ella prima metà
degli Anni Trenta la crescita del western, considerato soltanto
come film d’azione, aveva subito una brusca contrazione, dovuta
probabilmente all’avvento del sonoro. Nel 1935, il genere
occupava soltanto il 15 per cento dell’intera produzione
cinematografica, anche perché aveva inflazionato il mercato con
una impressionante serie di “B-movies”. Dal ’36 in poi,
ricominciò invece a crescere, tant’è che due anni dopo i western
prodotti da Hollywood erano il 12 per cento in più rispetto al
triennio precedente e nel 1939 vennero distribuiti 123 nuovi
film legati al mito della Frontiera. Ma il salto non era
soltanto numerico, bensì qualitativo. Infatti, fra le pellicole
realizzate quell’anno figuravano capolavori come “Via col Vento”
e “Ombre Rosse”.
All’inizio, la
diffidenza manifestata dai produttori verso John Ford rimaneva
molto forte. Il copione ricavato dal romanzo di Ernst Haycox,
“Stage to Lordsburg” era pur sempre, come qualcuno disse
apertamente la “trama di un film western”, cioè appartenente ad
un filone ritenuto di second’ordine.
A parte le
innumerevoli pellicole che avevano avuto come protagonista John
Wayne – per la maggior parte poco impegnate o addirittura banali
– il genere era stato quasi monopolizzato dalle figure del
cow-boy cantante o del cavaliere senza macchia e senza paura,
quali Tom Mix, Gene Autry e Roy Rogers. Le trame erano a volte
talmente semplici da sembrare dozzinali e lo spirito critico dei
cineasti del primo Novecento come Thomas H. Ince e David W.
Griffith pareva essere svanito nel nulla. Se da un lato il
costo di questi film era pressochè irrisorio, dall’altro essi
contribuivano a dequalificare completamente il western,
impedendogli di assurgere a livelli più elevati.
Con una buona
dose di anticonformismo, Walter Wanger, produttore indipendente
dopo essere passato per la Paramount e la Metro Goldwyn Mayer,
accordò la sua fiducia a Ford, consentendogli di girare “Stagecoach”,
per il quale il regista aveva già pensato a Wayne come
protagonista.
Il preventivo
di spesa era di circa 230.000 dollari, ma a lavoro ultimato ne
sarebbe costati 200.000 in più. Comunque, nell’ottobre del 1938
John Ford partì per la Riserva dei Navajo, soffermandosi
ammirato nella Monument Valley dell’Arizona.
In seguito,
avrebbe fatto di questa valle desertica il principale teatro
delle sue riprese cinematografiche, girandovi film come “Il
massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del Nord-Ovest” e
“Sentieri selvaggi”.
Ed ogni volta,
Ford scelse Wayne come protagonista assoluto.
OMBRE ROSSE
Una volta
superata la propria titubanza, certamente per il timore di dover
subire da Ford troppe osservazioni sul set – in ciò il
trentaduenne Wayne era perfettamente consapevole di non essere
un asso nella recitazione – l’attore si apprestò ad affrontare
le riprese.
Il cast che lo
circondava era davvero importante: vi figuravano John Carradine
(il giocatore Hayfield) Thomas Mitchell (Josiah Boone, il medico
ubriacone) George Bancroft (lo sceriffo Curly Wilcox) Andy
Devine (il conducente Buck) Donald Meek (il rappresentante di
liquori Peacock) ed altri caratteristi. Le interpreti femminili
erano principalmente Claire Trevor e Louise Platt,
rispettivamente nella parte della prostituta Dallas e di Lucy
Mallory, moglie incinta di un ufficiale di cavalleria.
La vicenda,
ambientata nel 1880 nel Sud-Ovest degli Stati Uniti, è
imperniata su un viaggio, da Tonto a Lordsburg, costantemente
minacciato dagli Apache di Geronimo, che soltanto nel finale
decidono di attaccare. I personaggi riflettono la società
americana dell’epoca, composta da persone oneste, funzionari
scrupolosi, banchieri ladroni, giocatori d’azzardo, prostitute e
medici ubriaconi costretti a cambiare aria, gente delusa dalla
guerra di secessione, ma è evidente la metafora con il momento
storico della Grande Depressione.
