Su
Leggendario

 


A cura di Willy

Hugh Glass il trapper

O

gnuno là sapeva che Hugh Glass era un veccio “procione”. Essi avevano lo sguardo fisso a quel poco che gli implacabili artigli lunghi tre pollici dell’orsa avevano lasciato del vecchio trapper. Quel poco che si poteva intravedere attraverso il sangue, che era dappertutto… il suo scalpo a brandelli…il volto…il torace…le braccia…le mani. Vedere come l’orsa aveva masticato le sue spalle…la sua schiena. Essi non potevano fare altro che ascoltare il gorgogliare del sangue che fuoriusciva dallo squarcio sulla sua gola insieme al suo respiro. Quello che li lasciò attoniti fu il fatto di vedere che egli respirava ancora, e poi ancora, e ancora una volta.

Era l’estate del 1823 quando il maggiore Andrew Henry e i suoi nove trapper, sfidando le tribù dell’Alto Missouri per raggiungere i torrenti dei castori, trovarono il vecchio procione (un appellativo che i mountain men usavano riferendosi a sé stessi); e non avrebbero creduto di aver trovato proprio lui se avessero saputo quanto forte e indistruttibile aveva dimostrato di essere Glass, e con lui la sua storia. Il fatto che egli sarebbe diventato oggetto di una controversia non li avrebbe sorpresi, e le voci che circolavano su di lui etichettandolo come bugiardo ed accusandolo di calunniare un compagno valoroso li avevano lasciati perplessi. La notizia che Hugh Glass stesse per entrare nella leggenda americana, per diventare un eroe epico della storia e dei poemi, forse li avrebbe fatti sorridere.

Stava morendo… minuto dopo minuto… anche uno sciocco lo avrebbe capito.

I nativi ostili avevano già finito 17 uomini appartenenti alla loro stessa brigata. Gli indiani Arikara (conosciuti anche come Ree) ne avevano uccisi 15 nell’attacco del 2 giugno che li aveva costretti ad abbandonare le loro imbarcazioni nel fiume Missouri e spinti a trascinarsi a fatica verso ovest, fino alla Grand River Valley. Verso la fine di agosto, parecchi di loro stavano ancora curandosi le ferite di quella battaglia, compreso il vecchio Glass, che era stato raggiunto alla coscia da una pallottola. Il proiettile non lo aveva fermato, ma il grizzly sì.

Rispetto alla maggior parte degli altri mountain men suoi compagni Glass era vecchio. Vicino alla quarantina, egli avrebbe potuto essere il padre di molti di loro, come il giovane Jim Bridger, il quale stava iniziando il suo secondo anno come trapper. Ma tutti lo chiamavano “vecchio” con un certo affetto, quasi come una forma di rispetto. Egli era un solitario, e spesso desiderava percorrere la sua via da solo, ma la sua abilità e il suo coraggio erano sempre stati utili ai suoi compagni. Alto e con un fisico possente, egli non sarebbe mai fuggito da una situazione difficile, nemmeno se si fosse trattato di lottare.

Uno o due di quelli che circondarono il luogo dove egli stava agonizzando pensò che Glass meritasse di perdere questa battaglia. Egli aveva esposto tutti gli altri a grossi rischi dal momento che l’esercito degli Stati Uniti aveva soltanto fatto finta di punire il villaggio Arikara per il devastante attacco di quello stesso giugno. Un paio di trapper innervositi e stremati si erano trattenuti dall’incendiare loro stessi il villaggio Arikara, e forse per questa debolezza gli indiani Rees ora stavano ridendo. Essi non erano spaventati e non avevano bisogno di essere spronati. Il maggiore Henry aveva ordinato agli uomini del suo piccolo gruppo di restare uniti come se stessero avanzando velocemente verso il luogo di raccolta delle pellicce sul fiume Yellowstone. Egli affidò a due di loro il compito di andare in avanscoperta e ribadì di non volere sparatorie se non assolutamente necessarie.

Nonostante tutte queste precauzioni, il gruppo aveva perso recentemente due uomini in un attacco notturno, e altri due erano rimasti feriti. Quando i guerrieri Mandan che stavano per essere attaccati si rivelarono amichevoli, i trapper si resero conto che il disprezzo dei Ree per i bianchi si era sì diffuso, ma agli Assiniboine, ai Sioux e agli Hidatsa, che potevano ben rivaleggiare con i Blackfeet, i quali consideravano già i bianchi come un nemico facile da battere.
In quegli istanti, attirare l’attenzione poteva significare la morte. Ma gli spari necessari per finire la femmina di grizzly e i suoi due piccoli di appena un anno echeggiarono attraverso la gola. Allo stesso modo si udirono le grida di Glass.
Dovevano sotterrare la diciottesima vittima e andarsene. Adesso!

Ma quel corpo stava ancora respirando.

Gli altri, guardandolo, ricordarono la reazione rapida ed efficace di Glass ai proiettili degli Arikara. Più tardi, egli aveva soccorso i feriti, e in particolare il giovane John Gardner. Consapevole di essere vicino alla fine, Gardner aveva incaricato Glass di far avere le sue ultime parole alla sua famiglia in Virginia. Da qualche parte, durante il suo misterioso passato, Glass aveva ricevuto una certa educazione tale da permettergli di esprimersi in modo chiaro ed elegante nelle lettere. Egli aveva dimostrato in più di una occasione di essere all’altezza di questo difficile compito.

