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A cura di Paolo Deotto. Si ringrazia Storiain.net

Chiusi nelle riserve

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on si può parlare compiutamente dell'ultimo ventennio del periodo cosiddetto delle "guerre indiane" senza un accenno a un uomo che ne fu il più significativo simbolo, in negativo.
George Armstrong Custer nasce il 5 dicembre 1839 a New Rumley, Ohio. Il 1° luglio 1857 viene ammesso all'Accademia Militare di West Point; ottiene la nomina a sottotenente il 24 giugno 1861, con la classifica di 33° su 33 cadetti.

Nei suoi anni di frequenza in Accademia, Custer non brillò né per disciplina, né per senso del dovere. Poco portato allo studio e alla riflessione, nell'ultimo anno incorse anche in una mancanza disciplinare grave, tale da essere deferito a una corte marziale. Le accuse erano di "negligenza in servizio" e di "condotta pregiudizievole per la disciplina militare". Comandato quale ufficiale di guardia, Custer aveva mancato di prendere le misure appropriate per sedare una lite tra due cadetti, incitando addirittura i due litiganti a uno "scontro leale". Nella lite era rimasto anche ferito accidentalmente un soldato di sentinella. Le mancanze in cui era incorso avrebbero potuto comportare l'espulsione dai ranghi dell'esercito. La sentenza fu invece insolitamente mite: "rimprovero solenne, da iscriversi nei documenti personali, per leggerezza nell'esecuzione dei propri compiti".

Tanta indulgenza aveva una semplice spiegazione: la guerra di Secessione comportava, per entrambe le parti in lotta, uno sforzo militare eccezionale, aggravato, nel caso del Nord, da una grave carenza di ufficiali. La necessità impellente di inquadrare milioni di uomini chiamati alle armi imponeva di non andare troppo per il sottile nella nomina degli ufficiali, e così anche Custer, ultimo del suo corso e con la macchia delle mancanze disciplinari, ebbe la nomina a sottotenente, inquadrato nel 2° reggimento di cavalleria dell'Unione.
Il 21 luglio 1861 fu per il giovane neo-ufficiale il giorno del battesimo del fuoco, nella prima battaglia di Bull Run, nella Virginia settentrionale. Il 3 agosto di quell'anno venne trasferito al costituendo 5° reggimento di cavalleria, col quale partecipò alla difesa di Washington, minacciata dalle truppe confederate, e successivamente alla campagna della Virginia peninsulare. Promosso capitano il 5 giugno 1862, venne nominato, il 14 aprile 1863, aiutante di campo del generale Pleasonton, comandante della cavalleria dell'armata del Potomac.
Gettatosi a capofitto nella guerra, l'ex cadetto indisciplinato aveva fatto dimenticare i propri trascorsi poco onorevoli, mettendosi in luce come ufficiale energico, instancabile e di grande coraggio personale. La guerra del resto non è la situazione ideale per chi ha scelto la carriera delle armi? Ma per George Armstrong Custer il destino aveva in serbo una sorpresa formidabile: la promozione a generale, all'età di 23 anni!

Conviene qui chiarire che l'esercito dell'Unione era quasi del tutto privo di ufficiali generali, né ciò è strano, considerando che in tempo di pace erano solo 16.000, tra truppa, sottufficiali e ufficiali, gli effettivi dell'esercito degli Stati Uniti, la cui unità di base era il reggimento. Nel momento di massimo sforzo militare, nella prima parte del 1863, l'Unione mise in armi 3 milioni di uomini; le relative armate, corpi d'armata, divisioni e brigate che andavano a costituirsi per necessità bellica avevano bisogno di generali che le comandassero, e si consideri anche che buona parte dei quadri dell'esercito avevano aderito alla Confederazione. A questa necessità si rispose con tipico pragmatismo americano, promuovendo gli ufficiali in servizio permanente al grado nel quale erano necessari sotto il profilo funzionale e adottando per loro una duplice carriera, quella appunto funzionale, nella quale il grado era contrassegnato dal termine "brevet", per indicare la posizione solo nominale, imposta dalle esigenze di guerra, e quella regolare, che proseguiva secondo gli schemi di avanzamento del tempo di pace. In questa situazione il 28 giugno 1863 il generale George G. Meade, comandante dell'armata del Potomac, dovendo organizzare tre brigate di cavalleria, richiedeva tre generali di brigata. Su conforme proposta del generale Pleasonton, uno degli ufficiali segnalati per il grado di generale era il capitano George A. Custer; il giorno successivo era già pronto il decreto presidenziale di nomina del giovane capitano al grado di generale di brigata brevet.

