Le donne Sioux
egli anni Settanta dell'Ottocento, durante un
ricevimento di indiani alla Casa Bianca, il capitano dell'esercito
americano Clinton Poole, colpito dal contrasto tra le donne bianche
presenti alla cerimonia e quelle pellerossa, osservò: "Le
prime sono flessuose e aggraziate, dalle forme eleganti, dai
lineamenti sottili, degne compagne dei loro uomini; le seconde goffe
e pesanti, dai tratti rozzi e sciupati dal lavoro; serve e schiave
dei loro mariti."
Questo stereotipo era molto diffuso
all'epoca. I bianchi consideravano le indiane come "bestie da
soma alla mercé di quei mostri disumani dei loro mariti."
Invece, la moglie del Generale Custer, Libbie, persona molto acuta e
sensibile, dopo aver visto la sposa di un guerriero Sioux pettinare
il marito e agitargli persino una coperta alle spalle per tenere
lontane le zanzare, confessò che anche lei dedicava analoghe
attenzioni al coniuge, aiutandolo spesso a indossare l'uniforme.
Fatte
le debite differenze culturali, le donne indiane non avevano
condizioni di vita peggiori di quelle delle donne bianche,
soprattutto delle bianche che vivevano nella frontiera e nelle
fattorie, costrette a un lavoro durissimo e sovente maltrattate dai
mariti.
Dal punto di vista dei diritti, della considerazione
sociale e del comportamento morale, le donne Sioux in particolare
potevano vantare una condizione più avanzata di quella delle donne
bianche. Ad esempio, erano loro, e solo loro, a poter chiedere il
divorzio. Nella comunità, ricoprivano un ruolo di assoluto rilievo,
non solo come madri: c'erano sarte (in genere nubili, perché
dovevano provvedere agli abiti di tutta la comunità, senza fare
favoritismi per il proprio uomo), donne guerriere e donne della
medicina.
L'illibatezza prima del matrimonio non era considerata un
obbligo e neppure una virtù. D'altro canto, questi diritti erano
solo formali, perché una pratica di divorzio aveva pesanti
ripercussioni economiche sulle famiglie, e la donna divorziata
poteva ritrovarsi sola. Ruoli diversi da quelli di moglie e madre
erano scoraggiati e autorizzati solo in casi eccezionali.
E i padri proteggevano la verginità delle loro giovani figlie
imponendo loro delle cinture di castità, non tanto per un motivo
morale, ma per non ritrovarsele incinte.
C'erano poi punizioni
terribili nei casi di adulterio femminile. Il marito poteva decidere
se punire la moglie o perdonarla. Se la perdonava la prima volta,
poi non avrebbe più potuto nemmeno protestare per i tradimenti
della sua compagna.
Se invece decideva di punirla, allora doveva
mozzarle il naso, o nei casi più estremi, come tra i Piedi Neri,
ucciderla. Queste pratiche spietate diventarono però sempre più
rare dalla metà dell'Ottocento, fin quasi a sparire. Il
cambiamento dei costumi fu imposto dalla lotta delle donne indiane
in difesa dei propri diritti, e anche dall'esempio di un modo
diverso di vivere il ruolo maschile, di marito e di padre, dato da
grandi leader come Cavallo Pazzo.
Chi fosse interessato ad
approfondire la condizione e le battaglie delle donne indiane, può
leggersi il bellissimo libro di Mary Crow Dog: Donna Lakota,
adottato in tutte le università americane che hanno corsi sulle
culture Native, e pubblicato in Italia da Marco Tropea Editore.
È appena uscita l'edizione economica nella collana Est de Il
Saggiatore.
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