"E’ mio penoso dovere informarvi della morte di vostro figlio…,” scrisse Glass al padre del giovane. “Dopo essere stato ferito egli è vissuto abbastanza per chiedermi di informarvi del suo triste destino. Abbiamo subito riportato vostro figlio alla barca dove purtroppo è sopraggiunta presto la morte. Mr. Smith, un altro giovane del nostro gruppo, ha recitato una preghiera molto intensa che ha coinvolto tutti noi, e sono convinto che John se ne è andato in pace…”

Ma l'estensore di quella lettera non seguì la stessa sorte. I suoi compagni strapparono alcune strisce di tessuto dalle loro camicie e bendarono le sue ferite meglio che potevano, sicuri che sarebbe morto prima dell’alba. Quando il sole li destò, egli respirava ancora.

La storia di Hugh Glass sarebbe stata ricostruita dai racconti scritti da alcuni suoi contemporanei, ognuno dei quali aveva indicato particolari diversi della sua vita. Lo stimato mountain man George C. Yount annotò nelle sue memorie di aver parlato con Glass direttamente, così come anche con un trapper di nome Allen (Hiram Allen fece parte della brigata condotta nel 1823 dal maggiore Henry) e con un altro trapper del gruppo di Glass chiamato Dutton.

Allen si ricordò che il maggiore Henry ordinò di tagliare dei rami per costruire una barella, così da poter trasportare il loro compagno sofferente e sanguinante per più di due giorni. Il cammino fu triste e doloroso, e pareva infinito, nonostante la distanza percorsa fosse minima. Nei pressi della biforcazione del Grand River (nell’attuale Sud Dakota) i trapper giunsero ad un boschetto di alberi che nascondeva un ruscello alimentato dallo sciogliersi dei nevai in primavera. Qui Henry guardò in faccia la realtà. Avrebbe potuto perdere tutti i suoi uomini tentando di salvare la vita di uno di essi, che era praticamente morto.

Essi avrebbero lasciato lì Glass per ristabilirsi, se avesse potuto, oppure per morire in pace. Ma il maggiore richiese due volontari che rimanessero in quel luogo finchè non fosse accaduto qualcosa, ed eventualmente dare a Glass una sepoltura decente. Forse non avrebbero dovuto attendere molto, e in seguito avrebbero potuto raggiungere il gruppo. La compagnia avrebbe pagato loro un bonus corrispondente ad alcuni mesi di paga. Il maggiore Henry attese, ma né il trapper Allen e nemmeno l’esperto Moses Harris trovarono l’offerta del bonus sufficiente a far correre loro il rischio di essere scalpati. In quel momento calò un silenzio di tomba.

Finalmente uno di loro si decise a parlare, e subito dopo un altro. Erano John S. Fitzgerald e il diciannovenne Jim Bridger. Benchè fosse il più giovane di tutti, Bridger con la sua paga doveva mantenere oltre a sé stesso la sorella più giovane. Forse ispirato dal senso pratico, dalla compassione oppure dal suo ottimismo giovanile dettato dall’inesperienza, Bridger accettò l’incarico. Prima che i due potessero cambiare idea, Henry e gli altri sette fuggirono via.

Fitzgerald e Bridger erano soli, e osservavano il lago di sangue ormai indurito che lambiva i loro piedi. Non potevano fare nulla per lui se non somministrargli poche gocce d’acqua e scacciare via le mosche. Giunse il crepuscolo, poi l’oscurità e poi ancora l’alba….più il tempo passava più il rischio per loro aumentava. In realtà non potevano fare nulla di più che osservare con ansia i segnali indiani e scavare la fossa…così tutto sarebbe stato pronto.

Ancora un altro giorno, e ancora un’altra notte…le possibilità di raggungere gli altri diventavano sempre più scarse.

E un’altra alba arrivò, con il respiro di Glass appena percettibile, ma era quanto bastava per tenere i due uomini legati a quel posto così pericoloso come il filo di seta di un ragno riesce a stringere le mosche nella sua tela… mortalmente. Il corpo di Glass era letteralmente coperto di sudore quando Fitzgerald iniziò a dire che voleva andarsene, diceva che erano stati là anche di più di quello che il maggiore Henry si sarebbe aspettato da loro, rischiando grosso. Era giunto il momento di pensare alle loro vite, nessuno li avrebbe biasimati per questo.
 

 

Vivo. Quel poco che si poteva intravedere attraverso il sangue, che era dappertutto… il suo scalpo a brandelli…il volto…il torace…le braccia…le mani. Vedere come l’orsa aveva masticato le sue spalle…la sua schiena. Essi non potevano fare altro che ascoltare il gorgogliare del sangue che fuoriusciva dallo squarcio sulla sua gola insieme al suo respiro. Quello che li lasciò attoniti fu il fatto di vedere che egli respirava ancora, e poi ancora, e ancora una volta.

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Sotto: Un ritratto di Hugh Glass

 

 

 

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