Pochi giorni dopo, il 3 luglio 1863, il neo - generale si distingueva per slancio e ardimento al comando della 2° brigata di cavalleria del Michigan, nella storica battaglia di Gettysburg, che segnò l'inversione di tendenza della fortuna militare sudista. Il 1° ottobre 1864 Custer assunse il comando della 3° divisione di cavalleria, inquadrata nell'armata comandata dal generale Sheridan. La promozione al grado di generale di divisione brevet giunse il 13 marzo del 1865. The boy general, il ragazzo generale, era ormai divenuto un personaggio popolare; fu tra i quattro generali che presenziarono alla firma della resa sudista, domenica 9 aprile 1865, nella piccola fattoria di Appomattox Court House, quando il generale sudista Lee si arrese al generale nordista, e futuro Presidente, Grant.

Durante il conflitto, il 9 febbraio 1864, Custer aveva sposato Elisabeth Bacon, una graziosa giovane di 21 anni, che lo avrebbe poi sempre seguito per il resto della vita e gli sarebbe a lungo sopravvissuta, sino al 4 marzo 1933, difendendo sempre la memoria del marito con una tenacia possibile solo in una donna profondamente innamorata.

Finita la guerra, la smobilitazione dell'esercito prevedeva, oltre lo scioglimento dei reparti non più necessari, anche il riordinamento dei quadri degli ufficiali. Quelli che non provenivano dall'Accademia (che erano la maggioranza) vennero congedati col grado che rivestivano alla fine del conflitto. Agli ufficiali provenienti dal servizio permanente venne posta un'alternativa: o essere anch'essi congedati col grado raggiunto in guerra, o restare in servizio tornando al grado che si sarebbe conseguito per normali avanzamenti in tempo di pace. Applicata al caso di Custer, che optò per la permanenza in servizio, tale regola significava il ritorno al grado di capitano. Tuttavia, dati i meriti conseguiti in guerra, gli vennero concesse due promozioni e alla data del 28 luglio 1866 fu definitivamente nominato tenente colonnello in servizio permanente. A titolo di soddisfazione morale, a lui come a tutti gli altri ufficiali, venne conservato anche il grado brevet, nel nuovo significato di "grado onorario", sicché il titolo di cui poteva fregiarsi era "tenente colonnello, generale di divisione brevet". Il che comportava però il fatto di essere "solo" un tenente colonnello.
Questa "retrocessione", peraltro comune a gran parte degli ufficiali rimasti in servizio dopo la guerra di secessione, fu vissuta da Custer con un bruciante senso di umiliazione, convinto com'era di essere in grado di continuare a rivestire il grado di generale. Il senso di frustrazione e di amarezza lo avrebbe sempre accompagnato, spingendolo a lasciarsi guidare dall'irrefrenabile desiderio di primeggiare sempre e comunque.

Più temuto che amato dai suoi soldati, Custer, già duro di carattere, s'indurì vieppiù, palesandosi come un uomo privo di ogni scrupolo morale nel conseguimento dei propri interessi e nel soddisfacimento della propria ambizione.

Appena ripreso servizio col grado di tenente colonnello, assegnato al 7° reggimento cavalleria, di stanza a Fort Riley, Kansas, Custer continuò a farsi chiamare "generale" e ad indossare le stravaganti uniformi fuori ordinanza (sulle quali non di rado apponeva i gradi di generale) che, insieme all'uso di portare i capelli molto lunghi sulle spalle, lo avevano reso popolare tra i volontari che aveva comandato in guerra. Ora era necessario avere nuovi nemici per mostrare al mondo che George Armstrong Custer era a tutti gli effetti un "generale". E i nemici erano lì, pronti: i pellirossa. In quel periodo, come già accennavamo, nelle regioni del Nord Ovest erano in pieno svolgimento la rivolta dei Sioux di Nuvola Rossa e la guerriglia condotta dagli Cheyenne guidati da Naso Aquilino. Il generale Hancock, comandante del dipartimento militare del Missouri, aveva disposto una serie di operazioni contro gli indiani ostili per convincerli che "…entro i limiti di questo dipartimento, siamo in grado di punire…"

