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Il sentiero delle lacrime

I

l contatto tra le civiltà dei bianchi e degli uomini rossi non fu sempre drammatico; onestamente dobbiamo dire che fu positivo fintanto che tornò comodo ai primi che si facevano aiutare dai nativi a superare le difficoltà di una terra sconosciuta. Divenne rapidamente turbinoso con l’aumento esponenziale dell’immigrazione bianca e con la fame delle terre. Fu allora che scoppiarono guerre e conflitti inarrestabili nel corso dei quali emerse con chiarezza un fatto: gli Stati Uniti si avviavano ad essere una grossa potenza economica e militare e per questo (il “Destino Manifesto”) dovevano regolare rapidamente i conti con i pellerossa i cui diritti innegabili non potevano essere rispettati.

Attraverso l’operato di ben tre presidenti americani prese corpo il progetto della deportazione in massa, oltre il Mississippi, di tutte le tribù pellerossa, volenti o nolenti. L’idea nacque al tempo di Jefferson (1812) ma la decisione vera e propria fu presa dal presidente Monroe (che pure non odiava gli indigeni) nel 1825. L’avvio della deportazione (1830), però, porta la firma di “Uccisore di Indiani”, il presidente Andrew Jackson. Per buona misura dobbiamo ricordare che lo stesso Jackson ebbe salva la vita in conflitto grazie all’intervento di un guerriero Cherokee e proprio i Cherokee ebbero a soffrire maggiormente a causa di Jackson. Jackson promulgò il “Removal Act”, una legge con la quale imponeva a tutti gli indiani dell’est di trasferirsi a ovest. Tutti gli indiani, compresi quelli che da anni avevano avviato un cammino di “civilizzazione” che li aveva resi assai simili, almeno nei comportamenti, ai bianchi. I Cherokee, ad esempio, coltivavano la terra, avevano una propria forma di governo molto evoluta, stampavano un giornale, conoscevano le leggi. Cadeva, dunque, la maschera della volontà di civilizzazione dei popoli rossi; in realtà vinceva l’egoismo di chi desiderava la terra degli indiani, specialmente se c’era il fondato sospetto che vi si potesse trovare oro in grandi quantità. Il Removal Act sospingeva le tribù, le più diverse per lingua, tradizioni e comportamenti, verso l’Oklahoma che sarebbe stata la loro nuova patria. Il trasferimento durò anni, costò migliaia di vite (perse durante il doloroso cammino) e non risolse certo i problemi. Dei circa centomila indiani coinvolti solo due terzi si incamminarono mentre gli altri scelsero di lottare in clandestinità, nascosti tra le montagne dove non costituirono comunque un gran problema.

I Delaware subirono l’onta per primi dal 1831 al 1834, trasferiti su carri e battelli nei quali morirono come mosche. Specialmente i bambini!

Li seguirono gli Shawnee, dopo aver lottato inutilmente. I Potawatomi non vollero accettare supinamente il triste destino dell’abbandono delle loro terre; ci pensarono i soldati con l’uso delle armi.

I Winnebago partirono in 2000 e arrivarono in circa 1200, decimati dalla fatica, dalle malattie e dall’alcool che gli veniva propinato lungo la strada da commercianti bianchi senza scrupoli, interessati soprattutto a rubare i denari stanziati dal governo a guisa di risarcimento.

Quasi tutti furono costretti a partire durante l’autunno o l’inverno e molte tribù fecero la conoscenza del vaiolo prima ancora della partenza. I Mandan, ad esempio, non ebbero necessità di spostarsi dal momento che un’epidemia di vaiolo – accuratamente procurata loro dai bianchi a mezzo di coperte infette – li ridusse dell’80%.

Le grandi nazioni indiane del sud – Cherokee, Chickasaw, Choktaw e Creek – subirono più di altri l’ingiustizia del Removal Act. I Cherokee erano l'esempio ideale di indiani ormai civilizzati. Coltivavano 130mila Km quadrati di terra fertile sulla quale allevavano ogni genere di bestiame, vivevano più a lungo dei bianchi della Georgia (lo stato che voleva le loro terre), avevano un loro alfabeto (grazie al lavoro di Sequoiah, un Cherokee) e stampavano un giornale in due lingue.

