Le tecniche
ella maggior parte dei
casi i prigionieri di guerra
erano trattati con riguardo. E a proposito di alcuni supplizi per
così dire classici e ritenuti propri dell'uso indiano, vi sono molti
errori da correggere. Così per quanto
riguarda il famoso scalpo. E' noto in che cosa consista questa
sanguinosa operazione: il Pellerossa praticava una incisione
circolare in tutta la regione occipitale
sulla pelle del cranio del nemico vinto e strappava la capigliatura
così separata.
La ragione di questa pratica odiosa risiede, come
sovente, in una superstizione
religiosa: il guerriero scalpato non poteva più essere condotto dal
Grande Spirito nel Paradiso delle Grandi Cacce. Questo genere di
supplizio era noto
nell'antichità ed Erodoto narra come fosse in uso tra gli Sciti.
Esso è praticato, dopo l'epoca colombiana, soltanto dalle tribù del
Nord-Est. L'abitudine dello scalpo
era totalmente ignorata dagli Indiani della pianura prima
dell'arrivo dei bianchi. I Sioux, gli Cheyenne, i Comanche, ecc. non
la conoscono e l'apprendono con
l'impatto dei Visi Pallidi, tra l'altro sotto la spinta dei
collezionisti europei in cerca di questi trofei ed acquistandoli ad
alto prezzo. Gli scalpi diventano una vera e
propria merce e poiché il mercantilismo non si lascia sfuggire
nessuna occasione di guadagno, gli intermediari arraffano il
prodotto ovunque possibile.
La notizia si
diffonde e siccome i primi produttori non sono in grado di
soddisfare tutte le ordinazioni, i popoli vicini vengono a loro
volta interessati all'affare e resi edotti del
profitto che se ne può trarre.
La materia prima è facilmente ottenibile, <<arriva da sola>>, come
dice il viaggiatore francese Simonin, un cacciatore che lavora per
proprio conto. E gli Indiani
cacciano le capigliature con la stessa buona volontà con cui
cacciano le pellicce della della Compagnia della Baia di Hudson,
senza scorgervi nulla di male.
Questa pratica si diffonde nella prateria e nel secolo XVII tutti i
Pellerossa sanno scalpare, né lo ritengono una colpa e poiché il
valore commerciale del trofeo è
considerevole, ne considerano il possesso come la prova di una
impresa gloriosa. Poi l'interesse materiale passa in seconda linea
e lo scalpo diviene simbolo di
valore e di abilità come la penna d'aquila o l'artiglio dell'orso.
Ma, dal punto di vista morale, è più criminale il collezionista che
ha lanciato quella moda sanguinaria
che il selvaggio che l'ha seguita. Un altro errore consiste nel
credere che l'uomo scalpato non possa sopravvivere. La ferita in se
stessa non è grave ed interessa
una parte di cuoio capelluto larga quanto una mano. Così era
frequente incontrare, tra i pionieri della prateria e gli abitanti
delle cittadine del West, molti scalpati in
buona salute. Costoro, quando erano a testa scoperta, mostravano una
specie di tonsura un poco più larga, di solito nascosta da un
fazzoletto legato alla spagnola
quando ci si vergognava della sconfitta che simboleggiava.
Comunque, questi precedenti, se riducono la responsabilità degli
Indiani, ne provano la tendenza alla lotta.
L'arte della guerra, che
tanto li appassionava, fu da essi
portata al più alto grado di sviluppo raggiungibile con i mezzi a
loro disposizione, mentre è giusto riconoscere che le leggi che la
regolano sono osservate assai
più scrupolosamente che non tra i popoli civili. Per esempio, un
Capo, vincitore di una tribù nemica, ne assume il diritto di comando
di cui si è mostrato capace in
quanto più forte. Se tuttavia i guerrieri non accettano il nuovo
capo, il rifiuto non viene espresso in forme legali, bensì dal nuovo
combattimento che dovrà sostenere
per affermare la sua volontà, senza che corra il pericolo di essere
tolto di mezzo da un agguato o da un assassinio dal quale non si
possa difendere. Le nazioni
evolute hanno meno riguardi per i capi loro imposti dal destino.
Anche i patti d'alleanza sono scrupolosamente rispettati, benché
siano soltanto verbali. Le parole
pronunciate attorno al fuoco del Consiglio, passando di mano in mano
il calumet, impegnano l'onore di tutti coloro che le pronunciano e
le approvano e l'onore è
per il Pellerossa un legame che non si spezza.
I metodi di
combattimento non differiscono molto da quelli usati per la caccia:
si seguono le piste, si riconosce dal numero e dalla disposizione
delle impronte
quale sia il nemico, quando è transitato, dove e in quali condizioni
lo si incontrerà.
