvento sulla leggenda.
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