Dopo l'inverno trascorso in attività addestrativa, la spedizione iniziò il 28 marzo 1867; otto squadroni del 7° cavalleria vennero posti al comando di Custer, che avrebbe poi raccontato gli eventi e le esperienze di quella campagna in un libro di grande successo, My life on the Plains (La mia vita nelle Pianure). Sappiamo peraltro (ne parlavamo nella seconda parte di questo studio) che quella "spedizione" si risolse in quattro mesi di peregrinazioni a vuoto per le Grandi Pianure, senza alcun risultato militare concreto, con pochissimi contatti con gli indiani, peraltro sempre provocati dagli stessi, maestri nella guerriglia e negli agguati. Il senso di frustrazione generale che pervase le forze armate dopo quell'inutile spedizione viene capovolto del tutto da Custer, che nel suo libro riesce a contrabbandare come "battaglie" piccoli scontri isolati o un'attività nella quale si distinse tristemente e che gli sarebbe valsa il soprannome indiano di "figlio della stella del mattino". Il soprannome in apparenza poetico stava ad indicare l'uso di Custer di attaccare poco prima dell'alba piccoli accampamenti ancora immersi nel sonno, nel momento in cui la vigilanza è più attenuata; poco importava se le tribù attaccate erano, o meno, ostili. Il massacro del Washita fu il più crudele esempio di questa tattica, consumato contro una tribù, quella degli Cheyenne di capo Pentola Nera, che non avevano mai commesso atti ostili contro i bianchi.

Divenuto popolarissimo, come abbiamo visto, nella guerra di secessione, gran pubblicitario di sé stesso, Custer rappresentava per l'americano medio "l'uomo che vinceva" e che, come tale, era dalla parte del giusto e da ammirare. Poi sarebbe arrivato il 25 giugno 1876 e la battaglia del Little Big Horn, quando gli indiani saldarono il conto al "generale", e tutto ciò che ne sarebbe seguito. Ma non anticipiamo i tempi e cerchiamo di riprendere l'ordine nell'esposizione dei fatti.

Nella seconda parte eravamo arrivati alla nomina da parte del Presidente Grant di un plenipotenziario, Vincent Coyler, incaricato di avviare una politica di conciliazione con gli indiani e di integrazione degli stessi nella nuova società americana che si stava formando. Le intenzioni di Grant erano senz'altro lodevoli, perché la politica dello sterminio adottata contro le tribù del Sud, segnatamente gli Apache, era non solo disumana, ma anche senza via d'uscita se non quella di causare un'inutile e infinita perdita di vite umane e di rendere invivibili i territori del Sud - Ovest. Vincent Coyler lavorò con grande impegno e senza dubbio il suo maggior successo fu la resa di Cochise, che accettò di incontrare una commissione di pace guidata dal generale Granger e di cessare le ostilità contro i bianchi. Il generale offrì al grande capo Apache un'ampia parte della zona dei Monti Chiricahua come territorio in cui insediarsi, in cambio dell'impegno alla pace. Quei territori erano la patria originaria degli Apache e Cochise accettò, anche se non mancò, in un discorso rimasto famoso, di far notare che un "nuovo popolo" ( i bianchi) venivano a concedergli ciò che era sempre stato degli Apache, cioè i territori sui quali essi erano nati e vissuti. Ma il desiderio di pace di Cochise era sincero. Come sola condizione pose quella di non essere trasferito nella riserva di Tularosa, nel Nuovo Messico, dove già erano state confinate alcune bande minori di Apache Chiricahua. Pochi mesi dopo la firma del trattato e nonostante l'impegno del Presidente Grant che le tribù sarebbero state trasferite "su territori ad esse graditi", il Dipartimento per gli Affari Indiani dispose il trasferimento della tribù di Cochise da Canada Alamosa, nel cuore delle montagne in cui si erano insediati, alla riserva di Tularosa.

