Le vittime
e gli Americani sono diventati,
nell’immaginario collettivo, gli sterminatori per eccellenza della
razza pellerossa, lo si deve quasi esclusivamente alla enorme
popolarità raggiunta dal cinema western: i dati reali sulla
conquista del Nuovo Mondo sconfessano infatti questa tesi
assolutamente infondata.
Anche molti libri dedicati alla
storia della Frontiera, cadono sovente nella trappola di accettare
come veritiere conclusioni scontate e luoghi comuni scaturiti da
giudizi superficiali.
In base alle stime più prudenti e
comprovate dai documenti, gli Americani sostennero contro gli
indigeni una quarantina di guerre più o meno lunghe, causando loro,
dal 1775 al 1890, non più di 45.000 morti, ai quali vanno aggiunti
circa 8.000 caduti in episodi “individuali”, cioè al di fuori dei
conflitti. Dunque, il totale è di 53.000 Pellirosse uccisi in 115
anni, con una media di poco superiore ai 450 morti all’anno: per
questa ragione gli scontri sostenuti dall’esercito con le tribù
selvagge non furono mai considerati come vere e proprie guerre dal
governo degli Stati Uniti.
Soltanto nel decennio che
precedette lo sbarco di Hernàn Cortès, gli Aztechi immolarono alle
loro divinità un numero di vittime – tutti Indiani presi prigionieri
ad altre tribù o appartenenti alla loro stessa gente – almeno
quattro volte superiore, dal momento che la media di persone
immolate annualmente si aggirava di norma fra le 18.000 e le 20.000,
raggiungendo, in qualche occasione “speciale”, il doppio o il triplo
di queste cifre. Lo stesso Cortès scoprì, dopo la conquista di
Tenochtitlàn, alcuni fabbricati stipati di crani e scheletri umani:
in uno solo di questi, dalle notevoli dimensioni, i suoi uomini
contarono oltre 130.000 crani ed altri reperti umani.
Che i regni indigeni preesistenti
alla conquista europea fossero contrassegnati da una comune matrice
sanguinaria è ormai ampiamente dimostrato, sebbene, quando si parla
di Aztechi, Maya o Inca, si preferiscano sottolineare gli aspetti
più edificanti di queste culture, come le conoscenze di astronomia,
le grandi realizzazioni urbanistiche e la sensibilità verso l’arte e
la poesia.
Ma se vogliamo fare dei paragoni
fra i colonizzatori delle Americhe, gli Spagnoli detengono
senz’altro il primato di sterminatori della razza rossa rispetto a
Francesi, Olandesi ed Inglesi, mentre gli Americani si possono
considerare addirittura dei dilettanti in comfronto ai popoli
colonialisti. Le azioni di guerra compiute dall’esercito
statunitense, da corpi paramilitari o civili provocarono infatti, in
oltre un secolo, un numero poco significativo di vittime, la maggior
parte delle quali concentrate nel periodo dal 1779 al 1840, quando
vennero attuate le severe repressioni contro Irochesi, Cherokee,
Creek, Shawnee, Pottawatomie, Sauk e Fox.
Il biglietto da visita dei “conquistadores”,
appena dopo la scoperta di Cristoforo Colombo, fu un segnale di
morte per i nativi.
I primi ad essere sterminati furono
gli Arawak e gli altri Indios dell’America centrale, poi toccò a
quelli del Nord e del Sud America. Secondo i demografi della scuola
californiana di Berkeley, la popolazione india dell’America Latina
subì un vero e proprio collasso fin dagli inizi della colonizzazione
ispanica. Nella sola isola di Santo Domingo, su circa 1.000.000 di
indigeni stimati all’epoca della scoperta colombiana, ne rimanevano
appena 16.000 nel 1520; in Messico, intorno al 1548, gli abitanti
originari non superavano i 6.000.000.
Nonostante
tali cifre non siano condivise da tutti gli studiosi, che ritengono
eccessivamente esagerate le stime riguardanti il periodo antecedente
la conquista europea, è un fatto incontestabile che gli Indios
ebbero un vero e proprio tracollo demografico in pochi decenni.
Responsabile della tragedia fu la repressione militare attuata dai
conquistadores, ma, in misura assai maggiore, la diffusione delle
epidemie. Per citare un solo esempio, la febbre tifoidea che si
propagò in Messico nel 1545 uccise 400.000 persone della popolazione
originaria.
[continua]
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