La grande corsa
inque giorni, non ne servirono di più per
riempire l’intera vallata di cercatori e a partire da fine agosto
l’intera lunghezza del Bonanza Creek era stata suddivisa in grandi e
piccole concessioni. Fu quindi una grande sorpresa quando un filone,
persino più promettente di quello di Carmack, venne scoperto in un
altro tributario, chiamato Eldorado Creek. Diciamo subito che se
tutte queste notizie avessero potuto seguire la loro strada, il caos
sarebbe scoppiato prestissimo; invece, a causa della rigidità del
clima, la scoperta dell’oro restò circoscritta per un lungo periodo
nei campi dei minatori. Anche la burocrazia fece la sua parte. Un
ispettore del governo canadese, William Ogilvie, inviò ai suoi
superiori notizie allarmate e circostanziate sulla scoperta
dell’oro, ma gli addetti agli uffici ministeriali non vi prestarono
la giusta attenzione. Così fino al luglio del 1897 il “mondo
esterno” non seppe nulla dell’oro dello Yukon. Si seppe tutto in una
volta quando i battelli a vapore scaricarono più di due tonnellate
d’oro (in ogni sorta di contenitore) a San Francisco e a Seattle.
Scoppiò immediatamente la “febbre dell’oro” che raggiunse dimensioni
impressionanti anche perché gli Stati Uniti (da cui provenivano le
orde dei diseredati in cerca di fortuna) erano stretti nella morsa
di una perdurante crisi. La stessa diffusione di grandi quantità di
oro aggravò lo stato dell’economia e si arrivò al punto in cui tanti
preferirono abbandonare il loro lavoro per andare in cerca di
fortuna.
La gente non ne poteva più di vivere a disagio, voleva sognare! Un
quarto delle forze di polizia di Seattle si diede dimissionario per
cercare fortuna nel Klondike. Quelli che il lavoro proprio non
l’avevano cercarono in tutti i modi – leciti e meno leciti – di
racimolare i 500 dollari necessari all’acquisto dell’attrezzatura
necessaria per intraprendere l’attività di cercatore d’oro. Fu
proprio allora che si scatenò la fantasia di quelli che capirono da
subito che non era cosa di cercare l’oro, ma di realizzare enormi
profitti sfruttando l’ingenuità di quelli che partivano. Erano tempi
in cui qualunque merce riportasse nel nome il suffisso “Klondike”
andava a ruba senza problemi. Spuntarono come funghi fantomatici
medicamenti del Klondike, biciclette del Klondike, scuole per
minatori (anch’esse, naturalmente, del Klondike), persino una casa
portatile, leggera come l’aria… del Klondike! Gli inventori si
scatenarono escogitando improbabili marchingegni che avrebbero
dovuto semplificare la vita del cercatore d’oro, meglio
eliminandogli il disturbo della ricerca faticosa con picco e pala.
Un tizio, tra i pionieri dell’energia elettrica, propagandò una
macchinetta a raggi X che avrebbe dovuto scovare l’oro sottoterra
senza scavare. Soprattutto, e furono le più richieste, sorsero
tantissime aziende di trasporto che avrebbero dovuto portare a
destinazione i volenterosi nei campi auriferi dell’Alaska, alcune
persino con palloni aerostatici. Eppure, dietro l’apparente gran
varietà di mezzi di trasporto, mancavano le barche in grado di
trasportare a nord uomini e cose. Tutte quelle che facevano servizio
di linea venivano caricate fino all’inverosimile, meritandosi il
tremendo appellattivo di “bare galleggianti”. La gran parte si
limitava sonnacchiosamente a raggiungere Skagway, una cittadina
dell’Alaska, una brutta accozzaglia di tende in cui a ogni angolo si
poteva trovare un saloon per bere e giocare d’azzardo e in cui le
sparatorie per le strade erano talmente frequenti da non suscitare
neppure l’attenzione della gente del posto. In aggiunta, una forte
malavita locale, capitanata da tale “Soapy” Smith, che tiranneggiava
i cittadini e sottoponeva al racket qualunque attività
imprenditoriale. Soprattutto, però, Skagway era molto molto lontana
dai campi auriferi e la strada che da lì partiva era veramente
difficile. Tanto difficile che molti sarebbero anche tornati a casa,
se solo ne avessero avuto la possibilità, il denaro necessario per
fare il viaggio al contrario.
