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A cura di Domenico Rizzi, immagini di Renato Ruggeri

Horseshoe Bend

V

erso la fine dell’inverno, Andrew Jackson era pronto a condurre la sua milizia, reclutata nel Tennessee occidentale, verso l’ultima roccaforte creata da William Weatherford sul fiume Tallapoosa, in un luogo chiamato dai Bianchi Horseshoe Bend. Gli Indiani ribelli avevano ribattezzato la loro postazione con il nome di Fort Toulouse.

Le forze dei Creek, composte prevalentemente dalla fazione dei Bastoni Rossi, ammontavano più o meno ad un migliaio di guerrieri, perché diversi nuclei erano dislocati altrove, nei posti che Aquila Rossa aveva ritenuto di importanza strategica.

Invece Jackson, che già disponeva di un contingente più numeroso rispetto al nemico, attendeva ingenti rinforzi, che avrebbe ottenuto di lì a poco tempo. Infatti il governatore del Tennessee, William Blunt, recepita la sua protesta, si era convinto che con i Pellirosse si dovesse giocare la partita finale, impedendo che si riorganizzassero come sosteneva il generale. Cosi, in poco tempo, le truppe di Jackson raggiunsero le 5.000 unità, delle quali 3.300 alle sue dirette dipendenze. All’inizio di febbraio del 1814 il comandante supremo aveva infatti ricevuto l’appoggio di 600 soldati regolari del 39° Battaglione di Fanteria, che andavano ad aggiungersi alla sua già temibile formazione. Complessivamente Jackson disponeva ora di 2.000 fantaccini e 700 uomini di fanteria a cavallo, supportati da 600 Cherokee e Creek del Sud dissidenti.

A Horseshoe Bend Aquila Rossa-Weatherford aveva invece dislocato 900 combattenti, ma doveva difendere circa 300 donne e bambini accampati nel villaggio.

La sproporzione di forze in campo era ovvia, ma il leader dei Creek non se ne preoccupava più di tanto. Il territorio era immenso e selvaggio e il valore dei suoi guerrieri non era certo inferiore a quello degli uomini dell’avversario. Forse sperava anche che gli Americani si comportassero come in altre circostanze precedenti, disertando in massa, ma non conosceva bene Jackson e i suoi metodi.

Fin dall’inizio il generale impose a tutti, specialmente ai miliziani che risultavano da sempre i più indisciplinati, regole di comportamento molto rigide, mostrandosi intransigente e per nulla disposto a tollerare trasgressioni. Sospese dal comando e rimandò alla base di partenza due generali, punì severamente ufficiali e soldati che avevano commesso mancanze o semplici leggerezze, fece fucilare una giovane recluta appena diciassettenne per insubordinazione e minacce ad un superiore. Con ciò si attirò l’odio di molti commilitoni e le critiche di avversari politici, ma si guadagnò indiscutibilmente la gratitudine della gente di Frontiera.

Il 27 marzo 1814 all’alba, “Old Hickory” mosse con tutto il suo contingente verso Horseshoe Bend. Il generale John Coffee guidò i fanti a cavallo e gli alleati indiani verso la parte meridionale del grande villaggio, mentre Jackson avrebbe attaccato da nord con circa 2.000 uomini della fanteria a piedi.

Accortosi che i Creek avevano predisposto una flottiglia di canoe lungo il fiume per tenersi aperta la via di scampo più praticabile, il generale ordinò ad un gruppo di esploratori di disperdere le imbarcazioni o di renderle inservibili. Poi, con un lampo negli occhi, lanciò al suo stato maggiore un terribile avvertimento: “Qualunque ufficiale o soldato che fugge davanti al nemico senza essere costretto a farlo da forze preponderanti… sarà messo a morte.” (Tebbel-Jennison, op. cit., p.117).  

Poco dopo le dieci del mattino, ordinò di aprire il fuoco con i due pezzi di artiglieria che aveva fatto piazzare ad una certa distanza dall’accampamento. Non appena cominciarono a cadere i primi proiettili, che per la maggior parte evitarono di colpire il campo, le donne si dispersero terrorizzate, portando con loro i propri figli, mentre i guerrieri si prepararono a sostenere l’assalto americano.

Allora il generale attese che le squaw si fossero messe in salvo, prima di dare inizio alla carica decisiva.     

BAGNO DI SANGUE

 Il 39° Battaglione Fanteria fu il primo ad irrompere nella postazione fortificata, perdendo subito un maggiore ed alcuni soldati. Poi il grosso delle truppe di Jackson avanzò risolutamente incontro agli Indiani, con le baionette inastate.

Diversi Creek, comprendendo che la battaglia era perduta in partenza, cercarono scampo verso il fiume, ma i tiratori scelti li sterminarono senza pietà, uccidendo anche coloro che tentavano di salvarsi a nuoto. Comunque, la maggior parte dei guerrieri – che erano comandati da Menawa – si mostrarono determinati a resistere ad oltranza, nonostante la schiacciante superiorità numerica degli avversari.

Anche in questa occasione, il fanatismo religioso contribuì ad accrescere il numero delle vittime, perché gli sciamani avevano profetizzato che una grossa nube sarebbe apparsa nel cielo, assicurando la vittoria ai Creek. Il caso volle che l’evento accadesse realmente proprio nella fase culminante dello scontro: infatti una nube si formò improvvisamente all’orizzonte, galvanizzando gli uomini di Menawa, che contrattaccarono disperatamente, esponendosi al micidiale fuoco del nemico. Poco dopo, uno scroscio di pioggia disperse sul terreno il sangue che sgorgava dai cadaveri e dai feriti, tingendo il suolo di un rosso cupo.