Era il primo sabotaggio da parte del Dipartimento della politica di conciliazione voluta dal Presidente; non sarebbe purtroppo stato l'ultimo. Sulle autorità di governo premevano i rappresentanti di troppi interessi legati all'espansione nei territori dell'Ovest; si andava dalle ferrovie, alle compagnie minerarie, all'industria, alle società commerciali, tutte concordi nel voler risolvere il "problema indiano" confinando i pellirossa in zone che venivano giudicate non interessanti dal punto di vista economico, senza alcun riguardo alle esigenze dei pellirossa stessi e a quanto stabilito nei diversi trattati che via via venivano stipulati nell'ambito della politica di conciliazione.
Il risultato concreto della mancanza di parola dimostrata dai bianchi ordinando il trasferimento degli Apache Chiricahua nella riserva di Tularosa fu che Capo Cochise, sentendosi a ragione beffato e tradito, fuggì tra le montagne con un migliaio di guerrieri e la guerriglia indiana incendiò nuovamente il Sud - Ovest. In circa un anno, sino all'ottobre 1872, gli Apache effettuarono razzie e aggressioni, uccidendo una cinquantina di uomini bianchi, rubando bestiame e distruggendo fattorie.
Sull'esempio trascinante di Cochise anche i Kiowa e i Comanche ripresero le ostilità contro i bianchi, e il presidente Grant affidò al generale George Crook il compito di riportare l'ordine nei territori sconvolti dalle scorrerie, mentre nell'estate del 1872 Vincent Coyler, visto il fallimento della politica di conciliazione alla quale si era dedicato con entusiasmo, rassegnò le dimissioni. La mano passava ai militari, ma per fortuna il generale Crook non era un soldato che partiva da presupposti razzisti come un generale Sheridan, padre della famosa frase: "… l'unico indiano buono che io conosca è l'indiano morto". Crook, che era ammirato dagli stessi indiani per le sue doti militari e la sua abilità di cacciatore, condusse una campagna militare efficace, attaccando i vari insediamenti di indiani ostili, in particolare le tribù degli Apache Tonto Basin, ma senza commettere le inutili stragi di cui tanti suoi colleghi si erano macchiati. Avviati numerosi prigionieri nella zona di Campo Verde, poco a sud di Fort Apache, il generale Crook ebbe l'idea di impiegarli, sotto la supervisione dei soldati, nella gestione di fattorie da loro stessi create, facendo eseguire i lavori necessari per l'irrigazione e la preparazione dei terreni da coltivare. Gli Apache, consci del fatto che non potevano più battere sul campo di battaglia i soldati, si rassegnarono alla nuova esistenza di agricoltori, che iniziava a dar loro stabilità ed autosufficienza. Ancora oggi è possibile vedere nella regione intorno a Campo Verde il fosso irriguo scavato dagli Apache, largo oltre un metro e lungo circa 8 chilometri. L'esperimento, ben organizzato ed eseguito, sembrava finalmente indicare la via giusta per risolvere la questione indiana, aiutando i pellirossa a passare dalle loro tradizioni tribali ad un'integrazione che salvasse però la loro dignità con un lavoro che li rendeva autosufficienti.

Ma proprio il successo che stava avendo l'esperimento del generale Crook, unitamente al rischio che si estendesse anche ad altre riserve, metteva in pericolo gli interessi dei gestori degli acquisti e rifornimenti per gli indiani confinati nelle riserve. Se i pellirossa confinati riuscivano a conquistare l'indipendenza economica, un ricco business rischiava di inaridirsi; gli indiani che avevano abbandonato le ostilità contro i bianchi dovevano invece vivere nella più completa indigenza, per consentire ai gruppi commerciali appaltatori dei rifornimenti di continuare a guadagnare. E così dall'onnipotente Dipartimento per gli Affari Indiani arrivò l'ordine di trasferire gli Apache dalla zona di Campo Verde alla riserva sul fiume San Carlos. Il risultato fu quello di causare l'ennesima rivolta. Come già aveva fatto Cochise, molti capi minori rifiutarono il trasferimento forzato. Ma ormai gli Apache, dopo le operazioni militari del generalo Crook, non avevano più la forza di un tempo. Disorganizzati, sparpagliati in piccoli gruppi, furono portati, con le buone o con le cattive, nella riserva del fiume San Carlos. Alcuni capi caddero in un inutile, disperato combattimento: lo stesso Cochise fu ucciso il 26 maggio 1874. La vita libera degli indiani del Sud - Ovest era ormai finita.
Nelle Grandi Pianure l'espansione verso Ovest era ripresa con veemenza, come già vedevamo, dopo la fine della guerra di secessione. Il trattato stipulato il 28 ottobre 1867 sul Medicine Lodge Creek, nel Kansas meridionale, aveva definito i confini del territorio indiano ristretto nei limiti dell'attuale Oklahoma, entro il quale i pellirossa avrebbero dovuto tenersi senza sconfinare a nord, col divieto per i bianchi di valicarne i confini per cacciare. Nella primavera del 1874 incominciò però a palesarsi per gli indiani delle Pianure una nuova sconvolgente realtà: le mandrie dei bisonti non seguivano più le piste abituali e le mandrie ancora esistenti erano sempre più esigue.

