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A cura di Domenico Rizzi

La cacciata degli Spagnoli

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opo la lunga esplorazione compiuta da Francisco Vasquez de Coronado a nord della Sonora messicana, tramontato il sogno di trovare le mitiche Città d’Oro di Cibola, gli Spagnoli avevano iniziato la colonizzazione dell’area sud-occidentale degli attuali Stati Uniti.

Nell’estate 1598 don Juan de Onate da Zacatecas, rappresentante del re di Spagna, fece la sua comparsa nel paese con un seguito di 130 uomini e 400 coloni. Dodici anni dopo, don Pedro de Peralta stabilì la capitale della colonia, chiamata Nuova Mejico, a Villa Real de la Santa Fè de San Francisco de Asis – divenuta poi la città di Santa Fè - insediandovi un presidio armato permanente, che doveva servire a proteggere i nuovi insediamenti dalle incursioni delle tribù selvagge, principalmente gli Apache, i Navajo e gli Ute.

I Pueblo, un vasto raggruppamento di origine uto-azteca distribuiti in una serie di villaggi e suddivisi in alcune importanti tribù – Hopi, Pima, Moqui, Keres e Tano, Tewa, ecc. – comprendevano a quell’epoca circa 35.000 individui, che vivevano in abitazioni di “adobe” (mattoni di paglia, argilla e fango essiccati al sole) e praticavano l’agricoltura.

Se l’arrivo di Coronado aveva permesso l’introduzione del cavallo – il “mesteno” spagnolo destinato a diventare poi il “mustang”, un equino di piccola taglia estremamente robusto e resistente che si riprodusse velocemente allo stato brado – Onate fece conoscere ai Pellirosse gli animali da allevamento. Infatti, al momento della conquista si era portato dietro circa 7.000 capi di bestiame, fra pecore, capre, bovini, oltre alle numerose cavalcature del suo esercito.

I Navajo furono fra i primi indigeni del territorio a venire in possesso e ad allevare ovini, fino a diventarne in pochi anni i maggiori allevatori del Sud-Ovest. Non per questo rinunciarono alle azioni di guerriglia contro le tribù nemiche, alle razzie ai danni dei colonizzatori e al commercio degli schiavi, soprattutto di donne e bambini.

Ma gli Spagnoli non portarono soltanto elementi utili all’economia delle tribù. I loro missionari iniziarono un’intensa azione di catechizzazione degli “Indios”, inducendoli a rinnegare la propria religione e ad abbracciare il Cristianesimo. Le autorità politiche, intanto, imposero esosi tributi alle tribù sedentarie, obbligandole a consegnare notevoli quantità di mais, grano e prodotti ortofrutticoli.

Le tribù di matrice pueblo furono le più colpite da queste misure. Essendo di norma sedentarie, non potevano infatti sfuggire facilmente al controllo dei nuovi padroni. Vessate dagli Spagnoli e sistematicamente depredate da bande di Apache, Ute e Navajo, non tardarono a nutrire sogni di rivolta.

Nel 1675 alcuni gruppi, che si riunivano segretamente nei “kivas” – specie di sotterranei – scelsero come loro capo e guida spirituale Popè, uno sciamano appartenente alla tribù dei Tewa. L’uomo, soprannominato San Juan e dotato di un carisma irresistibile, si era mostrato un intransigente oppositore della dominazione bianca. Arrestato per ordine del governatore Juan Francisco de Trevino con il sospetto di praticare la stregoneria e di essere responsabile dell’uccisione di alcuni missionari cattolici, era stato scarcerato per mancanza di prove, recandosi poi a Taos per organizzare la resistenza armata contro gli occupanti. In una riunione segreta, cui parteciparono capi di varie tribù, rivelò di essersi messo in contatto con l’Entità Suprema, che esigeva l’unione di tutti i Pueblo per liberarsi del giogo spagnolo.

Confidando nell’accordo della maggior parte dei condottieri tribali e nella notevole superiorità numerica rispetto agli invasori – i Pueblo, ancorchè falcidiati da epidemie e malattie varie, costituivano ancora una forza di 25.000 persone, mentre gli Spagnoli erano circa 2.600, concentrati soprattutto a Santa Fè e dintorni – Popè preparò il suo esercito con cura, aspettando il momento propizio per accendere la scintilla dell’insurrezione.