Il prodigio non si era compiuto e la tragedia sembrava ancora più immane.

Su 900 combattenti indiani che avevano partecipato al combattimento, 557 giacevano a terra, morti o in fin di vita. Altri 200 erano periti nel fiume, annegati o fucilati senza pietà dai cecchini di Jackson. L’ultimo nucleo di resistenti, trinceratosi in un crepaccio, fu stanato e sterminato con frecce incendiarie, che Cherokee e Creek alleati degli Americani avevano confezionato allo scopo. Per un increscioso errore, come si giustificò in seguito Jackson, anche alcune donne erano state uccise dai proiettili dei suoi soldati.

La battaglia di Horseshoe Bend si concluse al tramonto.

Le perdite statunitensi consistevano in 49 morti e 154 feriti, ai quali andavano aggiunti i 18 caduti ed i 36 feriti degli ausiliari indiani. Fra i militari colpiti dalle frecce dei Pellirosse vi era anche il terzo luogotenente Sam Houston, l’uomo che a distanza di vent’anni avrebbe diretto l’insurrezione del Texas contro i Messicani del generale Santa Anna, diventando il primo presidente dello Stato indipendente.

William Weatherford non aveva partecipato allo scontro e inutilmente Jackson lo fece cercare fra i morti e i prigionieri. Quanto al condottiero Menawa, l'’uomo che aveva diretto l’estrema resistenza dei Creek, era fuggito con un certo numero di seguaci – forse 200 persone - verso la Florida, dove contava di unirsi ai Seminole.  

Qualche giorno dopo, un uomo di alta statura e carnagione chiara si presentò senza preavviso ad Andrew Jackson, che sostava ad Hickory Ground. Con fierezza e senza tentennamenti dichiarò: “Io sono William Weatherford”. Poi disse allo sbigottito generale: “Sono venuto ad arrendermi…Non posso più opporre resistenza…I miei guerrieri sono morti. Disponete di me come volete.” (Tebbel, Jennison, op. cit. p.119).  

Era un uomo triste e disilluso, che non nutriva più alcuna speranza nella possibilità di riscatto del suo popolo.

In meno di cinque mesi, nelle due battaglie principali di Talladega e Horseshoe Bend, i Creek avevano riportato 1.100 morti, centinaia erano i feriti e ingenti le distruzioni subite. Ma non era soltanto questo ad amareggiare Aquila Rossa: la nazione si era disunita, molti suoi contribali avevano parteggiato per gli Americani e gli sciamani si erano dimostrati per l’ennesima volta dei ciarlatani.

Perciò quando si presentò al generale Jackson, quest’uomo afflitto gli parlò con sincerità: “Sono profondamente addolorato per le miserie e le disgrazie toccate fino ad ora al mio paese e voglio evitare ad esso altre maggiori calamità. Se avessi avuto da combattere solo contro l’esercito della Georgia, avrei coltivato il grano su una riva del fiume e sull’altra avrei combattuto. Ma i tuoi soldati hanno distrutto la mia nazione, tu sei un valoroso ed io mi affido alla tua generosità. Da un popolo vinto tu non pretenderai il pagamento di tributi maggiori di quanto esso non possa sostenere.” (Charles Hamilton, “Sul sentiero di guerra”, Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 203-04).

Per decisione di Jackson, Weatherford venne lasciato in libertà e si ritirò a coltivare la terra in un luogo della contea di Monroe, in Alabama. Nel 1817 rimase vedovo della seconda moglie Sapoth Tlanie e si sposò di nuovo, questa volta con una donna bianca di nome Mary Stiggins. Morì il 9 marzo 1824, all’età presunta di soli 44 anni.

Dopo la sconfitta, la strada per il suo popolo diventò tutta in salita.

Il 9 agosto 1814 Jackson impose ai Creek un oneroso trattato – siglato a Fort Jackson – obbligandoli a cedere 23 milioni di acri di territorio, equivalenti a 93.000 chilometri quadrati (quattro volte le dimensioni della Lombardia). Anche i Cherokee che avevano sostenuto la campagna contro Weatherford ne reclamarono una parte, ma il fatto più sorprendente fu che fra le terre confiscate vi erano anche quelle appartenenti ai Creek rimasti fedeli a Jackson.

In realtà si trattava di una conclusione già ripetutasi molte volte in passato. Inutilmente Grande Guerriero e Shelokta si recarono dal generale per protestare.

Chi non ne aveva voluto sapere di negoziare con i vincitori, come Menawa, si era rifugiato nella Florida spagnola dove gli Inglesi stavano rafforzando la propria presenza militare.

La tribù dei Seminole, dello stesso ceppo etnico linguistico dei Creek, rappresentava per questi disperati l’ultimo rifugio possibile.

[continua]

 

Valore. La sproporzione di forze in campo era ovvia, ma il leader dei Creek non se ne preoccupava più di tanto. Il territorio era immenso e selvaggio e il valore dei suoi guerrieri non era certo inferiore a quello degli uomini dell’avversario. Forse sperava anche che gli Americani si comportassero come in altre circostanze precedenti, disertando in massa, ma non conosceva bene Jackson e i suoi metodi.

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Sotto: Horseshoe Bend

 

 

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