i dirigenti
della Republic, la casa di produzione con la quale Wayne aveva
girato nel 1938 “Red River Range” sotto la regia di George
Sherman, “Ombre Rosse” non piacque molto. Abituati ad un western
prevalentemente d’azione, senza troppi approfondimenti
psicologici, lo definirono statico, con inquadrature e dialoghi
troppo insistiti e qualcuno non esitò a definirlo noioso. Non
avevano compreso che il genere, essendo ormai lontani i tempi in
cui era stato innalzato da registi come David Griffith e Thomas
H. Ince stava facendo un nuovo salto di qualità e neppure si
rendevano conto che John Wayne si veniva affermando come un vero
protagonista dello schermo.
Tuttavia, il
decollo dell’attore era soltanto iniziato.
Dal 1939 al
1947, anche durante il conflitto mondiale, il Duca si sarebbe
buttato a capofitto in una serie di pellicole che ne avrebbero
tenuta alta la popolarità. Infatti girò 32 film, per la maggior
parte di impronta western, ma impegnandosi anche in parti
diverse con attrici famose: per esempio, interpretò nel 1940
“Seven Sinners” (La taverna dei sette peccati) prodotto dalla
Universal, per la regia di Tay Garnett, al fianco di Marlene
Dietrich.
Con la Republic
fece nel 1942 il celebre film di guerra “Flying Tigers” (I
falchi di Rangoon, regia di David Miller) e con la RKO “La
signorina e il cow-boy”, di William A. Seiter, nel quale ebbe
come partner l’attrice Jean Arthur. Nel ’44 Wayne tornò alle
avventure sugli oceani con “The Fighting Seabees” (I
conquistatori dei sette mari, produzione Republic) diretto da
Howard Lydecker ed Edward Ludwig, con la dolce Susan Hayward
come protagonista femminile.
Poi, siccome
era in corso l’aspro conflitto contro i Giapponesi, John
interpretò due pellicole che ricalcavano il medesimo tema: “Back
to Bataan” (Gli eroi del Pacifico, 1945) di Edward Dmytrik e
“They Were Expendable” (I sacrificati di Bataan, 1945). Con
quest’ultimo tornò ad essere diretto da John Ford, dopo una
pausa durata cinque anni. Infatti, poco tempo dopo “Ombre
Rosse”, l’originale regista irlandese l’aveva impiegato nel film
“The Long Voyage Home” (Il lungo viaggio di ritorno).
Ma da Ford era
lecito che Wayne si aspettasse molto di più, perché di lì a
poco, terminato il periodo bellico, sarebbe stata prodotta la
trilogia destinata a lanciare il Duca nell’olimpo del cinema
western.
Sebbene fosse
ormai indiscutibile la sua consacrazione come attore di rilievo,
John aspettava di vedersi nuovamente alla ribalta con un grande
successo che ripetesse “Stagecoach”.
“Il massacro di
Fort Apache”, “Rio Bravo” ed “I cavalieri del Nord-Ovest”,
inframmezzati da un capolavoro come “Il Fiume Rosso” di Howard
Hawks, avrebbero assecondato questa sua aspirazione.
FORT APACHE
Lo spunto
derivava dal racconto “Massacre”, di James Warner Bellah, sul
quale Frank S. Nugent imbastì una solida sceneggiatura. Il
riferimento appariva inequivocabilmente alla battaglia del
Little Big Horn: il personaggio principale, almeno quello
negativo, sembrava in tutto e per tutto una caricatura del
Custer disprezzato dalla tradizione e condannato dagli storici,
ma inquadrato nell’arido contesto del Sud-Ovest anziché nelle
verdi distese del Montana.
