I Seminole
Seminole di Osceola vivevano nelle paludi della
Florida. Alligatori, serpenti, mosquitos, malattie, caldo infernale
e umidità; e il bello è che i Seminole mica erano nati lì: c'erano
arrivati, come derivazione della tribù Creek, dalla Georgia e
dall'Alabama.
In poco tempo, in ogni caso, divennero padroni
incontrastati della zona.
A farne le spese, nel corso di tre guerre
durate in tutto dodici anni, furono i soldati bianchi che morivano
senza vedere quasi mai chi li ammazzava; i generali che si
susseguirono nel vano tentativo di mettere in catene i Seminole e
infine i contribuenti americani, cui solo la seconda guerra Seminole
costò la bellezza di 30 milioni di dollari.
Osceola era figlio di un'indiana Creek e di un
mezzosangue, di un mercante scozzese o di uno schiavo negro
fuggitivo. Poi c'e il pittore George Catlin, che lo ritrasse durante
la prigionia e disse invece che «nell'aspetto e nella mentalità è
certamente un indiano purosangue».
Ai Seminole, in ogni caso, non è che la purezza
della razza importasse molto; già loro stessi un po' "bastardi",
finirono per accogliere parecchi schiavi di colore che si batterono
poi, vista la quantità di mulatti che c'era, al fianco dei guerrieri
e pure a quello delle donne. E se è vero quel che dicono, la prima
guerra Seminole esplose proprio perché gli indiani corsero a dar man
forte ai loro alleati neri.
Nel 1816 gli americani distrussero il vecchio
forte inglese a Prospect Bluff, nella Florida settentrionale; il
posto era abitato da schiavi fuggitivi e in pratica fungeva da
centro di raccolta e smistamento di tutti i neri che erano scappati
dalle piantagioni della Florida settentrionale, della Georgia e
dell'Alabama.
Il fatto scatenò una serie di scaramucce e
agguati contro i 3500 soldati e volontari civili al comando del
generale Andrew Jackson, futuro presidente degli Stati Uniti. Lì si
affinò quella particolare tecnica di guerriglia che trasformò la
Florida e le paludi Everglades nel primo Vietnam americano. Una
tecnica che Osceola (capo dei guerrieri nella seconda guerra
seminole) sintetizzò così: «Dove loro saranno molti noi non ci
saremo; dove saranno pochi noi li colpiremo». E ciò che rendeva i
bianchi folli di terrore era il fatto che dei Seminole non si vedeva
ombra; solo una scarica di fucileria sparata da pochi metri che
falciava gli uomini. Gli indiani prepararono l'imboscata a una
strozzatura della pista, dove questa era fiancheggiata da palme
nane. Alle prime scariche di fucileria la metà degli uomini del
maggiore Dade - più d'una cinquantina - cadde. Dei 102 soldati che
facevano parte della spedizione, al termine della sparatoria ne
rimanevano in vita solo tre. Ma la prima guerra Seminole (1816-1818)
fu solamente un assaggio.
Il 16 Aprile le truppe americane attaccarono il
villaggio di Capo Nero e lo distrussero. Passò così un periodo di
relativa quiete, anche se il contemporaneo acquisto della Florida
dal re di Spagna segnò l'inizio dell'invasione dei coloni nel
territorio Seminole. Il solito copione, insomma; anche se in questo
caso non ci fu mai l'ombra di un trattato di pace, tanto che i
Seminole, ancora oggi, vanno orgogliosi d'essere l'unica tribù
ufficialmente in guerra con il governo degli Stati Uniti.
Tra il 1832 e il 1833 alcune bande Seminole accettarono di
trasferirsi nel cosiddetto Territorio Indiano, una grande fetta di
Paese compresa tra il Texas a sud e il Kansas a nord.
Altra richiesta bianca, indipendente da
qualsiasi deportazione, era quella che concerneva la restituzione di
tutti gli schiavi neri fuggiti tra i Seminole. Ma la risposta dei
Seminole fu inesorabilmente picche. Concetto poi ribadito poco tempo
dopo da Osceola, il cui nome indiano era Asi-ya-holo, Urlatore del
Bosco Nero.
Tanto per far capire a tutti i suoi che quella era la terra dei
Seminole, e che lì sarebbero rimasti, andò dal capo Emathla che
stava facendo già i bagagli e gli sparò. Dopo un paio d'anni di
scontri e di ripicche, nel 1835 scoppiò la vera guerra Seminole
numero due.