La data d’inizio della guerra era stata stabilita per il 13 agosto 1680, ma il timore che le autorità scoprissero il piano eversivo la fece anticipare al giorno 10.

Non appena scoppiarono le ostilità, gli Indiani si trovarono in notevole vantaggio, potendo contare sulla sorpresa. Così, in pochi giorni trucidarono 420 soldati e coloni e 22 missionari, cingendo d’assedio la stessa Santa Fè. Nonostante una coraggiosa sortita compiuta il 20 agosto – che portò alla cattura di 47 Pueblo, fatti poi impiccare nella pubblica piazza - gli Spagnoli furono costretti ad abbandonare anche la capitale.

Oltre 2.000 sudditi del re di Spagna, Filippo II, lasciarono i possedimenti usurpati agli Indiani nella mani dei legittimi proprietari e si diressero verso il Rio Grande del Norte, abbandonando la colonia al suo destino. Popè diramò immediatamente ordini perentori di cancellare ogni traccia dell’odiata dominazione, dai simboli del Cristianesimo – le chiese furono abbattute o trasformate in stalle – agli insediamenti colonici. Fu vietato inoltre l’uso della lingua spagnola e vennero imposte sanzioni durissime per chi avesse trasgredito alle nuove disposizioni.

Purtroppo, anche in questo frangente emerse l’assoluta incapacità degli Indiani a coalizzarsi per una causa comune, che interessava la libertà di tutti. Apache e Ute, nemici tradizionali dei Pueblo, sfruttarono l’allontanamento delle postazioni spagnole per godere di maggior libertà nei saccheggi a danno delle tribù agricole. Come se questo flagello non bastasse, il dispotismo di Popè, trasformatosi presto in un monarca assoluto, causò una netta spaccatura in seno ai Pueblo e non tardò a provocare una guerra civile, che vide contrapporsi un’alleanza di Keres, Taos e Pecos alla coalizione formata da Tewa e Tano, guidata da Tupatù. La vittoria di quest’ultimo e la momentanea deposizione del tiranno, non furono di lunga durata, perché nel 1688 Popè si riappropriò del comando supremo e lo mantenne per due anni, cioè praticamente fino alla sua morte.

Intanto la Spagna e le autorità del Messico non avevano digerito lo smacco della cacciata e si preparavano a rientrare in forze nella ex colonia. Nel 1692 don Diego de Vargas, alla testa di un numeroso contingente, rioccupò il territorio senza incontrare troppa resistenza fra i gruppi tribali ormai molto disuniti e in contrasto fra loro. Tupatù, l’uomo che aveva deposto Popè, si offrì addirittura al nuovo “conquistador” come alleato, fornendogli 300 guerrieri per debellare i Pueblo del New Mexico occidentale. Ottenuta dagli Spagnoli l’investitura come capo di tutti gli “Indios” della regione di Santa Fè, ebbe i suoi problemi un anno dopo, quando stentò a domare una rivolta di contribali della fazione opposta, maltrattati e schiavizzati dagli invasori.

Subito dopo, Tupatù scomparve dalla circolazione, temendo di non riuscire più a conservare il potere che Vargas gli aveva conferito. Alcuni Pueblo riferirono che il condottiero, forse per la vergogna di essersi venduto al nemico, si diede la morte impiccandosi, ma sappiamo che spesso, nella storia del West americano, la leggenda è riuscita ad avere il sopravvento sulla storia.

Ciò che invece appare incontestabile è l’ennesimo fallimento nel tentativo di unificazione delle tribù pellirosse per fronteggiare la minaccia europea.

Divisi dall’odio e da inimicizie alimentate dall’opportunismo o dal loro stesso costume di vita, gli Indiani finirono per spalancare le porte alla colonizzazione spagnola, che dal Nuovo Messico si estese alla California e al Texas, creando insediamenti sempre più numerosi e stabili.

Nessuna rivolta indigena sarebbe mai più riuscita a cancellarli in seguito.

[continua]

 

Missionari. Ma gli Spagnoli non portarono soltanto elementi utili all’economia delle tribù. I loro missionari iniziarono un’intensa azione di catechizzazione degli “Indios”, inducendoli a rinnegare la propria religione e ad abbracciare il Cristianesimo.

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