Il bisonte era essenziale per la vita degli indiani delle Pianure, che utilizzavano tutte le parti del corpo del grande animale per far fronte alle esigenze di cibo, vestiario, armi e casa (il tipico tepee, la tenda dei pellirossa nomadi, era costruita con le pelli di bisonte). Con grande ira gli indiani attribuirono subito ai visi pallidi la colpa: con le strade, le ferrovie, con la loro stessa presenza avevano di sicuro spaventato gli animali, che avevano abbandonato gli antichi territori di caccia. La realtà era diversa e ben peggiore. La strage dei bisonti era in atto già da un paio d'anni, ed ora se ne vedevano le conseguenze. Anzitutto le compagnie ferroviarie avevano assoldato numerosi cacciatori, col preciso scopo di procurare la carne per il vitto di migliaia di operai dei vari cantieri disseminati nel grande Ovest; la caccia indiscriminata aveva poi fatto nascere un nuovo lucroso commercio con il mercato dell'Est, quello delle pelli di bisonte e delle parti più pregiate della carne, col risultato che il numero di cacciatori, attratti da questa nuova forma di guadagno, era enormemente aumentato. Gli animali venivano abbattuti senza alcuna regola, e senza preoccuparsi di conservare alle mandrie un numero congruo di maschi e femmine in età feconda, in modo da garantire la riproduzione. Era un nuovo business, che per gli indiani si traduceva in gravi carestie. Il fenomeno non era sfuggito alle autorità politiche e militari, sempre preoccupate per la soluzione della questione indiana. Il generale Sheridan, uomo di punta nel Nord Ovest di ogni iniziativa che avesse come risultato quello di mettere in ginocchio i pellirossa, perseguì addirittura l'obiettivo di uno sterminio totale del bisonte, e comunque diede ai reparti dipendenti istruzioni per concedere ogni possibile agevolazione ai cacciatori. Tra il 1872 e il 1874 i bisonti abbattuti furono circa 3 milioni e mezzo, di cui solo 150.000 uccisi dai pellirossa. Quando la caccia indiscriminata calò, perché non più conveniente per eccesso di offerta rispetto alla domanda, ormai il danno era compiuto e i cacciatori indiani si trovarono nella drammatica situazione di non poter più procurare alle loro tribù il sostentamento necessario. Kiowa, Apache della prateria, Comanche e Arapaho si ribellarono violentemente quando, come la classica "ultima goccia" che fa traboccare il vaso, accadde che alcuni gruppi di cacciatori si spingessero dentro al territorio indiano, per inseguire le poche mandrie di bisonti ancora esistenti, oltretutto senza che i militari (che in base ai trattati avrebbero dovuto garantire l'integrità del territorio indiano) facessero nulla per impedirlo. La rivolta durò con alterne vicende fino all'ottobre 1874 e costò la vita di oltre 300 bianchi.

Come sempre, risultava difficile, se non impossibile, stabilire il numero esatto di indiani morti, data l'usanza pellerossa di portar via il maggior numero possibile di corpi dei caduti in battaglia. Comunque lo sterminio dei bisonti, anche se non totale, aveva raggiunto lo scopo prefisso, portando brusche mutazioni in sistemi di vita atavici; chi voleva mantenersi indipendente dall'uomo bianco doveva fare i conti con una nuova situazione di indigenza, avendo perso la principale fonte di sostentamento.
Restavano ancora relativamente liberi gli indiani del Nord Ovest, in quella regione costituita dall'attuale Dakota del Nord e del Sud. Il governo americano, con la firma del trattato di Fort Laramie, si era impegnato a mantenere libero questo territorio, nel quale vivevano principalmente i Sioux, e in particolare a difendere l'inviolabilità delle Black Hills, le Colline Nere, considerate dai pellirossa luogo sacro. La vita degli indiani in quella regione scorreva abbastanza tranquilla, con l'appoggio delle agenzie di Pine Ridge, alla confluenza tra i fiumi Rock e Missouri, e di Standing Rock, su un affluente del White. Le agenzie avevano il compito di provvedere alla distribuzione dei viveri e rifornimenti assegnati dal governo in base alle clausole del trattato e regolavano anche un certo commercio di scambio che si era instaurato tra il territorio indiano e quelli confinanti. Non tutti gli indiani della regione si appoggiavano alle agenzie, preferendo mantenere un'orgogliosa indipendenza, legati all'atavico nomadismo, su territori in cui la caccia era ancora possibile; ma spesso la separazione tra gruppi nomadi e gruppi ormai stabilizzati nella vita d'agenzia non era così netta. I gruppi si mischiavano, si alternavano, e a poco a poco si attuava un adeguamento indolore dei pellirossa alla nuova realtà. Non era però in discussione, almeno per i pellirossa, il fatto che quel territorio fosse territorio indiano.