Naturalmente, importanti cerimonie precedono il
combattimento. Al rullo dei
tamburi, ai segnali di fumo, i guerrieri accorrono per prendere
parte alle danze indossando i vestiti, portando le armi e le pitture
di guerra, consistenti, tra quasi tutti
gli Indiani delle pianure, in una maschera rossa che copre il viso,
a eccezione della fronte.
Le danze variano secondo le tribù. I guerrieri Sioux di inchinano
davanti ad un braciere urlando: << Il Fuoco è senza pietà, e così
saremo saremo noi con i
nemici!>>. Il capo raccoglie un pugno di terra lo spalma sulla
guancia dei suoi uomini, invocando lo spirito del "Piccolo Grande
Padre", il bisonte, avo della tribù,
con un gesto analogo a quello del bufalo che prima di caricare scava
la terra con le corna e con lo zoccolo coprendosi il muso di
terriccio. Ogni guerriero,
completando il rito, trae un pezzo di carbone dalla sacca che ha al
fianco e traccia segni particolari secondo incantesimi e diritti che
gli sono propri. Poi tutti
saltano e volteggiano con movimenti indiavolati,e dopo i canti
sacri, hanno iniziato la marcia.
I comandi sono impartiti con un fischietto, che il capo porta
sospeso sul petto, lungo circa venti cm e ricavato dal femore del
tacchino selvaggio, che ha due suoni,
uno per l'attacco e l'altro per la ritirata. Anche una bandierina
serve per trasmettere ordini, quella color rosso dà inizio alla
battaglia, invece un pezzo di stoffa
bianca o una fronda sono il simbolo sacro dell'armistizio, che
nessuno osa non rispettare.
L'attacco si scatena, di solito all'alba
o alla sera; mai di notte, affinché le
imprese di ciascuno siano controllabili, ed è preceduto dal grido di
guerra, in uso in tutte le tribù: una nota acuta e lacerante che
risuona a lungo, con una rapida
vibrazione prodotta dal palmo della mano o dalle dita che battono
sul labbro. Il suono non ha nulla di terribile, ma nessun grido
umano può essere inteso tanto
lontano distintamente nella battaglia. Il terrore che i nemici ne
provano deriva dall'associazione d'idee che fa nascere, evocando la
lotta senza quartiere.
Talune tribù adottano trucchi per l'assedio; per esempio gli Apache
si celano al limite delle foreste sotto fronde che fanno avanzare
impercettibilmente. I Comanche
si aggrappavano nudi ai cavalli in modo da non riuscire visibili, e
li lasciavano apparentemente vagare come una mandria in libertà sino
a che giungevano
all'altezza del campo. Allora si raddrizzavano tutti insieme e
partivano alla carica.
Essi non erano soltanto cavalieri
eccezionali: la loro approfondita conoscenza del
cavallo serviva come metodo di battaglia o piuttosto di saccheggio,
il cosiddetto "estampido", come fu definito dagli Spagnoli. Per
questa azione i guerrieri
portavano con sé, oltre alle armi, una pelle di bisonte disseccata e
rigida come una spessa pergamena. Così attrezzati, si avvicinavano,
sui loro cavalli veloci come
il vento, al campo che avevano deciso di assalire attendevano la
notte e l'ora del sonno più profondo dei nemici. Agivano di notte
perchè non si trattava di un
combattimento vero e proprio ma di un attacco nel corso del quale,
salvo incidenti, non sarebbe corso sangue. Poi lanciando il feroce
grido di guerra, svolgevano
le loro pelli di bisonte e le battevano le une contro le altre,
provocando un rumore analogo a quello che si ottiene in teatro
quando si fanno vibrare placche di latta
per imitare l'uragano. Questo rumore gettava il panico tra i cavalli
dei nemici, tanto più che i Comanche percorrevano urlando il campo,
rovesciando le tende sui
dormienti, in un galoppo infernale che disperdeva e spegneva i falò
e seminava tra uomini e cavalli un terrore che gli ordini e gli
appelli dei capi non riuscivano a
dominare. Quando infine i nemici ritrovavano il loro sangue freddo e
afferravano le armi per difendersi contro questi demoni della notte,
non trovavano più alcuno,
perchè i cavalieri fantasma erano spariti con la stessa rapidità con
cui erano apparvi. Non avevano ucciso o scalpato nessuno, se ne
erano andati per non tornare
più, ma con loro erano partiti i cavalli del campo, che avevano
sciolto e che ore galoppavano a spron battuto per la pianura.
All'alba, le bestie, spossate dalla
corsa, si fermavano nella prateria e i Comanche non dovevano nemmeno
ricorrere al laccio per catturarle.
Il coraggio in guerra è, agli occhi degli indiani, la maggiore virtù
dell'uomo, tanto stimata che le viene reso omaggio anche dal nemico.
