l momento dello scoppio delle ostilità, l’opinione pubblica inglese
sembrava molto divisa sull’impiego di ausiliari indiani contro i
ribelli delle colonie.
Nel corso di un acceso dibattito parlamentare, vi era chi
stigmatizzava l’uso dei guerrieri pellirosse, come si era fatto
varie volte nei conflitti anglo-francesi, per la loro indiscutibile
ferocia.
Lo stesso massacro di Fort William Henry e le più recenti
distruzioni provocate dalla “Cospirazione di Pontiac” costituivano
una ragione sufficiente a rinunciare all’appoggio di questi
“selvaggi sanguinari” in una contesa che costituiva, per
l’Inghilterra, un “affare di famiglia”.
Anche Sir William Pitt, conte di Chatham e ministro della corona,
stigmatizzò in un appassionato discorso, il loro “cannibalismo
impietoso e la sete per il sangue dei nostri uomini, donne e figli”
(John Tebbel-Keith Jennison, “Le guerre degli Indiani d’America”,
Newton & Compton, Roma, 2002, p. 78).
Purtroppo le dichiarazioni d’intenti non servirono a tenere gli
Indiani fuori dal conflitto, sebbene il Congresso delle colonie
avesse esortato diverse tribù a mantenere un’assoluta neutralità.
William Johnson, l’uomo che aveva coinvolto gli Irochesi nella
Guerra dei Sette Anni contro la Francia, si era già adoprato
affinché le Sei Nazioni spalleggiassero l’Inghilterra nel nuovo
conflitto coloniale. Alla sua morte, avvenuta mentre si spargeva
l’eco dei primi moti insurrezionali, il genero, colonnello Guy
Johnson, proseguì la sua opera, gratificando gli Indiani di molti
doni in cambio del loro intervento.
La forza di guerra potenziale degli Indiani era ancora notevole: se
ogni tribù avesse fornito tutti i guerrieri disponibili, si sarebbe
raggiunto il considerevole numero di 30.000 combattenti.
La naturale predisposizione alla guerriglia dei Pellirosse,
avrebbe reso questa presenza, almeno in alcune regioni,
determinante, ma per una serie di ragioni nessuno dei due
contendenti potè assicurarsi l’appoggio completo di una simile
armata.
Diverse tribù rimasero neutrali, la maggior parte di quelle
entrate in conflitto ribadì la propria fedeltà alla corona ed altre
parteggiarono per gli Americani, creando uno scacchiere assai
complesso e non sempre comprensibile.
Comunque, sia gli Inglesi che gli indipendentisti tentarono di
ottenere l’alleanza dei nativi, sfruttando la loro abilità tattica e
soprattutto la conoscenza dei luoghi che sarebbero stati teatro
dello scontro.
Qualche anno più tardi, il generale George Washington, comandante
supremo dei rivoltosi, presentò al Congresso provvisorio la
richiesta di arruolare 400 ausiliari indiani fra le proprie file.
In realtà, a quel punto della guerra, anche gli Inglesi avevano
già sfruttato l’aiuto dei Pellirosse, perché Thomas Jefferson accusò
il re Giorgio III di avere sollevato “contro gli abitanti delle
nostre frontiere i selvaggi e spietati indiani la cui ben nota
condotta di guerra è di sterminare senza pietà esseri di ogni sesso,
età e condizione.” (Philippe Jacquin, “Storia degli Indiani
d’America”, Mondadori, Milano, 1977, p. 122).
I combattenti pellirosse impiegati nel corso della Rivoluzione
non furono certamente lo stesso numero presente in precedenti
contese. Nessun contingente, inglese o americano, ne ebbe mai a
disposizione più di un migliaio per volta.
La lega irochese si frazionò di nuovo, indebolendosi ulteriormente:
Oneida e Tuscarora si schierarono con gli insorti, le altre tribù si
mantennero fedeli all’Inghilterra oppure, in minima parte, cercarono
di tenersi fuori dalle vicende belliche. Fra queste ultime, i Seneca
di Sagoyawatha o Giacca Rossa, che tuttavia decisero in seguito di
passare con l’Inghilterra per sostenere l’azione dei fratelli
Onondaga, Cayuga e Mohawk.
Nel 1777 i Cherokee firmarono un trattato di pace con gli
Americani, ma la fazione di Trascina-La-Canoa lo respinse,
trasferendosi sul Chickamagua Creek per proseguire le ostilità
contro gli insorti. Invece Cornstalk (Hokolesqua) capo degli Shawnee,
si limitò a diffidare gli Americani dal compiere rappresaglie contro
la propria gente, ma a Fort Randolph, vicino a Point Pleasance, in
Virginia, cadde in una trappola e venne trucidato insieme ad altri
dignitari della tribù recatisi a parlamentare con la bandiera
bianca. Dopo il suo assassinio, sul quale le autorità americane
fecero aprire un’inchiesta, lo scettro della nazione shawnee passò
nelle mani del focoso Pesce Nero, che guidò una spedizione punitiva
contro Harrodsburg, nel Kentucky, massacrando 5 persone. Quindi,
nell’aprile 1778, portò un attacco contro Boonesborough,
l’insediamento fondato da Daniel Boone, ma l’assedio si protrasse
inutilmente per diversi mesi.
Ai primi di luglio del 1778 gli Irochesi filo-britannici si
unirono alle truppe del colonnello John Butler per assalire e
saccheggiare la Wyoming Valley della Pennsylvania. La spedizione
ebbe effetti devastanti sulla colonia, nella quale vennero uccisi
più di 300 miliziani americani e 200 coloni e distrutte 1.000
fattorie.
L’11 novembre dello stesso anno, sotto il comando di Walter Butler –
figlio di John – più di 600 Irochesi ripeterono la razzia a Cherry
Valley, nel territorio di New York. All’azione presero parte
soprattutto i Mohawk di Thayendanegea, chiamato Joseph Brant, i
Seneca di Guacinge e del mezzosangue Garganwahgah, detto Cornplanter,
figlio di John Abeel e di una squaw irochese. Il villaggio venne
distrutto e dato alle fiamme, lasciando sul terreno 42 soldati
americani e 32 civili, mentre svariate decine di prigionieri furono
condotti via. Di molti di loro, nessuno seppe più nulla. Anche in
quest’occasione la ferocia degli Indiani esplose senza freni, al
punto che il colonnello Butler censurò severamente il figlio Walter,
per avere permesso – come Montcalm a Fort William Henry – che la
barbarie prevalesse sulla pietà. Ma, per amore del vero, occorre
sottolineare anche qualche episodio edificante, come quello che vide
protagonista il capo Thayendanegea, protettore e salvatore della
famiglia Shankland, affidata alla rigida sorveglianza dei suoi
temibili guerrieri.
[continua]