La libertà che gli indiani godevano ancora nei territori del Nord Ovest era però osteggiata da quanti, rappresentanti di grossi interessi economici e commerciali, premevano sul governo di Washington, considerando inammissibile che un territorio vasto e ricco rimanesse chiuso alla penetrazione della civiltà, solo per consentire ad alcune migliaia di "selvaggi" di vivere come piaceva loro, ostacolando così il "progresso". Bisognava quindi che il governo si impegnasse ad aprire alla colonizzazione anche quei territori, se possibile pacificamente, altrimenti con la forza. Questa opinione, peraltro molto popolare e quindi fonte di voti per i politici che la sostenevano, era condivisa anche negli ambienti militari, che non vedevano l'ora di mostrare ai "selvaggi" chi era il più forte, chi era in grado di imporsi, in rivincita delle umiliazioni già subite a causa dei Sioux. Nel territorio era presente un'installazione militare, il Forte Lincoln, e i soldati ufficialmente erano incaricati di proteggere gli indiani nella cornice del trattato. Nell'atmosfera politica che descrivevamo, non stupisce che agli inizi del 1873 si decidesse di aumentare la presenza militare di Forte Lincoln, inviandovi proprio il 7° reggimento di cavalleria, comandato dal tenente colonnello - generale di divisione brevet George A. Custer, che al fiume Washita, come ricorderanno i nostri lettori, aveva dato una significativa prova del suo modo personale di affrontare il problema indiano. Intanto si intendeva dare ai pellirossa la sensazione di uno stretto controllo, iniziando a ridimensionare la loro convinzione di poter vivere per sempre come un popolo libero. Poi si sarebbe visto: se la pressione psicologica non fosse stata sufficiente per spingere gli indiani ad accettare la presenza stabile dei bianchi, restava sempre l'opzione militare. Ma non ce ne fu bisogno: ancora una volta fu l'oro il detonatore di un nuovo sconvolgimento. La scoperta, proprio sulle Colline Nere, di grossi giacimenti auriferi causò nel territorio il consueto assalto incontrollato di avventurieri, minatori, cercatori più o meno dilettanti, con l'immancabile codazzo di sfruttatori, prostitute, giocatori di professione, venditori di whisky. La vita dei Sioux ne rimase sconvolta; l'invasione causò la fuga degli animali di montagna, l'orso, il cervo, l'alce, che venivano abitualmente cacciati. I cercatori abbattevano alberi per costruire le abitazioni, si auto - concedevano concessioni minerarie, mentre le autorità governative non erano in grado, o non volevano esserlo, di fermare tutta quell'orda, che, in base ai trattati, non avrebbe mai dovuto penetrare nel territorio indiano. Insomma, l'oro era riuscito a fare ciò che politici, militari e mercanti auspicavano da tempo: aprire alla "civiltà" l'ultimo territorio in cui gli indiani vivevano ancora quasi del tutto liberi.
Il governo americano si trovò pressato dalle proteste dei pellirossa e da quelle, molto più potenti, dei sostenitori della colonizzazione. In mancanza d'altro, provò ad intavolare una trattativa commerciale coi Sioux, per la cessione della regione delle Colline Nere, ma offrendo una cifra così esigua che gli indiani la considerarono come una beffa insolente. Solo Nuvola Rossa, già protagonista di una grande rivolta indiana, accettò le proposte governative, ma non lo fece certo perché le giudicava eque. Molto più semplicemente aveva constatato che la prosecuzione della lotta era inutile: l'inveterata abitudine dell'uomo bianco a non rispettare la parola data si univa purtroppo ad una netta superiorità tecnica, economica e militare.

Nuvola Rossa non voleva fare guerre inutili, sapendosi già sconfitto in partenza, anche se era ben conscio dell'ennesimo tradimento subito dagli indiani. Una gran parte delle tribù però non volle o non seppe comprendere le argomentazioni di Nuvola Rossa e all'inizio dell'estate del 1875 abbandonò le agenzie andando ad accamparsi nel bacino del fiume Powder, tra le Big Horn Mountains e le Black Hills, nella parte più remota del territorio, dove i visi pallidi non erano ancora giunti. E da lì gli indiani cominciarono la solita guerriglia contro qualsiasi bianco o gruppo di bianchi tentasse di entrare nella regione. Ai Sioux si unirono ben presto i loro tradizionali alleati, gli Cheyenne settentrionali che, guidati dal capo Due Lune, abbandonarono in massa l'agenzia di Red Lodge, nel Montana meridionale. Sul Powder si concentrarono così diverse migliaia di indiani, riuniti attorno a due capi che possono essere considerati tra i più grandi uomini della razza pellerossa nell'ora del tramonto: Toro Seduto, capo politico dei Sioux Hunkpapa e Cavallo Pazzo, capo di guerra della tribù Oglala.
L'estate del 1875 trascorse così in continue scaramucce; il governo, conosciuta la risposta negativa degli indiani circa la vendita delle Colline Nere, e saputo del concentramento di tribù lontano dalle agenzie, decise di prendere misure militari per costringerle a tornare sotto il controllo degli agenti indiani. Dopo un'inutile intimazione a tornare alle agenzie entro il 31 gennaio 1876, il 1° febbraio il segretario agli interni dichiarò "ostili" gli indiani che vivevano fuori dalle agenzie e chiese al segretario alla guerra di prendere contro i loro le misure militari ritenute più opportune.