Anima della resistenza fu Osceola, che il dente
avvelenato con i bianchi l'aveva da molto tempo; cioè da quando
l'agente indiano, il generale Wiley Thompson, l'aveva fatto
imprigionare nel tentativo di ridurlo all'obbedienza, ma soprattutto
perché sua figlia era stata rapita da alcuni bianchi che l’avevano
poi venduta come schiava. Il 28 dicembre 1835, il generale aveva
appena finito di pranzare col tenente Constantine Smith e stava
facendo una passeggiata a poche centinaia di metri dall'agenzia.
Improvvisamente una raffica di moschetti si abbatté sui due: il
generale crollò centrato da 14 proiettili, Smith da due.
Gli indiani lo scotennarono poi uccisero anche
il cantiniere Erasmus Rogers e due impiegati. Gli unici ad avere
salva la vita furono i neri alle dipendenze del generale. Che a capo
del commando ci fosse Osceola lo sostennero alcuni indiani "buoni"
che erano accampati vicino all'agenzia; essi dissero d'avere
riconosciuto con certezza il grido "stridulo e acuto" di Osceola.
L'Urlatore del Bosco Nero aveva iniziato la sua guerra. Anzi, la sua
guerriglia.
Per cercare di prenderlo furono mandati sei
generali, tutti quanti (tranne Zachary Taylor) via via rimossi per
inettitudine. Ma, più che essere loro degli incapaci, fu Osceola a
dimostrarsi un capo scaltro, inafferrabile ed invincibile.
Che razza di tipo fosse lo racconta un episodio
avvenuto il 31 dicembre 1835. Due colonne di soldati stavano
confluendo verso il fiume Withlacoochee e da lì, riunendosi,
avrebbero attaccato le posizioni Seminole. Gli esploratori lo
riferirono a Osceola, che poteva disporre in tutto di circa 500
guerrieri contro i mille e passa soldati bianchi.
Bisognava attaccare prima che i militari si
riunissero, e possibilmente spezzare in due tronconi la colonna
presa di mira. A risolvere il problema fu una canoa da sei-otto
uomini che Osceola fece nascondere sulle sponde del Withlacoochee.
Arrivate al fiume, infatti, le guide si accorsero che non era
guadabile. Scoprirono che c'era una canoa, e che su quella, otto
alla volta, i soldati potevano passare il fiume. Sull'altra riva
Osceola guardava la scena e quando circa 200 soldati furono
trasbordati i Seminole aprirono il fuoco. Quando i Seminole
stabilirono d'aver ucciso abbastanza bianchi tornarono a svanire nel
nulla. Canoa a parte, i Seminole combattevano così; in un ambiente
che favoriva al massimo l’agguato e la fuga, mentre rendeva penoso
ogni metro a chi li inseguiva.
Come segugi senza olfatto tentarono di catturarli le migliori truppe
degli Stati Uniti guidate da generali che venivano sostituiti al
ritmo di, quasi, uno all'anno.
Per primo Wiley Thompson (quello scalpato da Osceola), poi Duncan
Clinch (quello della canoa) e quindi Winfield Scott (totale
fallimento), Thomas Jesup (appena un poco meglio), Zachary Taylor
(futuro presidente), Alexander Macomb (futuro sconosciuto) e Walker
Armistead (l'ultimo). Fu con Jesup che Osceola venne catturato, ma
l'unico modo di riuscirci fu con l'inganno. Il capo aveva chiesto un
incontro per parlamentare, e quando il generale Hernandez si recò
sul posto con duecento cavalleggeri (21 Ottobre 1837) l'unica cosa
che fece fu incatenare Osceola, prendere alcuni capi e una novantina
di indiani, comprese donne e bambini. Furono tutti trasferiti prima
a Fort Marion, in Florida, poi a Fort Moultrie, vicino a Charleston,
nella Carolina del sud. Fu qui che lo ritrasse George Catlin. "Un
fedele ritratto, minuzioso fino all'ultimo gingillo che indossava".
Ma la prigionia di Osceola durò pochissimo. Il 30 gennaio del '38
Osceola morì. La sua fine fu raccontata dallo stesso medico che
Osceola aveva sempre rifiutato, dopo aver scoperto che era cognato
di Wiley Thompson, il generale che lui aveva ucciso.
