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A cura di Domenico Rizzi

La grinta di Jackson

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ià nel corso dell’ultima vittoriosa battaglia a Talladega, di fronte al contrattacco dei Creek, diversi volontari avevano preferito abbandonare il campo, con la scusa che il loro ingaggio fosse ormai scaduto. La questione esisteva dai tempi di George Washington, perché gli Stati Uniti erano sempre stati contrari a mantenere in servizio un vero e proprio esercito permanente in tempo di pace.

Questa tendenza non avrebbe subito significative inversioni almeno fino allo scoppio della guerra contro il Messico, nel 1845, terminata la quale l’esercito americano sarebbe rimasto comunque uno dei più ridotti del mondo civilizzato, fatta eccezione per i due periodi coincidenti con la Guerra Civile nel 1861-65 e la Prima Guerra Mondiale.

Anche nella fase più impegnativa delle cosidette “guerre indiane” dell’Ottocento – le campagne contro Toro Seduto, Cavallo Pazzo, Capo Joseph, Geronimo – Washington non impiegò mai più di 25.000 uomini, contingente che venne addirittura ridotto nel 1874, in conseguenza di una seria crisi economica.

La grave carenza veniva compensata, quando se ne ravvisava l’esigenza, con il massiccio ricorso alle milizie di Stato, spesso un’accozzaglia eterogenea formata da sfaccendati, cacciatori di pellicce e gente che non sapeva come cavarsela altrimenti nella vita.

E’ vero che in mezzo a queste persone si trovavano anche personaggi come Davy Crockett, destinato a diventare presto un eroe nazionale. Nato il 17 agosto 1786 nel Tennessee orientale, era rimasto semi-analfabeta, avendo frequentato la scuola poco più di tre mesi, ma possedeva audacia da vendere. Cresciuto nelle paludi e nei boschi della sua terra, questo gigante di due metri di statura si vantava di essere “mezzo orso e mezzo alligatore”, avvezzo a sostenere furibonde scazzottate con gli avversari e combattimenti con gli Indiani, che sicuramente non amava. A proposito dei Creek uccisi nella battaglia di Tallassahatchee, aveva infatti dichiarato: “Li ammazzammo come dei cani!”.

Ma non tutti gli uomini messi a disposizione di Jackson erano dello stampo di Crockett. La maggior parte di essi se la svignava volentieri dinanzi al pericolo, piantando in asso i loro ufficiali che invano strepitavano ordini, minacciando severi provvedimenti disciplinari.

La precarietà delle truppe di Jackson, impiegate in una campagna logorante senza un adeguato supporto logistico, fece emergere ulteriori difficoltà. Mentre centinaia dei suoi uomini gli ponevano davanti la scadenza della ferma ai primi di dicembre, le provviste erano esaurite e i miliziani si dovettero sfamare con le ghiande raccolte nei boschi, nella vana attesa che qualche autorità provvedesse al vettovagliamento.

La situazione era tanto drammatica quanto paradossale, perché in due battaglie Jackson aveva eliminato circa 500 Indiani ribelli, costringendone parecchi altri al ritiro o alla fuga nelle terre dei Seminole, in Alabama e Florida.

Quando finalmente giunsero i rifornimenti, i volontari del Tennessee non ne volevano più sapere di continuare a combattere. Il sanguigno comandante, però, riuscì a dissuaderli minacciando di uccidere il primo che avesse deposto il fucile. Poi li convinse a rimanere in armi almeno fino all’arrivo di un nuovo contingente che li doveva sostituire.

In effetti i rinforzi – più di 1.400 uomini giunti dal Tennessee - arrivarono davvero, ma il generale dovette constatare amaramente che neppure di questi avrebbe potuto disporre molto a lungo, perché la maggior parte di essi erano prossimi al congedo. Infuriato e costernato, Jackson si oppose con le sue consuete maniere brutali a questa eventualità, ma non riuscì ad arginare una defezione di massa. I suoi uomini se ne andarono a decine per la scadenza dei termini dell’arruolamento, mentre altri avevano di fatto disertato, allontanandosi dal comando senza alcun preavviso.

Nonostante ciò, il generale di ferro non si arrese alla difficile situazione, rifiutando l’ordine ricevuto dal governatore del Tennessee, William Blunt, che gli intimava il rientro dalla missione. In una accorata lettera gli rispose infatti che, sebbene gli fossero rimasti soltanto 500 elementi, non aveva la benchè minima intenzione – “piuttosto perirei”, scrisse - di permettere che i Creek di Weatherford si riorganizzassero, mettendo magari insieme in pochi mesi un rinnovato esercito di 5.000 guerrieri, grazie a rinnovate alleanze con altre tribù. Servendosi di un vocabolario estremamente determinato ed evitando giri di parole, “Old Hickory” esortò il governatore ad “impedire che la frontiera affogasse nel sangue” invitandolo a “chiamare alle armi tutti i contingenti…e arrestando gli ufficiali che omettono di compiere il proprio dovere” (J. Tebbel -K.Jennison”, “Le guerre degli Indiani d’America”, cit. p. 115).

Quanto a Weatherford, nonostante il sangue europeo che aveva nelle vene, non conosceva a sufficienza le possibilità, nè la caparbietà di certi Bianchi.

Soprattutto, non aveva compreso che alcuni condottieri, come Andrew Jackson, sembravano assecondare inconsciamente il loro “destino manifesto”, che li avrebbe portati al raggiungimento dei più alti traguardi.

Uomini di medicina, sciamani e profeti dei Creek erano capaci di compiere strani incantesimi che promettevano un’improbabile immunità dai proiettili del soldati, predicendo con troppa leggerezza la sconfitta del nemico. Ma non erano in grado di leggere, fra le pagine della storia futura, che il testardo generale della Carolina sarebbe diventato, di lì a qualche anno, il settimo presidente degli Stati Uniti d’America. anche per avere definitivamente schiantato la superba potenza della loro nazione.

[continua]

 

Precarietà. La precarietà delle truppe di Jackson, impiegate in una campagna logorante senza un adeguato supporto logistico, fece emergere ulteriori difficoltà. Mentre centinaia dei suoi uomini gli ponevano davanti la scadenza della ferma ai primi di dicembre, le provviste erano esaurite e i miliziani si dovettero sfamare con le ghiande raccolte nei boschi, nella vana attesa che qualche autorità provvedesse al vettovagliamento.

 

 

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