Neppure gli
Indiani erano gli stessi che avevano annientato il Settimo
Cavalleria. Ancora una volta (in “Ombre Rosse” l’assalto alla
diligenza era stato guidato da Geronimo) Ford preferì gli Apache
di Cochise ai Sioux di Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Lo fece
certamente anche per un motivo paesaggistico: dare risalto alle
aspre solitudini della Monument Valley in Arizona - già teatro
di “Ombre Rosse e “Sfida infernale” - nella quale il suo
rapporto con la tribù dei Navajo era diventato familiare ed
improntato alla reciproca collaborazione.
In questo film,
prodotto dalla RKO, John Wayne non emerse inizialmente come il
personaggio principale della vicenda, imperniata sulla figura
del colonnello Owen Thurday (nella versione italiana Turner)
interpretato da Henry Fonda, nel quale Ford riponeva un’alta
considerazione. Infatti l’aveva diretto in “My Darling
Clementine” (Sfida infernale, 1946) parodisticamente rievocativo
della notissima sfida all’O.K. Corral, della cui dinamica reale
non conteneva tuttavia nulla.
Ma Wayne, il
capitano Kirby York alle prese con un superiore cocciuto e
intollerante, rappresentava l’eroe positivo e senza ambiguità,
votato ad una causa da difendere anche quando gli sembrasse
manifestamente sbagliata. Sebbene la sua parte apparisse in
ombra rispetto al carisma dominante di Fonda, sul “New York
Times” Bosley Crowther avrebbe definito ugualmente l’attore
“bravissimo, potente, schietto e genuino” (Alan G. Barbour,
“John Wayne”, Milano, 1979, p. 90)
Se Thursday
imitava un borioso Custer, la figura di Wayne era stata
modellata sul clichè dell’ufficiale saggio e capace e poteva
richiamare quella storica del capitano Frederick Benteen, l’uomo
che aveva scongiurato il disastro dei reparti e salvato l’onore
del reggimento a Little Big Horn.
In realtà, il
punto di forza del film risiedeva per buona parte nei
caratteristi, che riuscivano ad arricchire magistralmente il
contesto militare ideato da Ford.
Infatti lo
scenario si animava di attori che il pubblico avrebbe rivisto
anche nei successivi lavori del regista di origine irlandese:
John Agar, Victor Mc Laglen, Pedro Armendariz e George O’Brien.
Con “Fort
Apache” – distribuito in Italia nel 1948 con il titolo “Il
massacro di Fort Apache” – Ford inaugurò un cast destinato ad
assicurargli una trilogia di successo.
Soltanto
l’attrice Shirley Temple – interprete di Philadelphia Owen,
figlia del colonnello - non sarebbe rimasta a lungo sulla scia
di Wayne, destinato in futuro a lavorare con la rossa Maureen O’Hara,
con Joanne Dru e con la giovanissima Nathalie Wood.
Pur essendo
incontestabile che il fulcro della vicenda fosse il colonnello
Thursday, impulsivo e revanscista quanto Custer, il capitano
York rappresentava l’elemento d’equilibrio del film, il soldato
ligio al dovere, audace e coraggioso senza mai sconfinare
nell’azzardo. Le sue qualità umane erano quelle già riassunte da
Ringo Kid in “Ombre Rosse”: lo sguardo aperto e leale, insieme
alle sue maniere sbrigative e risolute, conquistarono
definitivamente il pubblico.
Wayne aveva
raggiunto l’età di 41 anni e l’era dei B-movies sembrava ormai
lontana: adesso lo attendevano grandi traguardi.
Si stava
infatti specializzando nella parte di uomo in divisa, benchè
nella vita reale non l’avesse mai indossata. Per questo, il
generale Douglas Mc Arthur, l’uomo che aveva costretto il
Giappone alla resa, gli fece forse il miglior complimento della
sua carriera cinematografica: “Lei è la più tipica figura del
soldato americano: più soldato di un soldato autentico!”
IL FIUME ROSSO
Il 1948 fu
davvero l’anno della definitiva affermazione di John Wayne.
