Sul sentiero di guerra
nche prima di doverla combattere per un
giustificato odio contro l'invasore, l'Indiano, in particolare
quello delle pianure, amava ardentemente la guerra. Battersi,
affrontare il vicino, attaccarlo per saccheggiarlo, spingere la
vendetta sino alle rappresaglie più crudeli, è per lui non soltanto
una necessità imposta dalle
circostanze della sua vita nomade, ma anche un dovere da adempiere
ed un piacere di cui non vede la ragione per privarsene.
Ai suoi
occhi la guerra è soltanto
una caccia di tipo particolare. Se è logico braccare una selvaggina
più o meno inoffensiva per assicurarsi di che mangiare, non è
riprovevole attaccare un nemico
che si difendi ad armi pari, per impadronirsi di ciò che possiede e
di cui ha urgente bisogno.
La reciprocità di comportamento vale da giustificazione.
Se non si vince, bisogna rassegnarsi ad essere vinti. Se non si
uccide il nemico sarà lui ad uccidere e poiché è difficile stabilire
chi abbia vibrato il primo colpo,
non si perde il tempo per chiarire la ragione o il torto e ci si
batte ogni volta che se ne presenta l'occasione, vale a dire assai
spesso e per tantissime cause.
Tuttavia vi sono Nazioni più bellicose delle altre. Mentre gli Hopi,
i Pueblos ed altre tribù aspirano solo a vivere in pace, i Comanche,
gli Apache, gli Cheyenne ed i
Sioux sono instancabili guerrieri, al punto che non solo
aggrediscono senza posa i loro vicini, ma si combattono tra loro per
i più futili motivi. I Mandan
furono quasi per intero sterminati da altri Sioux, sia pure aiutati
dagli Arapaho e dagli Cheyenne.
Quando non ci furono più Mandan da distruggere, gli alleati del
giorno prima divennero attuali avversari.
I pretesti per la guerra
erano numerosi: talvolta un gruppo
nomade che attraversava un territorio contemporaneamente a un altro.
Non che gli Indiani considerassero il territorio come proprio, dato
che erano nomadi, ma era
sufficiente un intralcio ai loro piani per provocare risentimento.
Si levava l'ascia di guerra e lo scontro aveva inizio.
Solo l'arrivo dei Bianchi indusse alcune tribù a solide coalizioni
contro il comune nemico. Qui calza a pennello l'esempio delle
coalizioni europee contro Napoleone.
Spesso l'obiettivo dell'azione era il saccheggio. Quando un
villaggio mancava di cavalli, era sempre possibile trovarne, ma poco
tempo dopo la tribù danneggiata
tentava di riprendere quanto era suo e se riusciva vittoriosa
guadagnava molto di più di quanto aveva perduto, originando nuovi
sentimenti di vendetta. Così il
conflitto non aveva mai fine.
Inoltre vi era la guerra per la
guerra, per il solo gusto di battersi.
Ed ora parliamo degli Apache
la cui vita era una continua lotta. Più di
tutti refrattari ad ogni genere di lavoro, privi di ogni attività,
essi mancavano di tutto, vivendo tra popolazioni più laboriose e di
cultura più avanzata, sulle quali
piombavano come un uragano, uccidendo, saccheggiando, incendiando e
continuando il cammino col loro bottino e coi loro sanguinosi
trofei. Questo costume
spiega, assai verosimilmente, la ragione dei loro continui e rapidi
spostamenti da un capo all'altro del continente, nel corso della
loro storia. Sdegnando di
affrontare Nativi simili a loro, cioè poveri, essi preferivano le
incursioni nelle regioni ove sorgevano città fiorenti, le
distruggevano, se ne andavano e tornavano
quando gli abitanti le avevano ricostruite. Questa ipotesi
spiegherebbe il dissolversi della civiltà Tolteca, ripiegante di
fronte a questi feroci distruttori sempre sulle
loro tracce, tanto da giungere sino in Messico quando gli Spagnoli
cominciavano a prosperarvi ed a diventare una preda agognata.
Comunque va sottolineato che
furono proprio gli Spagnoli a creare ai "cani malvagi
dell'Apacheria" e agli Indiani in generale quella fama di
implacabile ferocia che è diventata proverbiale e che
ha fatto definire <<Apaches>> i peggiori banditi delle città
d'Europa.
Questa fama era giustificata, sia pure entro certi limiti. Senza
dubbio il guerriero Apache non è un modello di mitezza. Gli
ornamenti a base di dita recise ai nemici
vinti sono prova di incontestabile barbarie. Inoltre, benché si sia
a questo proposito esagerato, è certo che torturavano i prigionieri,
talvolta con una raffinatezza che
fa onore solo alla fertilità della loro immaginazione, o piuttosto a
quella delle loro donne, cui in generale era riservata la gioia di
imporre i supplizi. Ma sarebbe un
grave errore credere che la tortura fosse applicata unicamente per
l'atroce piacere di far soffrire un uomo. Non era il gusto del
sangue sparso che muoveva il
carnefice, ma il desiderio di vincere completamente il nemico, di
strappargli, con un grido di dolore, la confessione della sua
debolezza. Occorre ricordare che
nelle cerimonie di iniziazione l'Indiano sopporta con coraggio
sovrumano le sofferenze e che ritiene una vittoria rifiutarsi di
riconoscere che un potere più forte della
resistenza della sua carne domina la sua volontà. Il suppliziato,
legato al palo, cantava il suo canto di morte, vale a dire si
vantava orgogliosamente di essere stato
sino a quel momento il più forte in guerra e sfidava i carnefici
insultandoli. Non vi era altro mezzo di provargli la sua sconfitta
che tentare di farlo gemere o tremare,
il che nella maggior parte dei casi non avveniva. Il suppliziato si
lasciava scorticare vivo senza cessare di enumerare le sue vittorie
ed il suo orgoglio era costretto
al silenzio solo dal taglio della lingua. Era, insomma, un'atroce
legge di guerra. I torturatori sapevano che, catturati, avrebbero
subito la stessa sorte. D'altro canto,
tali leggi erano tanto radicate che ne era rigorosamente osservato
anche l'aspetto positivo. Se il peggior nemico di una tribù era
costretto da forza maggiore a
cercarvi rifugio, diveniva sacro in quanto ospite, e nessuno gli
avrebbe torto un capello per quanto l'odio nutrito verso di lui. Gli
si fornivano, anzi, tutti i mezzi per
andarsene e difendersi: un cavallo, armi, viveri e finchè rimaneva
nei limiti del diritto d'asilo era perfettamente al sicuro.
Inoltre i non combattenti erano sempre rispettati, il che dimostra
in modo evidente che gli Apache non erano avidi di soddisfare
l'ignobile voluttà delle sofferenze
altrui. Uno dei loro più indomabili capi, Geronimo, in età avanzata,
nella forzata inattività, amava raccontare le sue avventure e con
disarmante franchezza
enumerava i nemici che aveva ucciso, saccheggiato, torturato e
rimpiangeva solo di non poterne massacrare ancora, ma sempre
aggiungeva:
"Soprattutto, nonostante tante lotte, ho avuto la fortuna di non
versare mai, neanche involontariamente, il sangue di una donna o di
un bambino". Eppure, se lo
avesse fatto, avrebbe potuto giustificarsi affermando di aver
applicato la feroce legge del taglione poichè sua madre, sua moglie
e i suoi figli erano stati
massacrati dai Messicani mentre regnava la pace.
In ogni caso, la crudeltà attribuita agli Apache non era comune nel
senso che non era riferita a tutte le tribù.
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