opo aver concluso la pace con la nuova nazione,
gli Inglesi mantennero la loro presenza nel Nord America soprattutto
attraverso l’immenso possedimento del Canada. Tuttavia trascorsero
alcuni anni prima che alcune postazioni militari, situate a sud e ad
ovest del fiume Ohio, venissero completamente evacuate. Ciò indusse
diverse tribù indiane, che avevano sostenuto la Gran Bretagna
durante la guerra di indipendenza, a ritenere che la corona inglese
potesse giocare ancora un ruolo decisivo ai margini della
confederazione statunitense, appoggiando una parte delle loro
rivendicazioni territoriali.
Infatti, sia i Creek che altre tribù della zona
rimaste fedeli a Londra, ribadirono la loro lealtà al comandante di
Fort Augustine, una delle roccaforti britanniche della Florida in
attesa di essere sgomberata.
Durante i negoziati di pace condotti a Parigi nell’autunno 1782, gli
Americani mostrarono chiaramente di non voler riconoscere alcun
diritto di suolo agli Indiani, che consideravano dei semplici
occupanti. Ciò significava indubbiamente, per i Pellirosse, un
notevole passo indietro, poiché disconosceva gli accordi siglati nel
1768 a Fort Stanwix, che delimitava le loro aree di influenza alle
sponde del fiume Ohio.
Una delle poche voci levatesi a difesa dei
nativi nordamericani fu quella del rappresentante di Spagna Pedro
Abarca, conte de Aranda, il quale sentenziò, senza mezzi termini:
“Quel territorio è proprietà di nazioni indiane, libere ed
indipendenti e voi (Americani) non avete alcun diritto su di esso.”
(Wilcomb E. Washburn, “Indiani d’America”, Ed. Riuniti, Roma, 1992,
p. 181).
Ovviamente la requisitoria di Aranda sembrò a
tutti motivata da ragioni ben diverse da un’esigenza di rispetto
degli indigeni: la Spagna non aveva certo riconosciuto alcuna
sovranità agli Arawak, agli Aztechi, ai Maya e agli Inca nel XVI
secolo, massacrandoli e deportandoli senza pietà. Anzi, se si voleva
parlare di genocidio sistematico e spregiudicato nel Nuovo Mondo,
questo era stato compiuto proprio agli Spagnoli guidati da Cortès,
De Soto, Ponce de Leon e Pizarro, al cui paragone, Inglesi, Francesi
e coloniali americani si potevano considerare dei semplici
dilettanti.
L’unico esponente di lingua inglese che denunciò il sopruso ai danni
degli Indiani, fu William Franklin, figlio del rivoluzionario
Benjamin, rimasto fedele, a differenza del padre, alla madre patria
durante l’insurrezione delle 13 colonie. Il suo intervento non
modificò tuttavia le decisioni prese.
Se gli Stati Uniti non riconoscevano affatto la sovranità dei
Pellirosse, i Britannici non si impegnarono eccessivamente per
sostenere le loro legittime rivendicazioni. Per questo, l’agente
indiano per gli Irochesi in Canada, Daniel Claus, lamentò che il suo
governo non avesse opportunamente informato Richard Oswald,
plenipotenziario inglese alle trattative di Parigi, sui diritti
formalmente riconosciuti in passato agli Indiani da parte della
corona.
Punto nell’orgoglio, il governo britannico cercò almeno di salvare
il salvabile offrendo la propria disponibilità a proteggere le tribù
lealiste dalla inevitabile ritorsione americana.
Il comandante militare del Canada, generale
Frederick Haldiman, offrì a Joseph Brant e ai suoi Mohawk un ampio
territorio, invitando molte altre nazioni ad attraversare il confine
per porsi sotto la sua giurisdizione. L’iniziativa, accolta da un
certo numero di bande, causò la frantumazione delle confederazioni e
delle alleanze esistenti, ma impedì la distruzione di parecchi
nuclei tribali.
Da quel momento in poi e per tutto il secolo successivo, la politica
inglese verso gli Indiani si potè considerare relativamente
illuminata rispetto a quella di Washington. Non a caso, nel 1876-77
parecchie tribù del territorio statunitense – fra cui i Sioux di
Toro Seduto ed i Nez Percè di Capo Joseph – avrebbero cercato asilo
in terra canadese, per sottrarsi alle rappresaglie o sfuggire alle
imposizioni del governo federale americano.
I nuovi colonizzatori, ansiosi di espandersi verso occidente, si
guardarono bene dal riconoscere qualsivoglia diritto di proprietà ai
“selvaggi”.
Con un nuovo trattato siglato a Fort Stanwix nell’ottobre 1784,
costrinsero gli Irochesi a cedere ulteriori porzioni di territorio
negli Stati del New York e della Pennsylvania, concedendo soltanto
qualche privilegio a quelle tribù – come gli Oneida e i Tuscarora –
che avevano affiancato gli insorti nel corso della Rivoluzione.
Il consiglio delle Sei Nazioni, o di quanto rimaneva di esse,
respinse la validità del patto nel 1786, ma non ebbe la forza di
violarlo, non essendo più in grado, dopo le batoste subite nel
recente passato, di rischiare una guerra con gli Americani.
Diversa fu invece la reazione delle tribù algonchine più
occidentali, quali gli Shawnee, i Delaware, i Wyandot, gli Ottawa, i
Potawatomie, i Chippewa e i Miami, che nel 1785-86 diedero vita ad
una nuova unione di tipo federativo. Il loro scopo dichiarato era di
opporsi con ogni mezzo alla cessione di altre terre agli Stati
Uniti: perciò i loro rappresentanti stabilirono che ogni negoziato
in merito dovesse essere trattato dal consiglio intertribale,
anziché dalle singole tribù alleate. Inoltre venne ribadita la
legittimità della linea di demarcazione dei territori indiani
fissata sul fiume Ohio e furono respinte le pretese espansionistiche
americane oltre tale limite.
Il governo degli Stati Uniti disconobbe la confederazione ed i
diritti da essa invocati, accettando solamente una conferenza
generale delle tribù, che si tenne all’inizio del 1789 presso Fort
Harmar, per confermare quanto già statuito nell’ultimo trattato di
Fort Stanwix, cioè la cessione di molti territori ai coloni.
Di fronte ad un simile atto di forza, le tribù si riunirono e
incominciarono a parlare di ostilità. L’ennesima, sanguinosa guerra
di frontiera era ormai questione di mesi.
[continua]