BILLY DIXON, TIRATORE D'ECCEZIONE
Gli appassionati del genere western conoscono l’abilità di
tiratori come Buffalo Bill Cody e Wild Bill Hickok, gli eroi
maggiormente celebrati dalla leggenda, ma non tutti sono a
conoscenza delle prodezze compiute da uomini meno noti.
Nel 1874, durante l’assedio alla postazione di Adobe Walls, nel
Texas, da parte di una banda mista di Comanche, Cheyenne, Kiowa e
Arapaho, 28 cacciatori di bisonti, accompagnati da una donna,
dovettero difendersi per alcuni giorni dagli attacchi indiani, che
avevano sferrato la prima carica la notte fra il 26 e il 27 giugno..
.
I Bianchi erano quasi tutti armati con carabine Sharps calibro
50, il “buffalo gun” più potente dell’epoca e riuscirono a tenere a
debita distanza gli assalitori, infliggendo loro numerose perdite.
Alla fine vennero lasciati sul terreno 13 cadaveri indiani, ma
almeno altri 10 guerrieri erano stati recuperati dai contribali e
portati via moribondi. Mentre i mustang abbattutti risultavano 56, i
cacciatori accusarono invece 3 sole perdite.
Durante una pausa del combattimento, il giovane Billy Dixon mise
a segno uno dei colpi più formidabili della storia. Senza tenere
conto del parere di chi lo sconsigliava di sprecare munizioni, puntò
il suo Sharps su un gruppo di 15 cavalieri comanche che sostava
immobile a poco meno di un miglio di distanza. Quindi, regolò
accuratamente il mirino e si concentrò sul tiro che lo avrebbe reso
celebre. Dopo avere esploso il colpo, mentre l’eco dello sparo si
era già spento nella vallata, per qualche secondo non si notò alcun
movimento nel drappello indiano. Poi, però, un cavaliere scivolò al
suolo e rimase immobile. I suoi compagni provvidero quasi subito a
raccogliere il corpo e a portarlo via. Secondo alcune testimonianze,
il guerriero era stato soltanto ferito e sopravvisse.
In seguito, venne misurata la distanza dalla postazione in cui si
trovava Dixon fino al punto in cui il suo bersaglio era stato
colpito: risultarono addirittura 1.406 metri. Nessuno, neppure i più
famosi Buffalo Bill o la tiratrice Annie Oakley che fece parte del
suo Wild West Show, riuscì forse mai a fare meglio di lui.
SENTIERI SELVAGGI
Fra tutti i film prodotti dalla cinematografia western, “Sentieri
selvaggi” di John Ford rimane ancora il capolavoro in assoluto,
tant’è che.il regista Martin Scorsese lo definì addirittura “il
miglior film americano di tutti i tempi”.
Prodotto nel 1955 dalla C.W. Whitney Pictures e distribuito nel
1956 dalla Warner Bros. (durata 119 minuti) era liberamente ispirato
al romanzo di Alan Le May “The Searchers”. Gli esterni furono girati
In California e soprattutto nella Monument Valley dell’Arizona, La
colonna sonora venne curata da Max Steiner, che incluse motivi
tradizionali quali “Shall We Gather At The River”
Gli interpreti principali, oltre al celebre John Wayne nella
parte di Ethan Edwards, sono Jeffrey Hunter (Martin Pawley) Vera
Miles (Laurie Jorgensen) Ward Bond (reverendo Samuel Clayton) e la
giovanissima Nathalie Wood (Debbie).
Benchè accolto tiepidamente dal pubblico agli inizi, assurse in
seguito ad una imperitura gloria, che esalta l’indiscutibile bravura
di Ford e le grandi capacità recitative di John Wayne, all’epoca già
47 enne. A distanza di mezzo secolo, rivedendo attentamente le
sequenze del film, non si possono avere più dubbi che l’attore fosse
effettivamente un “colosso” del cinema, come del resto aveva
dimostrato in “I cavalieri del Nord-Ovest”. Purtroppo la critica non
trovò di meglio che assegnargli un Oscar alla carriera per “El
Grinta”, che non è certo la sua pellicola migliore.
Fra le scene più crude e impressionanti di “Sentieri selvaggi”,
quella delle donne bianche liberate dall’esercito dopo essere state
prigioniere degli Indiani: una sequenza degna di un manicomio, fatta
di strilli, urla, risate isteriche e visi stravolti che nessun altro
film avrebbe in seguito osato riproporre con tanto drammatico
realismo.
TITOLI ASSURDI
Com’è noto, l’Italia è uno dei pochi Paesi in cui viene usato il
doppiaggio dei film: altrove, si preferisce proiettare la versione
in lingua originale, servendosi delle didascalie. Ciò non toglie,
che i titoli dei film possano essere cambiati dalla distribuzione:
“Sentieri selvaggi”, per esempio, fu distribuito in Francia come “La
Prisonnière du Desert”, che rendeva comunque a sufficienza l’idea
della vicenda trattata.
Meno pertinenti, invece, i titoli inventati dalla distribuzione
italiana per altre pellicole dello stesso genere. “Distant Trumpet”
(tromba lontana) un buon film di Raoul Walsh del 1964, diventò
banalmente “Far West”; il famoso “Major Dundee” (1965) di Sam
Peckinpah prese come titolo il nome del capo indiano – “Sierra
Charriba” - inseguito dai soldati americani nel Messico di
Massimiliano d’Austria. Per citare un altro caso di cambiamento
radicale del titolo, possiamo ricordare il notissimo “Jeremiah
Johnson”, di Sidney Pollak (1972) che venne messo in circolazione
come “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”.
Ma esistono altre opere alle quali vennero assegnati titoli
manifestamente assurdi o fuori luogo. Fra questi, uno dei più
clamorosi è “Comanche Station”, di Budd Boetticher (1960) diventato
sorprendentemente, in Italia, “La valle dei Mohicani” (forse perché
gli Indiani, che sono Comanche, portano la cresta alla “mohicana”
?). Ancora più assurdo il titolo di “Many Rivers to Cross” di Roy
Rowland (1955) apparso sugli schermi nazionali come “Un Napoletano
nel Far West”, senza che nella versione originale vi fosse neanche
l’ombra di persone di orgine partenopea! Altro titolo campato in
aria, quello imposto al film “Chuka” di Gordon Douglas (1967)
riciclato come “Vivere da vigliacchi, morire da eroi”.
Ma il peggio doveva arrivare verso la fine degli Anni Sessanta,
quando si ebbe il boom dello spaghetti western. Dopo l’ottimo
esordio dei film di Leone e Tessari, fu un susseguirsi ininterrotto
di pellicole che contribuirono a diminuire la già scarsa
attendibilità storica del western. Oltre alla comparsa di nomi
inventati e spesso caserecci – Sartana, Django, Sabata, Trinità,
Gringo, Mannaja, ecc. – vennero fuori titoli inconsueti, provocatori
e a volte ridicoli, come: “Vado, l’ammazzo e torno” (Enzo G.
Castellari, 1968) “Oremus, Alleluja e Così Sia” (Alfio Caltabiano,
1972) “Nessuno dei tre era chiamato Trinità” (Pedro Ramirez, 1974) e
così proseguendo fino al definitivo tramonto del genere.