Il governo americano spinse molto sui Cherokee affinché partissero presto proprio per quel che rappresentavano agli occhi delle altre tribù; se accettano loro – si pensava – anche gli altri li seguiranno. In quel periodo i Cherokee erano rappresentati da John Ross, un uomo estremamente civilizzato che amava operare a Washington rapportandosi con il governo, usando la legge dei bianchi in maniera molto appropriata. Già nel 1817 i Cherokee scambiarono volontariamente una buona fetta del loro territorio con una uguale parte a ovest con la motivazione che metà della tribù intendeva proseguire la strada della civilizzazione e integrazione con la cultura dei bianchi, mentre un’altra metà preferiva partire per continuare a vivere alla “maniera dei padri”. Ben 2000 Cherokee partirono con il loro capo, Jolly ma non tardarono a inviare pessime notizie: la terra era povera di selvaggina e si doveva lottare costantemente con le tribù del posto che erano assai bellicose. Per spingere chi era rimasto, la Georgia arrivò persino a privare gli indiani di ogni diritto civile e aizzò i bianchi contro quegli indiani. Nel 1834 i Cherokee intentarono un ricorso contro la Georgia presso la Corte Suprema che, guarda un po’, gli diede persino ragione! Il presidente Jackson, però, incoraggiò la Georgia a trascurare la Corte Suprema, cosa che venne presto fatta. Si giunse anche a organizzare incredibili lotterie con in palio le terre e le case dei Cherokee. Lo stesso capo John Ross tornò da Washington e trovò la sua casa occupata da bianchi. Il colpo di scena si verificò nel 1835 allorquando una parte minoritaria dei Cherokee firmò un patto a  New Echota (territorio Cherokee) con la Georgia con il quale ci si impegnava a emigrare in cambio di 5.700.000 dollari. Tutti i Cherokee si scoprirono impegnati da un accordo siglato da una piccola parte di loro! John Ross e ben 16.000 Cherokee scrissero e firmarono una petizione al parlamento in cui, tra l’altro, gridavano: “Siamo privi della nostra nazione! Non siamo più membri della famiglia umana! Non abbiamo più un paese, un focolare, un luogo che possiamo chiamare nostro! Siamo soffocati!”

Non bastò e il parlamento ratificò l’accordo di New Echota: i Cherokee dovevano partire.

Toccò anche a Choctaw e Chickasaw, entrambe nazioni assai ricche. I primi partirono ingannati da alcuni capi che si fecero corrompere e barattarono la loro terra. Partirono in 18mila ma 2.500 morirono di freddo e di stenti perché, come sempre, si impose la partenza in pieno inverno. Altri morirono a causa del colera che si scatenò  a causa dell’inquinamento delle acque indotto da una concentrazione troppo alta di persone lungo i corsi d’acqua. I soldi del risarcimento, ancora una volta, furono rubati da astuti imbroglioni bianchi e le tribù attesero ben cinquant’anni per avere una qualche forma di giustizia.

La Confederazione dei Creek pagò un altissimo tributo di vittime alla Pista delle Lacrime: ben 3.500 uomini, donne e bambini persero la vita lungo il viaggio. I Creek erano poverissimi e viaggiarono su carri scoperti nei quali i bambini letteralmente gridavano per il freddo. I vari viaggi venivano organizzati perché partissero alle 4 del mattino, in inverno.

Tutti questi morti, uniti ai 4.000 Cherokee che morirono nel corso della deportazione, gridarono lungamente vendetta e scavarono un solco tra popoli diversi che non fu mai più colmato, quello dell’ingiustizia.

 

L'esilio. L’avvio della deportazione (1830) porta la firma di “Uccisore di Indiani”, il presidente Andrew Jackson. Per buona misura dobbiamo ricordare che lo stesso Jackson ebbe salva la vita in conflitto grazie all’intervento di un guerriero Cherokee e proprio i Cherokee ebbero a soffrire maggiormente a causa di Jackson.

 

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