Comandante della divisione militare del Missouri era da poco quel generale Sheridan che abbiamo più volte citato come esempio di razzismo e di disprezzo verso i pellirossa. Sheridan con i suoi collaboratori, tra cui il generale Crook, tracciò un piano di campagna per invadere il bacino del Powder, cogliere di sorpresa le tribù indiane e riportarle con la forza alle agenzie.

La campagna contro i Sioux registrò subito un punto a sfavore, perché l'elemento sorpresa mancò. Mentre i soldati si inoltravano in un territorio pressoché sconosciuto, gli indiani erano in grado di controllarne i movimenti, evitando, come era loro costume, lo scontro se non necessario. La campagna ebbe inizialmente le caratteristiche di tante altre azioni militari già fallite in passato: lo stesso generale Crook, veterano delle guerre contro gli indiani, subì una pesante sconfitta a opera di Cavallo Pazzo, che lo costrinse a ritirarsi e a riorganizzarsi. Il 26 maggio 1876 partì così la seconda offensiva contro i Sioux, di cui sarebbe divenuto protagonista il tenente colonnello Custer, di cui tracciavamo in apertura un profilo.
Custer aveva come principale preoccupazione quella di riportare una vittoria che fosse soprattutto "sua"; imbaldanzito da tante facili azioni contro tribù semi inermi, si era convinto della propria buona stella e della propria abilità. Era solito dire che gli indiani ormai avevano paura di lui, che la sua presenza aveva un effetto tale da demoralizzare il nemico. Con questi presupposti Custer, che già aveva interpretato in modo molto personale le disposizioni del suo superiore, il generale Terry, quando ebbe notizia dagli scout che il suo reggimento era stato avvistato dagli indiani, non fu nemmeno sfiorato dal pensiero che questi fossero pronti ad ingaggiare battaglia. Molto più forte era la preoccupazione che i pellirossa tentassero di sganciarsi, privandolo così dell'occasione di coprirsi di gloria. Era il 26 giugno 1876.

Accecato dalla smania di giungere a uno scontro che fosse "suo personale" Custer non si preoccupò di accertare la forza dell'avversario, ordinando oltretutto l'attacco frontale su un terreno sconosciuto. Quando si rese conto che l'accampamento individuato non era di poche centinaia di Apache, ma di molte migliaia di indiani (di cui almeno duemila o tremila guerrieri) era ormai troppo tardi. L'esito della battaglia del Little Big Horn è noto: il gruppo squadroni comandato direttamente da Custer (che aveva suddiviso il reggimento in tre gruppi) fu completamente annientato. 238 soldati trovarono la morte, lanciati all'attacco contro oltre duemila pellirossa, comandati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo.

E qui potrebbe chiudersi la narrazione della triste epopea del popolo rosso, perché la vittoria contro il "generale" Custer fu di fatto anche il canto del cigno di un popolo che ormai era sconfitto, non solo schiacciato dalla superiorità militare americana, ma condannato a sparire dalla totale incompatibilità con una nuova "civiltà" che aveva dimostrato, nei fatti, di anteporre l'interesse economico, di potere, di espansione, a qualsiasi considerazione di lealtà ed umanità. Lo choc causato nella pubblica opinione dalla sconfitta e dall'uccisione di Custer fu tale da far prendere il sopravvento in ambito governativo a quanti sostenevano la necessità di una soluzione energica del problema indiano.

E poiché la politica dello sterminio non poteva comunque essere ripresa, si adottò subito una politica che ebbe l'effetto non di uccidere fisicamente gli indiani, ma di distruggerli sempre più come civiltà originale e autonoma, con i propri valori da difendere secondo le proprie tradizioni. Il primo provvedimento fu la trasformazione delle agenzie in riserve, col risultato che mentre nelle agenzie gli indiani comunque riuscivano a conservare il proprio modo di vita, nelle riserve si imponeva loro l'integrazione, volenti o nolenti, nella società americana. Il pellerossa che viveva nelle riserve era di fatto anche prigioniero , non potendo varcare i confini senza autorizzazione, rinunciando al libero esercizio della caccia, dipendendo dagli aiuti governativi per tutto.

