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A cura di Domenico Rizzi

La morte di Tecumseh

I

difficili rapporti esistenti fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, soprattutto dopo l’incidente navale della primavera 1811 e l’intervento del ministro inglese Foster per allentare la tensione fra i due Paesi, avevano impedito al Canada di fornire alla coalizione di Tecumseh l’appoggio che il condottiero shawnee si aspettava. Ovviamente, dopo la dichiarazione di guerra americana, la prudenza britannica cedette il posto ad un’azione molto più decisa per assicurarsi l’alleanza dei Pellirosse. Infatti, gli Inglesi non potevano fare a meno di un sostegno tanto prezioso, ben sapendo che i Pellirosse avrebbero messo a loro disposizione la potenza devastante delle loro incursioni.

L’uomo che poteva ricompattare le tribù disperse da Harrison a Tippecanoe, era proprio Tecumseh, l’irriducibile sognatore che non rinunciava a giocarsi le residue speranze di dar vita ad uno Stato governato dagli Indiani.

Nella tarda estate del 1812, mentre i Potawatomie sterminavano la guarnigione di Fort Dearborn, il capo degli Shawnee raggiunse il territorio canadese per incontrare il generale Isaac Brock, governatore dell’Ontario, che gli accordò la sua piena fiducia, offrendogli di comandare le forze indiane alleate. Per questo incarico, Tecumseh si vide conferire il grado di generale di brigata, il più alto che fosse mai stato concesso ad un Pellerossa.

Orgoglioso e galvanizzato da un riconoscimento tanto elevato, Tecumseh dimenticò subito l’ambiguo comportamento inglese del passato e incominciò ad organizzare le sue forze per dimostrare con un’azione sul campo quanto il grado fosse meritato.

Poco tempo dopo partecipò infatti ad un assalto contro un contingente americana di 200 uomini del maggiore Thomas Van Horne, inviato dal generale  William Hull, comandante della guarnigione di Detroit. La battaglia fu praticamente a senso unico e gli Indiani, affiancati da truppe inglesi, sbaragliarono nettamente l’avversario.

Nella primavera del 1813, Tecumseh era riuscito a mettere insieme 1.500 guerrieri, che si unirono ai 980 soldati e miliziani canadesi del colonnello Henry Proctor per sferrare un attacco contro la base americana di Fort Meighs, sul fiume Maumee. Il capo shawnee pensava che i quasi 2.500 uomini di cui disponeva il comandante inglese fossero più che sufficienti a travolgere le resistenze nemiche. Purtroppo Proctor non possedeva né il suo coraggio, né un minimo di audacia strategica. Tecumseh, che non vedeva l’ora di vendicare l’umiliazione di Tippecanoe e fremeva nell’attesa di scatenare i suoi guerrieri contro gli Statunitensi, doveva subire una cocente delusione, soprattutto quando venne a sapere che gli Americani – circa 1.100 uomini – erano guidati dal suo vecchio nemico, il generale William Henry Harrison, comandante delle truppe dell’Indiana  e dell’Illinois.

Il 1° maggio 1813 Proctor decise di cingere d’assedio Fort Meighs, nella zona di confine, ma ciò non impedì agli Americani di ottenere rinforzi da Fort Defiance e l’ufficiale inglese, dopo essersi consultato con il suo stato maggiore e ignorando l’insistenza di Tecumseh, ordinò al proprio contingente di ritirarsi. Il capo shawnee dovette assistere impotente al ripiegamento dei 500 soldati regolari inglesi e di oltre 450 miliziani canadesi, che abbandonavano l’impresa pur avendo la possibilità di espugnare il presidio.

Proctor arretrò i suoi reparti verso la postazione di Fort Malden, dove ricevette ingenti rinforzi dagli Indiani dei territori di frontiera.

Il colonnello poteva disporre ora di una forza ragguardevole: 500 effettivi dell’esercito e più di 2.000 guerrieri pellirosse, posti al comando di Tecumseh. Il suo avversario era il generale Henry Clay, al quale Harrison aveva affidato il comando di Fort Meighs. Ancora una volta Proctor tergiversò, preferendo infine condurre, nella seconda metà di luglio, un assalto contro Fort Stephenson, sul fiume Sandusky, difeso dai 160 uomini del giovanissimo maggiore George Crochan.

Nonostante la schiacciante superiorità numerica, l’azione fallì miseramente, perché gli assediati scompigliarono gli assalti avversari con un cannone caricato a mitraglia, facendo un centinaio di morti e subendo una sola perdita. Sorpreso e disorientato, l’ufficiale britannico optò per una ritirata che non aveva nulla di onorevole, mandando Tecumseh su tutte le furie. Ormai, il condottiero pellerossa vedeva allontanarsi sempre di più la prospettiva di una vittoria contro gli Yankee e la creazione di un territorio indiano indipendente.

In settembre le forze navali degli Stati Uniti, sotto la guida dell’ammiraglio Perry, si assicuravano il controllo del Lago Erie, mentre Harrison, con 10.000 uomini, stazionava fra la Sandusky Bay e Port Clinton, in attesa di iniziare l’avanzata verso il nemico. Alla fine del mese era già entrato in territorio canadese con 2.000 soldati regolari e 3.000 miliziani, mentre l’avversario abbandonava precipitosamente Detroit, conquistata in precedenza. Cinque giorni dopo si mise all’inseguimento della colonna anglo-indiana, portandosi dietro circa 3.500 uomini.