Howard Hawks
era un regista molto apprezzato, alla ricerca di un protagonista
per girare un western “adulto”. Quando propose la parte di Tom
Dunson a Wayne, questi arricciò il naso. Avrebbe dovuto
interpretare la figura di un vecchio ranchero, arcigno e
tirannico, all’apparenza privo di sentimenti, arido come la
natura delle praterie attraversate dalle mandrie di longhorn che
solcavano le piste polverose. Soprattutto, a John non garbava
l’dea di apparire nei panni di un anziano, ma Hawks vinse le sue
resistenze con una battuta: “Duca, lo diventerai abbastanza
presto, perché non fai un po’ di pratica?”
Concluso il
contratto, il regista iniziò la lavorazione di uno dei maggiori
western della storia. Tratto dal racconto “The Chisholm Trail”
di Borden Chase, che ne curò anche la sceneggiatura, il film si
intitolò “Red River”, dal nome del fiume che fa da confine
settentrionale del Texas.
Il cast era
costituito dal bravissimo Walter Brennan (Groot Nadine) e dal
giovane Montgomery Clift (Mathew Garth), mentre l’elemento
femminile si riassumeva nella grazia di Joanne Dru (Tess Millay).
Il commento musicale venne affidato al grande Dimitri Tiomkin,
uno specialista che si sarebbe segnalato parecchie volte anche
in seguito per le geniali colonne sonore.
La trama
sviluppava un tema classico dell’epopea del cow-boy: il tragitto
di una mandria di bovini dalle pianure del Texas verso il
Missouri, poco tempo dopo la fine della Guerra Civile. Il
conflitto che in “Fort Apache” vedeva Wayne dalla parte del
giusto contro l’ostinato colonnello Thursday, era rovesciato:
l’intrattabile Dunson finiva per inimicarsi sia il saggio Nadine
che il figlio adottivo Mathew. Il duello finale assumeva
l’aspetto di una scazzottata risolutiva, portando la
rappacificazione fra i due uomini al termine di una serie di
dure peripezie.
Nella parte di
Dunson, Wayne se la cavò ottimamente, dominando letteralmente lo
schermo nonostante la bravura dei suoi co-protagonisti. L’elogio
fattogli da Hawks mise indirettamente in risalto l’eccessiva
pignoleria di John Ford, che velatamente venne accusato di
“trattare Wayne come un principiante”, nonostante l’adorazione
che il Duca nutriva per lui. “Ford fu l’unico uomo” dichiarò
senza mezzi termini lo stesso Hawks in un’intervista “a poter
abusare di Wayne e a passarla liscia, mentre io lo trattavo alla
pari”.
L’opinione del
regista sul Duca non cambiò mai più: “Wayne era maledettamente
bravo, altrimenti non sarebbe stato sulla cresta dell’onda così
a lungo” Ma Hawks scoprì un’altra grande qualità di John, quella
di saper improvvisare dialoghi e azione. “Wayne non leggeva mai
i copioni che gli davo. Voleva sempre che fossi io a
raccontarglieli…Sapeva memorizzare due pagine di battute in tre
o quattro minuti.” (da: Joseph Mc Bride, “Il cinema secondo
Hawks”, Pratiche Editrice, Parma, 1992, pp. 144-47).
Ma anche
l’esigente Ford aveva scoperto le capacità dell’attore e dopo
“Fort Apache” gli stava preparando una parte da protagonista
assoluto in un film dal romantico titolo: “She Wore A Yellow
Ribbon” (Lei portava un nastro giallo) che in Italia sarebbe
uscito come “I cavalieri del Nord-Ovest”.
Wayne aveva
sperimentato con grande successo ne “Il Fiume Rosso” la parte di
un vecchio.
Quando vestirà
i panni del capitano Nathan Brittles alle soglie della pensione
stupirà tutti per l’eccezionalità della sua interpretazione.
Ma non erano i
tempi in cui gli Oscar venivano assegnati facilmente.
Per un attore
di western, a quell’epoca l’impresa sarebbe stata addirittura
impossibile.