La battaglia di Big Hole
a sera del 8 agosto 1877 i Nasi Forati erano accampati lungo la
valle del fiume Big Hole nel Montana, una bellissima prateria con
colline e prati, solcata da numerosi corsi d’acqua e boschi e
circondata da montagne ripide ricoperte di alberi. Gli indiani si
sentivano così tranquilli del vantaggio sulle truppe del Gen. Howard
e della non belligeranza degli abitanti del Montana che, non solo
non predisposero servizi di perlustrazione e sorveglianza, ma
addirittura celebrarono una danza di guerra. Non sapevano che Howard
aveva telegrafato al Col. Gibbon per chiederne l’intervento e che
questi, dopo aver raccolto quasi 200 uomini tra militari del 7°
fanteria e civili volontari, era arrivato a tappe forzate da Fort
Shaw fino in prossimità del campo indiano.

Furono gli esploratori del Ten. Bradley
(quello che aveva scoperto per primo i corpi di Custer e dei suoi a
Little Big Horn un anno prima) a localizzare il campo e
l’imponente mandria di cavalli che pascolava nei dintorni.
L’informazione fu portata a Gibbon che seguiva col grosso delle
truppe e che predispose immediatamente il piano d’attacco. Questo
consisteva semplicemente nell’avvicinarsi il più possibile al
campo senza essere scoperti per poi attaccare alle prime luci
dell’alba e possibilmente sorprendere nel sonno i malcapitati
indiani. La storia delle guerre indiane è piena di episodi di
questo genere dove i militari americani, buttando alle ortiche
qualsivoglia deontologia e codice cavalleresco, decidevano di
attaccare inermi villaggi indiani sfruttando al massimo l’effetto
sorpresa senza preoccuparsi affatto del tributo di sangue che
inevitabilmente sarebbe stato pagato anche da donne e bambini. La
battaglia di Big Hole non fece purtroppo eccezione da questo punto
di vista. La scintilla scoccò prematuramente allorquando un indiano
uscì dall’accampamento per andare a controllare i cavalli finendo
praticamente addosso ai soldati appostati ai margini del campo.
Questi ultimi, vistisi scoperti, non diedero all’indiano neppure
il tempo di gridare o di imbracciare il fucile e lo uccisero
immediatamente.
Gli spari furono il segnale d’attacco per
le truppe di Gibbon che guadarono il fiume e attaccarono il
villaggio sparando all’impazzata contro tutto quello che
incontravano. Gli abitanti del villaggio furono svegliati dagli
spari e passarono in pochi attimi dal sonno al combattimento più
furioso. Fu in quei momenti che si consumarono gli atti più
sanguinari da parte dei soldati che, interpretando alla lettera
l’ordine di non fare prigionieri, entrarono nelle tende
massacrando donne e bambini che quasi non si erano ancora resi conto
di quanto stava accadendo. I guerrieri, benché anch’essi sorpresi
nel sonno e disperati per la sorte delle loro famiglie, ebbero il
sangue freddo di riunirsi e organizzare un contrattacco. Specchio e
Uccello Bianco furono i capi che guidarono e incitarono i guerrieri
Nasi Forati alla riscossa che aveva anche lo scopo di consentire la
fuga delle donne e dei bambini superstiti. I soldati, che ormai
occupavano buona parte del villaggio, tentarono di incendiarlo, ma
la rugiada della notte aveva bagnato le pelli e i tepee non presero
fuoco. Ancora una volta l’abilità militare dei Nasi Forati ebbe
il sopravvento e, con abili mosse, i guerrieri organizzarono un così
efficace contrattacco da costringere i soldati ad abbandonare le
loro posizioni, ormai indifendibili, e battere in ritirata. Gibbon,
che era stato ferito negli scontri, diede, infatti, ordine di
ripiegare oltre il fiume verso una zona boschiva a ridosso delle
colline.
Ben presto i Nasi Forati, rincuorati anche
dalla piega che la battaglia stava prendendo e dal fatto di aver
evitato il totale annientamento della tribù, strinsero d’assedio
le truppe infliggendo loro pesanti perdite prima che queste si
organizzassero scavando trincee e utilizzando i molti tronchi caduti
come riparo dal fuoco degli indiani. Poco più tardi, un gruppo di
Nasi Forati attaccò la colonna dei rifornimenti che trasportava un
obice da montagna “Howitzer” e che cercava di raggiungere Gibbon.
I soldati riuscirono a sparare due colpi di cannone prima che i
guerrieri fossero loro addosso, vistisi sopraffatti, si dispersero
abbandonando i caduti, il cannone e un mulo con 2000 cartucce per
fucili Springfield che furono immediatamente distribuite ai
guerrieri. L’assedio ai soldati proseguì per tutto il giorno e la
notte seguente, lasciando così per quasi 48 ore i soldati senza
cibo né acqua e con poche munizioni. Questo consentì a Capo
Giuseppe di organizzare la fuga dei superstiti, la cura e il
trasporto dei feriti, una sommaria sepoltura delle vittime e il
recupero della mandria di cavalli. Pochi guerrieri rimasero a
minacciare gli assediati con spari occasionali che, tuttavia, si
aspettavano un attacco in grande stile da un momento all’altro.
Successivamente, sollecitato a questo riguardo, il grande capo Lupo
Giallo ebbe a dire: “….Non fu tentato un attacco perché se
avessimo ucciso un soldato, 1000 altri lo avrebbero sostituito. Non
c’era invece nessuno a rimpiazzare la perdita di un
guerriero…” Il mattino del 10 agosto giunse all’orecchio degli
indiani la notizia che il Gen. Howard e le sue truppe stava
sopraggiungendo e quindi, dopo un’ultima salva di colpi
indirizzata ai soldati, i pochi guerrieri rimasti tolsero
l’assedio e raggiunsero la propria gente nuovamente in fuga verso
sud. La battaglia di Big Hole poteva considerarsi conclusa. Le cifre
sulle quali gli storici sono concordi dicono che i bianchi ebbero 29
morti e una quarantina di feriti, due dei quali morirono poco dopo.
Tra i caduti ci furono tre ufficiali, uno dei quali fu proprio il
Ten. Bradley che fu ucciso nelle primissime fasi della battaglia.
Più
controverso è il conto delle vittime tra gli indiani, tuttavia non
si è lontani dalla verità se si afferma che circa 100 Nasi Forati
trovarono la morte nella battaglia di Big Hole, ma il dato più
tragico è che il 70%-80% di questi furono donne e bambini.
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