e spese sostenute dalla Gran Bretagna durante la guerra dei Sette
Anni e nella successiva insurrezione di Pontiac formarono la
premessa per un inevitabile scontro fra la popolazione delle colonie
e la corona, sempre più incapace di comprendere le esigenze dei
sudditi americani.
In conseguenza del notevole sforzo finanziario sostenuto, gli
Inglesi applicarono nuove imposte e inasprirono quelle già
esistenti, suscitando una protesta crescente dal 1765 in poi.
Da anni le 13 colonie (New Hampshire, Massachussets, Connecticut,
Rhode Island, New York, New Jersey, Pensylvania, Maryland, Virginia,
Delaware, Georgia, North e South Carolina) avevano sviluppato
economie floride ed in continua crescita, consolidando i rispettivi
assetti territoriali ed assumendo sempre più l’aspetto di un’enclave
autonoma nel variegato mosaico dell’impero britannico.
Dopo aver debellato a più riprese i Pellirosse, i coloni
aspiravano ad allargare i loro possedimenti verso occidente, al di
là della catena dei Monti Appalachi, in direzione dei Grandi Laghi e
del fiume Mississippi.
L’ascesa al trono di Giorgio III si era rivelata un pesante freno
alla loro azione, perché l’Inghilterra – temendo che l’eccessivo
potenziamento delle colonie nordamericane accentuasse le spinte
autonomiste di alcuni territori – aveva posto un severo divieto al
superamento dei confini imposti. Con un discusso proclama del 1763,
infatti, il re aveva definito “Indian Country” le regioni ad
occidente degli Appalachi, ordinando ai coloni di evacuare le
proprietà tribali.
In secondo luogo, vi era addirittura il timore che l’espansione
verso ovest potesse creare conflitti intercoloniali, nei quali la
madre patria avrebbe dovuto necessariamente svolgere un ruolo da
paciere.
Da ultimo, l’aumento della pressione fiscale, ufficialmente
dovuta alle spese di guerra, ebbe il potere di alimentare il diffuso
malumore fra i colonizzatori americani di lingua inglese.
La protesta iniziale riguardò l’introduzione dei dazi e delle
carte bollate. Se la prima tassa venne accolta abbastanza
pacificamente, in quanto gravava solamente sui prodotti importati
dall’esterno, la seconda (Stamp Act,1765) causò la prima vera
ribellione dei cittadini, che ammucchiarono la carta bollata e vi
diedero pubblicamente fuoco, ottenendo nel 1766 la revoca
dell’imposizione. Quasi nessuno degli oltre 2 milioni e mezzo di
Nordamericani pensava però, in quel momento, ad una vera e propria
lotta per l’indipendenza e Giorgio III rimase, ancora per un
decennio, l’indiscusso sovrano delle colonie del Nord America.
Negli anni successivi, la pressione fiscale inglese riprese a
crescere, imponendo nuove tasse sulla carta, sul vetro, sulle
vernici e sul tè. Il 5 marzo 1770 un gruppo di dimostranti venne
disperso a fucilate dalla guarnigione di Boston, che uccise 5
dimostranti. Poi, nel giugno 1772, un’altra banda di contestatori
incendiò un “cutter” delle dogane inglesi al largo del Rhode Island.
In dicembre, esistevano già nel Massachussets decine di gruppi di
protesta denominati “Comitati di Corrispondenza”, presenti in 75
città e villaggi. Contemporaneamente in Virginia ed altrove si
costituivano le “Assemblee Permanenti” per seguire l’evolversi della
situazione e prendere decisioni comuni.
Tutto ciò non lasciava ancora supporre lo scoppio di una vera
rivoluzione, perché il distacco dalla madre patria veniva invocato
soltanto dal minoritario Movimento Radicale. Benjamin Franklin,
rappresentante delle colonie a Londra, scrisse infatti al riguardo:
“In mezzo a noi sembra esistano spiriti violenti che sono favorevoli
ad una rottura immediata, ma io confido che la generale prudenza del
nostro Paese riconosca che, grazie alla nostra crescente forza,(..)
le nostre richieste saranno appagate…” (Winston Churchill, “L’età
della rivoluzione”, Bur, Milano, 2003, p. 175)
Per acquietare la protesta, il governo inglese si decise ad
abolire i dazi ed altre gabelle, ma mantenne l’imposta sul tè, non
foss’altro che per riaffermare il proprio diritto ad imporre tasse
ai propri sudditi d’oltre oceano.
Per reazione, i coloniali incominciarono ad approvvigionarsi di
questo prodotto in Olanda, mandando in crisi la Compagnia delle
Indie Orientali, venutasi a trovare, in poco tempo, con milioni di
libbre di thè invenduto. Per risolvere la questione, la Compagnia
decise di abbassare notevolmente il prezzo del prodotto e ne spedì
tre navi cariche nel porto di Boston, nella speranza di
riconquistare i consumatori americani. Questi però, dopo essersi
consultati fra loro, mandarono una squadra di sabotatori, travestiti
da Indiani, nel porto di Boston e una notte di dicembre del 1773
gettarono a mare l’intero carico.
John Adams, futuro presidente degli Stati Uniti, scrisse che la
“distruzione del thè” era stata così “ardita, temeraria, decisa,
intrepida, inflessibile” da rappresentare “una pietra miliare nella
storia” (Churchill, op. cit., p. 176).
Nel settembre 1774 le colonie tennero un’assemblea generale a
Philadelphia e redassero un documento comune in cui chiedevano a
Londra l’abolizione di diversi decreti commerciali emanati negli
ultimi anni. Il governo inglese respinse categoricamente la
petizione e il governatore del Massachussets, generale Thomas Gage,
istituì la legge marziale. In ottobre le colonie avevano già dato
vita ad un “Comitato di Salute” e stavano mobilitando uomini armati
un po’ dovunque: in poco tempo avrebbero avuto a disposizione 10.000
rivoltosi soltanto nel Massachussets, ai quali la Gran Bretagna
poteva opporre circa 4.000 soldati di guarnigione.
L’8 aprile 1775, lungo la strada fra Lexington e Boston, 70
miliziani coloniali sfidarono 800 militari inglesi incaricati di
distruggere un deposito illegale di armi a Concord. Le truppe
britanniche riuscirono a proseguire, uccidendo 8 indipendentisti, ma
ormai la rivolta si stava accendendo in altre località.
La rivoluzione americana era incominciata.
[continua]