Dopo la sanguinosa
battaglia del Little Big Horn, che fu uno degli episodi salienti
della storia dei Pellerossa, allorchè le truppe americane furono
massacrate fino all'ultimo uomo,
quando si recuperarono i cadaveri, si constatò che il generale
Custer era tra i pochi a non essere stato scalpato. Ciò era
incompatibile con tutte le le leggi di guerra
indiane, tanto più che si trattava di un grande capo e che il trofeo
della sua capigliatura sarebbe stato il documento di un'impresa
eccezionale per colui che l'aveva
abbattuto. Qualche anno dopo, Toro Seduto, interrogato in merito
fornì questa spiegazione:
"Il Capo bianco era un valoroso. Ha combattuto strenuamente sino a
che è rimasto solo contro tutti i guerrieri che lo circondavano,
rifiutando di arrendersi.
Coperto di sangue e di ferite, lottava sempre senza speranza di
vittoria e noi lo abbiamo voluto onorare dopo la morte rispettandone
il cadavere. "E' una delle tante versioni sulla morte di
Custer, comunque, morire coraggiosamente era per l'Indiano un ideale
e un dovere. Trascrivo un racconto che
reputo veramente epico.
"Tre Sioux cavalcavano l'uno dietro verso un'altura della prateria
vicino al posto di scambio. Era condannati a morte e l'ora
dell'esecuzione si avvicinava; qualche
mese prima avevano innalzato lo stendardo della rivolta, poi erano
stati catturati. Allora chiesero un favore, non già quello di
vivere, ma quello di non morire con le
mani legate dietro la schiena e gli occhi bendati, per poter
guardare in faccia la morte e andarle incontro a cavallo, il viso
dipinto come per la battaglia, il fucile in
pugno ed il grido di guerra sulle labbra. L'ufficiale del forte
accondiscese e fece mettere a loro disposizione, per ognuno, un
cavallo ed un fucile caricato a salve. Ai
piedi della collina, a qualche distanza, erano schierati i veterani
delle guerre indiane, ben lungi dall'essere soldati di parata.
L'odio arde nei loro cuori e traspare
dai loro occhi, perchè più d'uno dei loro camerati e stato vittima
del terribile coltello da scalpo. Tuttavia nulla lascia trasparire
la loro impazienza mentre seguono
con interesse ansioso il dramma al quale stanno per partecipare. Gli
Indiani lanciano al piccolo trotto i cavalli, il vento fa ondeggiare
le alte erbe della prateria
come la superficie di un lago, un nibbio volteggia nel cielo e
descrive un ampio cerchio al di sopra la testa dei tre condannati.
Giunti in vetta alla collina, i tre
scendono da cavallo e sembrano discutere con gli animali al fianco.
Poi intonano il canto della morte e gli accenti dell'inno funebre
trasportati dal vento giungono
sino ai soldati, che vedono il ritmico oscillare dei corpi degli
Indiani, mentre il loro lamento si fa più alto. La scena e a un
tempo solenne e feroce. L'emozione e
l'odio si alternano nel cuore dei veterani quando il canto dei
guerrieri, giunto al più alto diapason, si spegne in un gemito. Per
un attimo regna un silenzio di morte,
poi echeggia un grido terribile, il grido di guerra dei Sioux. Al
canto di morte fa seguito il segnale della battaglia e i tre Sioux
si scagliano, in groppa ai loro selvaggi
cavalli, contro le truppe degli Stati Uniti. Lanciano di nuovo
l'urlo di guerra e si precipitano in una folle corsa sul pendio
della collina, divorando lo spazio che li
separa dal battaglione. Si avventano come leopardi, quasi sperando
di spezzare il cerchio di ferro che li circonda e di spargere ancora
una volta il terrore nelle file
nemiche. Infine sono alla portata dei fucili, mente i tiratori
rimangono immobili. Ai soldati arriva l'ordine di preparare le armi.
I Sioux avanzano come un uragano,
abbandonando le briglie sul collo dei cavalli e brandendo i fucili
raddoppiano il tono dei loro urli feroci. All'ordine di puntare le
armi i soldati spianano i fucili
prendendo di mira i selvaggi che sparano a salve. Sono tanto vicini
che i veterani possono scorgere il vermiglio che tinge i visi di
quei magnifici guerrieri, i loro
occhi ardenti, i loro lunghi capelli neri al vento. Per un attimo il
comandante sembra preso dal fascino tragico della scena, poi ordina:
<<Fuoco>>. Un lampo ed una
scarica. Una nube di fumo bianco s'innalza lentamente e tre cavalli
selvaggi, sbarazzati dai loro cavalieri, galoppano follemente, la
testa alta, poi si arrestano e si
mettono a pascolare. Tutto è finito. La sentenza è stata eseguita,
le anime dei condannati sono giunte dinanzi al Grande Spirito."
(R.P. Savinien: Le Missioni cattoliche)
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