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Anche i bianchi...

 


A cura di Josephine

La tortura tra gli Apache

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egli anni 1970, uno studioso degli Apaches-Chiricahua che vivevano a Mescalero e a Fort Sill scoprì un fatto rivelatore: la maggioranza di loro era più a conoscenza del cattivo comportamento del tenente Bascom con Cochise e del vile assassinio di Mangas Coloradas per mano dei soldati del generale West, che del bombardamento giapponese a Pearl Harbour. Questo a discapito del fatto che gli eventi riguardanti i due grandi capi ebbero luogo più di un secolo prima.
L’impatto dell’assassinio e, sopratutto, della decapitazione di Mangas Coloradas fu particolarmente profondo. Tre generazioni dopo, i portavoce del popolo Chiricahua giurano che la mutilazione di vittime bianche per mano degli Apache era un eccezione: fu in risposta alla decapitazione del grande Mangas Coloradas che gli Apache cominciarono a mutilare i cadaveri dei bianchi. I testimoni aggiungono di più: non era usanza del popolo Ndè [Apache, ndr] torturare le vittime.

Tuttavia, in che modo gli Apache praticavano le mutilazioni è un'irritante questione che esalta gli animi, ma che appare cruciale per comprendere l’odio esistente tra le due razze.

Nel secolo XIX gli abitanti dell’Arizona erano convinti, per esempio, che gli Apache prendessero lo scalpo a tutte le loro vittime. In realtà, tale pratica non era abituale tra gli Apache ed era attuata solo in occasione della più amara vendetta. Secondo loro: “Non vi è peggior castigo per i tuoi nemici”. D’altra parte, i Messicani e gli Statunitensi strapparono scalpi Apache a partire almeno dal 1835. Trattavano questi truculenti trofei per ottenere le ricompense che offrivano gli stati di Chihuahua e Sonora. Durante diverse decadi gli Apache furono più vittime che esecutori di tale pratica.

In tutti i modi, l’insistenza degli ultimi Apache-Chiricahuas che la tortura e la mutilazione di vittime non ebbe luogo, se non dopo l’assassinio di Mangas Coloradas nel 1863, non è abbastanza convincente. Anche perché esistono molte testimonianze che affermano il contrario.

Ignaz Pfefferkom, un viaggiatore tedesco del secolo XVIII che pubblicò un libro sul Sonora, descrisse la vita degli Apache con una tale precisione che venne confermata anche dagli antropologi del XX secolo. Pfefferkom, nel 1795, scrisse: "Nel vortice del combattimento uccidono tutti quelli che si trovano alla loro vista e la loro crudeltà è così grande che possono infliggere una ferita dietro l’altra, portando uno a pensare che la sua sete di sangue è insaziabile. Ho sepolto vittime di quelli che risultavano irriconoscibili dai tagli che, con le loro lance, gli avevano fatto dai piedi alla testa".

Un altro osservatore del Sonora del secolo XVIII, un gesuita dal nome sconosciuto, scrisse nel 1763 circa la “selvaggia crudeltà” degli Apache: “Un bimbo innocente (Messicano), di circa 5 o 6 anni di età, mi disse che era stato assassinato suo padre, lasciandolo legato a un albero”.

Samuel Woodworth Cozzens, un avventuriero statunitense che passò molto tempo tra gli Apache dal 1858 fino al 1860 (quindi circa un quinquennio prima della morte di Mangas), descrive, come testimone indiretto, il sacrificio di una ragazza messicana che ebbe luogo due anni prima della sua visita: ”L'avevano cibata per mesi, dandole da mangiare e mantenendola calma e ignara del suo destino. Fino a che arrivò un giorno: la mattina doveva farsi il sacrificio, per cui la portarono nel luogo del tormento. Lì la collocarono tra gli alberi, la sollevarono legata per i polsi a un altezza di circa tre piedi e le legarono fermamente le caviglie in modo che i piedi rimanessero uniti. Dopo accesero un fuoco sotto di lei. Quando le lame raggiunsero la sua carne, non usciva più che un grido dalla bocca di quella disgraziata vittima. Uno a uno, quei valorosi, per così dire, presero un ramo ardente e lo appoggiarono sulla tremante carne della infelice ragazza fino a che la morte la liberò da tanta terribile sofferenza".

Tutto ciò suona come una travolgente fantasia di uno scrittore romantico dell’epoca vittoriana. Però, a Morris Opler, uno studioso dei Chricahua-Apache del XX secolo, un Apache gli parlò del trattamento tradizionale che veniva riservato a chi era sospettato di stregoneria: "Tramite lo sciamano (Diyin) verificavano se una persona esercitava la magia nera. In tal caso lo obbligavano a confessare… appendevano il reo per i polsi in modo che i piedi non toccassero il suolo. Nessuno li liberava se provavano che effettivamente lo erano. Dopo accendevano un fuoco sotto lo stregone e lo bruciavano. Il fuoco distrugge il potere che la stregoneria può avere nel futuro, però il danno che aveva fatto non era annullato. La gente della magia nera non brucia presto; rimangono vivi per molto tempo".