«Circa mezz'ora prima della fine - raccontò Weedon - sembrò
accorgersi che stava per morire, e benché non fosse in grado di
parlare mi fece capire a gesti che voleva che mandassi a chiamare i
capi e gli ufficiali, cosa che io feci. A gesti disse alle sue mogli
di andare a prendergli il vestito più bello, quello che indossava in
guerra. Dopo si alzò sul letto e indossò la camicia, i gambali, i
mocassini, cinse la cintura di guerra, la sacca delle pallottole e
il corno della polvere da sparo, poi si mise a fianco, sul
pavimento, il coltello. Quindi chiese la sua pittura rossa e lo
specchio, che gli venne tenuto davanti, mentre lui si tingeva mezzo
volto, il collo, la gola, i polsi, il dorso delle mani e anche il
manico del coltello, come quando si è giurato di combattere fino
alla morte. Quindi mise il pugnale nel fodero, sotto la cintura, si
sistemò con cura sulla testa il turbante con le tre piume di
struzzo. Ora era addobbato di tutto punto e perciò si rimise a
giacere per riacquistare un po' di forze; quindi si rialzò in piedi
e con un sorriso veramente dolcissimo sul volto tese la mano a me, a
tutti gli ufficiali e ai capi che gli stavano intorno.
Ci strinse la mano in silenzio; anche alle mogli ed ai bambini. Poi
fece segno di rimetterlo a giacere sul letto, il che fu fatto. A
quel punto si tolse il coltello da scalpo dalla cintura e lo tenne
ben saldo nella mano destra, ponendolo sull'altra mano, sopra il
petto. In un attimo, sorridendo, esalò l'ultimo respiro, senza un
segno di ribellione o un lamento».
Con la morte di Osceola si affacciarono nuovi capi guerrieri,
cresciuti alla sua scuola. Tra questi Holata Micco, "Capo che
Governa", meglio noto agli americani come Billy Gambe Storte, oppure
Coacoochee ("Gatto Selvaggio") che venne catturato insieme ad
Osceola e con lui deportato a Fort Marion ma, riuscito a fuggire coi
suoi guerrieri in una spericolata evasione, riprese la lotta.
Uno dei colpi che rese celebre Gatto Selvaggio fu l'assalto a una
troupe teatrale che viaggiava da Picolata a St. Augustine.
Sconfiggere i Seminole restava un problema insolubile; ormai ridotti
a poco più di 350 guerrieri, circa un indiano ogni 14 soldati,
colpivano e scappavano e più si addentravano nelle Everglades, meno
l'esercito riusciva a stanarli definitivamente. Così sostituirono la
fanteria coi cani. Fu un'idea del generale Armistead quella di
importare da Cuba i bloodhound, usati con successo per dare la
caccia agli schiavi in fuga. Ma coi Seminole fecero fiasco.
Visto che neanche i bloodhound servivano allo scopo, gli americani
fecero allora l'unica cosa possibile: trattarono. E ai Seminole,
unica tribù indiana in tutto l'arco delle guerre di frontiera,
permisero di rimanere a casa loro, in Florida. Dei 5000 indiani che
ci vivevano all'inizio, ne restavano però circa 600, con un
centinaio di guerrieri; gli altri erano morti o in esilio.
Non era comunque andata meglio agli Usa. Non solo non avevano vinto,
ma avevano per giunta perduto 1466 soldati, quasi altrettanti
volontari della milizia civile, 74 ufficiali e in aggiunta a questo
avevano speso l'incredibile cifra di 30 milioni di dollari.
Comunque una specie di pace venne fatta, e per una dozzina d'anni le
cose andarono tranquille; anche perché la Florida abitata dai
Seminole era un territorio talmente inospitale da scoraggiare
qualsiasi insediamento bianco. Poi Billy Gambe Storte si fece
prendere dalla nostalgia e, senza avere nessun motivo apparente,
diede l'assalto a un piccolo distaccamento di artiglieria
annientandolo. La terza e ultima guerra Seminole era iniziata. Ma
questa volta a comandare le truppe c'era il colonnello William
Harney, che s'era fatto le ossa nella guerra precedente.
Comprendendo che dare la caccia ai Seminole con le tattiche fin lì
adottate era impossibile, attuò una nuova strategia: distaccamenti
abbastanza numerosi da costituire un problema per gli indiani, ma
non così grandi da essere impacciati da salmerie e vettovagliamenti.
La cosa funzionò anche perché, di ogni accampamento, campo o
insediamento indiano, dopo il passaggio dei soldati non rimaneva che
cenere. Senza più polvere da sparo, riserve di cibo, abiti e armi, i
Seminole finirono per arrendersi e accettare il trasferimento nel
Territorio Indiano.
Tutti meno un centinaio di guerrieri e di donne che sparirono
letteralmente nel più profondo delle paludi. Nessuno seppe mai più
nulla di loro fino ai primi del Novecento, quando fecero la loro
prima timida ricomparsa in scena. |