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A cura di Domenico Rizzi

I nuovi padroni

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a disfatta del maggior generale Arthur Saint Clair non lasciò indifferente il presidente George Washington e l’opinione pubblica americana. Una parte della stampa criticò tuttavia l’ostinazione del governo di volersi impossessare ad ogni costo dei territori indiani occidentali. Altre fonti sostennero l’inopportunità di continuare una campagna di conquista che si stava rivelando costosissima per la giovane nazione, appena uscita dalla guerra di indipendenza. Dopo che la Camera dei Rappresentanti ebbe sostanzialmente scagionato Saint Clair dalla responsabilità della sconfitta – i militari si erano trincerati dietro varie scuse, sostenendo di non avere il potere di giudicare un ufficiale di grado così elevato – questi non se la sentì di proseguire la missione e si dimissionò spontaneamente.

Gli Stati Uniti possedevano ormai una popolazione di oltre 5.000.000 di persone e soltanto nell’ultimo decennio gli abitanti della giovane repubblica erano cresciuti di 1.300.000 unità, a causa dell’immigrazione dall’Europa, ma soprattutto per l’elevato tasso di natalità seguito alla proclamazione dell’indipendenza. Dal Vecchio Continente giungevano annualmente 6.000-7.000 nuovi immigrati e gli Americani – specialmente quelli dei territori del Sud – importavano in continuazione schiavi africani per le loro piantagioni. Nel 1790 questa manodopera a bassissimo costo superava le 700.000 unità. Anche George Washington possedeva 300 schiavi, su un totale di circa 900 braccianti che impiegava nella sua tenuta di Mount Vernon, in Virginia. Benchè fosse cresciuto con la dura mentalità del colonizzatore inglese, li trattava umanamente e si intratteneva volentieri con le ragazze dalla pelle scura, da alcune delle quali, si diceva, aveva avuto qualche figlio illegittimo. Comunque, non aveva mai voluto cedere i suoi lavoratori di colore a nessun altro padrone, sostenendo che altrove non avrebbero goduto del medesimo trattamento.

Il presidente intendeva affrontare anche la questione pellerossa con spirito umanitario, affidandosi alle armi della diplomazia. Oltre che abolizionista “ante litteram”, Washington era un deciso assertore del principio che gli Indiani potessero coesistere pacificamente con gli Americani, imparandone i metodi di vita e le tecniche di lavorazione del suolo.

“Saremmo molto contenti di potervi elargire” disse in un appassionato discorso rivolto ad essi “tutti i doni della civiltà, di insegnarvi a coltivare la terra, a far crescere il grano, ad allevare i buoi, le pecore e gli altri animali domestici, così che possiate per sempre risiedere nella vostra terra.” (WILCOMB WASHBURN, “Indiani d’America”, Ed. Riuniti, Roma, 1992, p. 186).

Ma Washington e i suoi collaboratori erano tuttavia consapevoli del condizionamento esercitato dagli Inglesi sui Pellirosse e si crucciavano del fatto che, nonostante fosse trascorso molto tempo dalla fine della guerra d’indipendenza, le guarnigioni di 9 fortini britannici permanessero ostinatamente in territorio statunitense. Che la Gran Bretagna rifornisse, attraverso i suoi possedimenti canadesi, i selvaggi ribelli era molto più che un semplice sospetto. Infatti il brigadier generale americano James Wilkinson, comandante del Dipartimento Militare Occidentale, non esitò a denunciare che gli Indiani “si procurano armi da un paese lontano” (WASHBURN, op. cit., p. 186).  

La preoccupazione dei “federalisti” come Washington e John Adams, che avevano assunto la guida del Paese dopo la Rivoluzione, era da un lato di rafforzare l’autorità del potere centrale, dall’altro di pacificare la Frontiera occidentale, cioè quella che si allargava a perdita d’occhio a sud dei Grandi Laghi, dai Monti Appalachiani fino al fiume Mississippi, nella vastissima regione dell’Ohio, dell’Indiana e dell’Illinois. Per contro, i “democratici-repubblicani”, fra i quali Thomas Jefferson, si battevano per una maggiore autonomia degli Stati e la difesa delle libertà individuali.

Il problema dei rapporti con la Gran Bretagna era molto delicato, perché dopo lo scoppio della Rivoluzione Francese nel 1789, il governo degli Stati Uniti aveva orientato le proprie simpatie verso la Corona Inglese, prendendo le distanze dagli insorti di Parigi che si erano sollevati contro la monarchia di Luigi XVI. Nonostante questo riavvicinamento, non sembrava scongiurata la minaccia che il potente possedimento britannico del Canada rappresentava e la diplomazia americana si era messa all’opera per ottenere almeno che gli Inglesi privassero del loro sostegno le tribù indiane rimaste ostili al governo degli Stati Uniti.

Infine, la grave situazione finanziaria aveva di fatto portato ad una progressiva smobilitazione dell’esercito regolare – ridotto addirittura ad un centinaio di effettivi -dopo la vittoria definitiva contro gli Inglesi. Soltanto il perdurare dei conflitti con i Pellirosse aveva indotto le autorità a chiedere ai vari Stati membri di arruolare volontari. Proprio George Washington, consapevole dei rischi di devastazione che le incursioni indiane comportavano, aveva fatto richiamare 15.000 miliziani nel 1794, dislocandoli nei punti più caldi della Pennsylvania e delle regioni limitrofe per porre un freno ai massacri e alle razzie degli scatenati guerrieri indigeni.

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Bugie. “Saremmo molto contenti di potervi elargire” disse in un appassionato discorso rivolto ad essi “tutti i doni della civiltà, di insegnarvi a coltivare la terra, a far crescere il grano, ad allevare i buoi, le pecore e gli altri animali domestici, così che possiate per sempre risiedere nella vostra terra.”

 

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