Cozzens - che non aveva letto nulla di tutto ciò - riferì che la ragazza messicana era stata sacrificata per propiziare la buona volontà del Grande Spirito (Yusn), la cui ira si era manifestata portando su di loro la piaga del vaiolo”. Dal punto di vista degli Apache, quello che ai bianchi appariva come un orribile sacrificio, era il procedimento più adeguato e necessario per trattare il maleficio. Non vi era sadismo nel bruciare una strega. Come disse l’informatore di Opler, gli Apache credevano che la stregoneria penetrasse in tal modo nelle persone che, appesi ad un albero, i rei talvolta confessavano non per ottenere indulgenza, ma bensì per segnare la loro condanna. In tutti i modi, la prevalenza della tortura e mutilazione non può essere attribuita esclusivamente a misure prese per combattere la stregoneria. Le fonti, sia di prima che di seconda mano, sul trattamento brutale riservato ai prigionieri bianchi, pare un pasticcio di tutte le scene dei “Selvaggi Pellerossa” dei film Western di serie B.

Come James Tevis vide, Cochise talvolta appendeva gli uomini a testa in giù sotto tenui falò e li bruciava lentamente fino alla morte. A volte li legava a braccia e gambe aperte sopra le ruote dei carri, prima di dar loro fuoco. E gli piaceva, secondo alcuni, trascinare al suolo, sul suo cavallo, le vittime nude. Altri Apache, secondo i bianchi che trovarono i corpi, strappavano il cuore delle loro vittime (alcuni insistevano a dire che, dopo averlo cucinato, se lo mangiavano); li legavano ai pali, vicino a dei formicai, con le bocche tenute aperte da punte di legno affilate; li legavano ai cactus con striscie di cuoio bagnate, che una volta seccate dal sole si contraevano; li legavano nudi ad un albero, scagliandogli le frecce; gli strappavano la pelle a grandi strisce dal collo fino alle caviglie; smembravano i cadaveri; gli tagliavano gli arti uno a uno fino a che le vittime morivano dissanguate; gli schiacciavano la testa e i testicoli con pietre. Un pioniere dell’Arizona che seppellì un buon numero di coloni scrisse: “Il loro modo preferito di mutilare un cadavere è strappargli i genitali e introdurglieli in bocca”.

A volte i dettagli pretendono di far credere che provengano direttamente dall’Apache che si rese responsabile di tale tormento: “Il vecchio Eskiminzin disse che in una occasione sotterrò vivo uno statunitense lasciandogli libera solo la testa perché la divorassero le formiche”. Inoltre, gli Apache consegnavano i loro prigionieri alle donne, che avevano la reputazione di essere torturatrici più crudeli degli uomini. Un'altro pioniere afferma che i sopravvissuti ad un attacco effettuato nel 1880 “videro donne introdurre negli intestini (delle vittime) pali di legno mentre erano ancora vivi, e dopo gli schiacciarono la testa con pietre fino a ridurla in poltiglia”.
Accecati dal loro etnocentrismo gli osservatori bianchi hanno provato a spiegare la tortura come una componente degli Apache: “La loro natura selvaggia e sanguinaria prova un gran piacere nel martirizzare le loro vittime” scrisse John Cremony, un esploratore e soldato che conobbe bene gli Apache. “Ogni espressione di dolore e agonia era recepita con grida di entusiasmo, e colui il cui genio creativo inventava una più raffinata maniera di uccidere era trattato con onore”.

Tuttavia, durante gli ultimi millenni, la tortura è stato un fatto più universale e molto più ricorrente di quello che siamo disposti ad accettare. Chiunque studi questo fenomeno può arrivare alla conclusione che “ogni nazione ha praticato la tortura in qualche momento della sua storia”. Questo indica che, sebbene le mutilazioni non cominciarono a partire dall’assassinio di Mangas Coloradas, queste diventarono più perverse come risposta a decadi, secoli di maltrattamenti subiti dagli Apache da parte degli invasori Ispano-Messicani. I bambini Apache degli anni 1870 crebbero assorbendo le tradizionali atrocità Ispaniche, come il triste destino di un piccolo Apache chiamato Chinchi, che i Messicani legarono a un cavallo, trascinandolo lungo un campo di arbusti spinosi, fino a che morì.

 

In mezzo. Gli Apache si trovarono tuttavia nel mezzo delle due fazioni e proseguirono le loro tipiche incursioni, persino contro i due eserciti.

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Sotto: Chatto

Apache durante una battuta di caccia

Scout Apache

 

 

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