In tale
contesto si inserisce all’improvviso, come sbucato dal nulla, il
fuorilegge Ringo Kid, diretto a Lordburg per compiere una
vendetta, alla quale non rinuncerà neppure per amore.
Ringo è un uomo
provato dalla vita, disprezzato dalla gente e ricercato dalla
legge, ma conserva le caratteristiche che gli consentono di
guardare al futuro insieme alla compagna – Dallas – conosciuta
lungo il tragitto. Del resto, molte delle persone che viaggiano
insieme al bandito non sono migliori di lui, cominciando dalla
donna di cui si invaghisce. Mitchell è un uomo distrutto
dall’alcool, Henry Gatewood (Berton Churchill) ha derubato la
propria banca, Hatfield, gentiluomo originario dal Sud sconfitto
è un “gambling man”, cioè uno che si guadagna da vivere vincendo
al gioco. Sotto certi aspetti, è una fotografia dell’America dei
falliti e dei reietti che cercano un riscatto, una chance per
rifarsi. Del resto, mentre si gira il film vi sono ancora i
postumi della grande crisi del ’29 – che Ford rappresenterà
mirabilmente nel successivo film “Furore”, realizzato nel 1940 e
basato sull’omonimo romanzo di John Steinbeck – dalla quale
l’America, guidata dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt, si
appresta ad uscire con l’impegno e l’unione di tutti. L’attacco
giapponese a Pearl Harbor, nel ’41, sortirà anche l’effetto di
ricompattare una nazione rimasta idealmente divisa dai tempi
della Guerra di Secessione.
Per quanto
riguarda la lavorazione del film, Wayne si trova a malpartito
fin dai primi contatti con la Trevor e viene spesso richiamato
da Ford. E’ un uomo d’azione che non sembra trovarsi a proprio
agio nelle scene sentimentali. Il regista deve intervenire più
volte a correggere i suoi comportamenti, ma alla fine ottiene da
lui ciò che si aspettava. Peter Bogdanovich, nel suo libro “Il
cinema secondo John Ford” (Pratiche Editrice, Parma, 1990, p.
74) gli chiese se fosse vero che era riuscito a fare di Wayne
una star senza lasciarlo parlare troppo. Ford rispose: “No, non
è per niente vero. Aveva molte battute da dire, davvero molte.
Ma quello che diceva aveva un significato. Certo non faceva dei
soliloqui e dei gran discorsi.” Claire Trevor aggiunse che il
regista insegnò a Wayne qualcosa che l’attore non aveva ancora
imparato: a recitare con lo sguardo, anziché soltanto con la
bocca.
Il film, girato
essenzialmente nella Monument Valley dell’Arizona ed in alcune
aree della California, venne distribuito dalla United Artists
nel marzo 1939. Era costato esattamente 531.000 dollari e fruttò
alla produzione due Oscar: al miglior attore non protagonista,
Thomas Mitchell e alla colonna sonora ricavata dallo staff di
Richard Hageman da una serie di motivi popolari dell’Ottocento.
John Wayne non
ottenne alcun premio per la sua recitazione, ma forse da questa
esperienza si portò a casa molto di più. Per la prima volta era
stato impiegato nel suo ruolo naturale, di uomo tutto d’un
pezzo, ribelle alle regole quanto ispirato dalla giustizia e dal
sentimento. Era il prototipo dell’Americano capace di riscattare
il proprio passato e destinato a conquistare il West. La sua
figura sintetizzava la “ruvida sincerità degli umili e dei
fuorilegge” contrapposta “all’ipocrisia borghese” (Fernaldo Di
Giammatteo, “Dizionario del cinema. Cento grandi film”, Newton
Compton, Roma, 1995, p. 66).
Fra i torrioni
di roccia rossa implacabilmente arroventati dal sole, la polvere
della Valle dei Monumenti e il guado del fiume Kern in
California, era nato un mito destinato a durare nel tempo.
[continua]