Anche i bianchi...
nche gli Angloamericani arrivarono ad essere
conosciuti per l’atroce trattamento che riservavano alle vittime
Apache. I soldati statunitensi non solo strappavano scalpi indiani,
ma anche orecchie e genitali. Uno dei loro peggiori passatempi
consisteva nel fare souvenir con parti del corpo: per esempio,
briglie intrecciate con i capelli strappati.
Durante i suoi primi anni di servizio in Arizona, a Joh Gregory
Bourke (un uomo che poi diventò un grande difensore dei diritti
degli Apache tra tutti quelli che li combatterono) offrirono come
ricordo lo scalpo e le orecchie di un guerriero Apache morto. Il
tenente di 24 anni, Bourke, all’epoca recentemente graduato a West
Point, appese le orecchie nella sua abitazione e utilizzò lo scalpo
per abbellire una lampada. Un giorno ricevette la visita di un amico
che inorridì alla visione di quei trofei. Fù in questo istante che
Bourke si rese conto di “quanto brutale e inumano era diventato” e
sotterrò orecchie e scalpo.
Gli Americani uccidevano neonati Apache, poi si
giustificavano recitando l’aforisma: "è meglio prevenire che
curare". Nel 1864, un gruppo di uomini dell’Arizona decise di andare
a caccia di Apache sul Rio Verde. Tra questi si trovava un famoso
bandito evaso chiamato Sugar Foot Jack. Dopo aver ridotto in cenere
un piccolo accampamento - che gli Apache avevano abbandonato in
tutta fretta - questo bandito trovò un neonato, lo gettò tra le
fiamme e rimase a guardarlo mentre bruciava. Poco più tardi trovò un
altro bambino; secondo le parole di un testimone, Sugar Foot mise il
piccolo sulle sue ginocchia solleticandogli il mento, dopo sfoderò
la sua pistola sparandogli nella testa: “le cervella del neonato gli
schizzarono in faccia e sui suoi vestiti”.
Durante i secoli di contatto con gli
Ispano-Messicani, gli Apache catturati, soprattutto le donne, erano
vendute come schiave e trasportate a sud, in territori lontani.
Essere imprigionati in una cella era, per gli Apache, una tortura
tanto atroce come la più crudele delle mortificazioni che Cochise
potesse infliggere ai bianchi. Tra tutte le storie che si sono
tramandate di generazione in generazione, spicca quella di alcune
valorose donne che fuggirono dalla schiavitù, incamminandosi a
piedi, orientandosi a memoria e d’istinto, attraverso 100
chilometri, fino ad arrivare alla loro terra.
L’attitudine degli Apache di fronte al dolore
era radicalmente diversa da quella dei bianchi. Il dolore era più un
aspetto della loro vita, e accettarlo con stoicismo e sopportarlo in
silenzio era una prova di carattere. Fin dalla loro più tenera
infanzia, i bambini erano abituati al dolore: dovevano mettersi
delle foglie di salvia secca sulle braccia, lasciarle bruciare fino
a che divenivano cenere e senza battere ciglio; in inverno si
alzavano all’alba e dovevano far rotolare una gran palla di neve con
le mani, fino a che qualcuno gli ordinasse di lasciarla andare;
Nella corsa, i ritardatari erano flagellati dagli adulti. Una volta
appreso questo incomparabile metodo di indurimento e abilità
atletica, l’abitudine al dolore faceva diventare i bambini dei
potenziali guerrieri. Ad una età più che giovane, i ragazzi erano
pronti per i combattimenti corpo a corpo, combattimenti che finivano
solo quando uno di loro sanguinava. Si formavano gruppi di 4, tutti
provvisti di fionda, e si celebravano combattimenti a pietrate. Più
avanti, con piccoli archi e appuntite frecce di legno, giocavano
alla guerra. Uno degli informatori di Opler ricordava un compagno
che "aveva perduto un occhio in tale pratiche belliche".
Così come sopportavano il dolore, i giovani
Apache apprendevano anche a somministrarlo: gli si davano degli
animali perché li torturassero, e il loro ingegno era ricompensato.
L’importanza che la tortura aveva all’interno dello stile di vita
Apache risulta incomprensibile ai giorni nostri... nonostante il
relativismo culturale. Ma dal punto di vista degli Apache, il dolore
era parte dell’ordine naturale delle cose. La vendetta, per un
Apache, non significava farsi giustizia con le proprie mani, senza
un sacro dovere sociale. Non era nemmeno necessario uccidere
personalmente il nemico che gli aveva procurato il danno, poiché
altri componenti della sua gente potevano farlo. “Quando un valoroso
guerriero veniva ucciso, gli uomini andavano in cerca di 3 o 4
messicani e li consegnavano alle donne perché li uccidessero per
vendetta” disse un Chiricahua a Morris Opler. La mutilazione
intensificava il castigo, poiché - uguale a Mangas Coloradas che
vagava eternamente con la testa mozzata - un nemico smembrato
viaggiava anch’egli nell’aldilà nelle medesime condizioni.
Quello che noi intendiamo per tortura, per gli
Apache era un atto di carattere sacro. Era una prova di valore
effettuata su di un guerriero nemico. Gli Apache ammiravano la
valentia, e un bianco che avesse combattuto con valore fino alla
fine, a volte veniva onorato: i suoi boia gli scorticavano la mano
destra e le piante dei piedi come riconoscimento alle sue prodezze.
Magra consolazione, certo.
Ma erano state sempre così le cose? Lo erano
anche nel XV secolo, quando il Popolo Ndè, con cani e senza cavalli,
migrarono verso il sud-ovest dai loro ancestrali domini nel nord del
Canada? O forse gli Apache - la tribù con la maggiore capacità di
resistenza e adattamento - appresero le loro letali e intense
torture da quei maestri di crudeltà che furono i Conquistadores
Spagnoli?
Queste domande, con molta probabilità, non otterranno risposta.
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