Gli anni che seguirono al combattimento del Little Big Horn videro ancora una serie di guerriglie, scaramucce, ma ormai il popolo rosso, decimato non solo dalle azioni militari ma anche dalle malattie, abbruttito dall'uso degli alcolici, smarrito in una società che per lui restava comunque incomprensibile, non esisteva più. Per gli indiani del Sud Ovest, come per quelli delle Grandi Pianure e per quelli del Nord Ovest non c'era posto in una società che si basava comunque sul progresso, sul successo, sull'arricchimento. E chi non veniva ucciso veniva "integrato", ma chi non era "integrabile" doveva essere ucciso.

Emblematica è la fine di Toro Seduto: la grande autorità che egli esercitava ancora sui pellirossa era considerata pericolosa, e ne fu ordinato l'arresto, con la falsa accusa di avere fomentato un movimento, quello della danza degli spettri, che pretendeva, attraverso ritualità magiche, di far rinascere gli antichi padri per riportare i popoli rossi all'antico stile di vita e all'antica gloria. Toro Seduto in realtà si era dichiarato contrario a questa nuovo movimento, ma non aveva impedito ai suoi di parteciparvi, pur sottolineandone l'inutilità.
Toro Seduto, che per qualche tempo aveva partecipato anche allo spettacolo circense di Buffalo Bill, col quale era in grande amicizia, morì il 15 dicembre 1890, ucciso durante il tentativo di arrestarlo operato in modo maldestro da poliziotti indiani, della sua stessa gente. La fama del capo dei Sioux Hunkpapa era tale che la sua uccisione a sangue freddo determinò la decisione, per gli altri indiani della sua tribù, di portarsi alla riserva Oglala di Pine Ridge, dove viveva Nuvola Rossa, per porsi sotto la sua protezione, ora che non c'era più il oro capo carismatico.

Un gruppo di circa 250 indiani si mise in marcia guidato dal capo Grosso Piede e venne intercettato da un distaccamento comandato dal maggiore Whiteside, che accettò le giustificazioni di Grosso Piede, ordinandogli però di passare la notte nei pressi del posto militare di Wounded Knee, dal nome di un torrente affluente del White, che scorreva nei pressi. Gli indiani, che comunque dovevano considerarsi prigionieri, perché avevano lasciato senza autorizzazione la riserva, obbedirono e al mattino si svegliarono vedendo che il loro accampamento era circondato da quattrocento soldati, appoggiati da due cannoni Hotchkiss.

Senza dubbio il maggiore Whiteside temeva chissà quali atti di ostilità da parte di un gruppo di uomini, donne e bambini che erano solo stanchi, sfiduciati e atterriti per il proprio avvenire, dopo lo choc dell'uccisione a freddo di Toro Seduto.

Chi sparò il primo colpo? Non si seppe mai. Sta di fatto che il gruppo di Grosso Piede fu distrutto, con un bilancio di oltre duecento indiani uccisi. Una cinquantina di feriti furono lasciati diverse ore senza cure e molti di loro morirono per congelamento.
Il massacro di Wounded Knee fu l'ultimo atto. La politica americana era stata tremendamente efficace, riuscendo a cancellare il popolo rosso come presenza sociale e culturale, come popolo indipendente, portatore dei propri valori e geloso del proprio modo di vita. Dalla politica del massacro, ai timidi tentativi di integrazione pacifica, subito stroncati, si era passati poi all'integrazione forzata e al confinamento nei territori delle riserve.

Resterà l'indiano come personaggio di folclore; era morto l'indiano che rappresentava un tipo di vita libera, tanto più libera perché distaccata dalla furiosa attività, tipica di chi ha l'arricchimento come prima ragione di vita.

 

Massacro. Chi sparò il primo colpo? Non si seppe mai. Sta di fatto che il gruppo di Grosso Piede fu distrutto, con un bilancio di oltre duecento indiani uccisi. Una cinquantina di feriti furono lasciati diverse ore senza cure e molti di loro morirono per congelamento.  

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Guerriero con vestiti eleganti

Uomo di Medicina

Accampamento sulla riva di un lago

Ritratto di Nuvola Rossa

Preparazione per la Danza degli Spettri

Un anziano Sioux

Un rituale sacro dentro una tenda

 

 

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