Esistevano alcune piste che da Skagway puntavano verso i campi
auriferi passando per le montagne. Tra queste solo un paio potevano
essere praticate sperando di arrivare vivi e vegeti nello Yukon;
passare per le altre significava come minimo essere derubati di
tutto e, al peggio, di lasciarci anche la pelle.
La pista più trafficata veniva chiamata “La pista dei cavalli morti”
perché disseminata di corpi di poveri equini. I cavalli venivano
caricati fino all’inverosimile di materiali di ogni tipo e così
sotto sforzo venivano avviati lungo una pista che si arrampicava
sempre più su fino a diventare quasi impercorribile per uomini e
bestie, irta di sporgenze e costellata di buche enormi in grado di
ospitare un cavallo e tutto il carico. Il ghiaccio e le distanze
facevano il resto.
L’altra era nota come “La pista del poveruomo” perché era talmente
ripida che non era transitabile con bestie da soma di alcun tipo.
Per il carico ci si avvaleva del costoso aiuto dei portatori indiani
che dovevano percorrere avanti e indietro la strada – anche quaranta
volte! - per trasportare tutta la merce dei cercatori d’oro. Lo
stesso cercatore era costretto a seguire su e giù gli indiani
(pagati in base al peso trasportato e alle miglia percorse). L’unica
consolazione era che la discesa veniva agevolata scivolando sulla
neve seduti sui pantaloni. Lungo questa pista si affannavano lunghe
colonne di cercatori.
Solo alcuni tra i molti aspiranti cercatori riuscivano a raggiungere
i fiumi in cui c’era l’oro prima dell’arrivo dell’autunno e
dell’inverno. Tutti gli altri erano costretti a soste lunghissime,
senza soldi, senza casa, senza niente, in attesa della primavera.
Moltissimi, scoraggiati, provarono a rientrare a casa, altri
aspettarono fiduciosi arrangiandosi in qualche modo. Lungo le piste
lucravano tutti quelli che possedevano carri o cavalli e muli,
taluni pervenendo alla vera ricchezza. C’erano dei trasportatori che
in un giorno riuscivano a guadagnare quanto altri in un anno di duro
lavoro. Chi aveva fantasia e voglia di intraprendere un’iniziativa
costruiva case di ospitalità lungo le piste. Ai viandanti veniva
offerto un pasto caldo e un posto riparato in cui riposare, fosse
pure un semplice pavimento di terra battuta. Questi punti di ristoro
erano in gran parte tende o, talvolta, capanne molto grandi
costruite con legno.
Alcuni furbacchioni escogitarono un sistema molto pratico per fare
soldi: costruivano delle barriere e chiedevano un dazio a tutti
quelli che si trovavano a passare da quelle parti, specialmente in
prossimità dei passi montani. In un caso la pista venne chiamata “La
scala d’oro”. I viaggiatori della “Pista del cavallo morto”, come
pure quelli della “Pista del poveruomo”, finivano nei pressi del
Lago Bennet dove passavano lunghi mesi nelle tendopoli in attesa di
raggiungere le zone di cerca. Molti si dedicavano al taglio della
legna dalle colline circostanti per conto di aziende di trasporto
fluviale. Alla fine di maggio del 1898, allo scioglimento dei
ghiacci, prese il via un gran traffico di zattere mal costruite e
mal guidate che provavano a raggiungere il Klondike attraverso un
percorso reso pericolosissimo dalla presenza di rapide terribili. Le
Giubbe Rosse canadesi intervennero molte volte per fare guidare
tutti quei disperati da gente competente per limitare il rischio di
perdere la vita nel lungo viaggio. |