Ormai anche la coalizione indiana si stava disgregando, perché 1.000 guerrieri avevano rinunciato a seguire Tecumseh, arrendendosi agli Americani. Per contro, Harrison si faceva precedere nella sua avanzata da 260 esploratori appartenenti alle tribù dei Wyandot, dei Seneca e persino degli Shawnee, guerrieri dissidenti che non approvavano la scelta di Tecumseh. 

Proctor, spaventato dalla forza del suo avversario, prese un’altra delle sue maldestre decisioni, ordinando di ripiegare verso l’Ontario dopo avere fatto incendiare Fort Malden. Tuttavia, essendo tallonato abbastanza da vicino dalle truppe di Harrison e probabilmente rimbrottato da Tecumseh che lo aveva già accusato apertamente di vigliaccheria, il 5 ottobre 1813 accettò di sostenere lo scontro, sebbene in una posizione meramente difensiva.

Il suo esercito, 500 soldati del Quarantunesimo Fanteria ed un numero pari di alleati indiani – Shawnee, Delaware, Chippewa, Winnebago, Sauk e Fox, Potawatomie, Kickapoo ed elementi di altre tribù - si schierò in una zona pianeggiante lungo il fiume Thames, nei pressi di Moravian Town, che non sembraba affatto ottimale per la difesa. Tecumseh dispose i propri uomini lungo le rive boscose di un affluente, alla sinistra delle forze di Proctor. 

Il colonnello Richard H. Johnson, che comandava 1.000 cavalleggeri del Kentucky, il reparto più incisivo dell’armata di Harrison, convinse il suo superiore dell’opportunità di condurre una carica a cavallo. Nelle prime ore del pomeriggio, dopo aver diviso le proprie forze in due grossi squadroni, ne lanciò uno contro gli Inglesi di Proctor e l’altro verso le postazioni difese da Tecumseh, che si trovavano al centro di un’area paludosa.

Le truppe britanniche furono subito travolte dagli impetuosi Kentuckiani di Johnson, fuggendo dopo aver lasciato 18 morti sul campo; invece gli Indiani si difesero accanitamente, impegnando un corpo a corpo furibondo. Ad un certo punto, mentre l’esito dello scontro permaneva estremamente incerto, un proiettile colpì Tecumseh ad un fianco, facendolo cadere da cavallo. I Pellirosse, vedendo il loro capo steso al suolo, si disunirono ed incominciarono a disperdersi, lasciando via libera all’avanzata di Harrison. Nei giorni successivi, molte bande di Chippewa, Delaware e Miami, scampati all’accerchiamento di Harrison, avrebbero abbandonato gli Inglesi per arrendersi alle truppe degli Stati Uniti.

I Britannici non avevano subito più di 50 perdite fra morti e feriti, i loro alleati indiani ne lamentavano una quarantina e complessivamente i prigionieri caduti nelle mani degli Americani erano 600, ma il fatto più importante risiedeva nella morte del grande Tecumseh. Prima della battaglia, il leader aveva profetizzato la propria fine: “Fratelli guerrieri, noi stiamo per iniziare un combattimento dal quale io non uscirò vivo, perché il mio corpo resterà sul terreno” (Charles Hamilton, “Sul sentiero di guerra”, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 202).

Erano le parole di un uomo triste, amareggiato e disilluso dal comportamento pusillanime dell’alleato inglese: infatti, prima che iniziasse lo scontro, si spogliò dell’uniforme di brigadier generale per indossare un abito di pelle di daino tipico della sua tribù.

Tecumseh voleva dunque presentarsi all’estremo appuntamento con il suo sfortunato destino nelle vesti di un vero Indiano.

Secondo fonti americane, il suo corpo venne martoriato per prelevare strisce di pelle da esibire come trofeo, ma alcuni Shawnee smentirono tale versione, sostenendo che il cadavere del condottiero venne portato via dai suoi guerrieri e sepolto in un luogo che i Bianchi non avrebbero mai scoperto.

Il colonnello Henry Proctor fu processato da un tribunale militare, che lo condannò, per l’incapacità dimostrata nel condurre le operazioni, alla sospensione dal grado, con privazione dello stipendio, per sei mesi. Inoltre l’ufficiale venne pubblicamente biasimato per la sua condotta e destinato in seguito a compiti secondari.

Tecumseh era caduto, all’età di 45 anni, mentre inseguiva un progetto impossibile.

Nessun altro leader politico o militare pellerossa sarebbe stato capace, nei successivi settant’anni, di concepire un disegno più grande del suo.

[continua]

 

Accanimento. Secondo fonti americane, il suo corpo venne martoriato per prelevare strisce di pelle da esibire come trofeo, ma alcuni Shawnee smentirono tale versione, sostenendo che il cadavere del condottiero venne portato via dai suoi guerrieri e sepolto in un luogo che i Bianchi non avrebbero mai scoperto.

 

 

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