Un massacro!
ravis, quando si rese conto che i messicani
stavano tastando il terreno in vista dell'assalto decisivo, riprese
la penna e si rivolse direttamente a Sam Houston: «Devo resistere
fino alle estreme conseguenze. Se essi ci sconfiggeranno, noi saremo
sacrificati sull'altare del nostro Paese, e speriamo che i posteri e
il nostro Paese renderanno giustizia alla nostra memoria. Aiutami,
Paese mio! Vittoria o morte».
In effetti viene il sospetto che Travis scrivesse in modo così
enfatico sapendo che i suoi appelli sarebbero stati pubblicati, ma
c'è da dire che egli cercava comunque di far sapere che la
situazione a Alamo era davvero drammatica. Il problema si poneva sul
come far giungere il messaggio a destinazione, visto che ormai i
messicani controllavano l'intera area. E, soprattutto, chi mandare?
Tra l'altro ci voleva qualcuno che parlasse bene lo spagnolo e fu
così che gli uomini della guarnigione votarono Juan Seguìn. Travis
non era d'accordo, ma alla fine capitolò. Seguìn, travestito da
campesino, salutò per l'ultima volta i suoi commilitoni e quella
stessa notte si infiltrò tra le linee nemiche. Quell'operazione, per
quanto rischiosa, finì per salvargli la vita.
Mentre i messicani poco per volta accerchiavano Alamo, a San
Felipe il governatore Smith faceva pubblicare il primo appello di
Travis e esortava i texani a «volare» in difesa di Alamo: «La
campagna è cominciata - scrisse Smith - I texani non devono lasciare
che i loro fratelli vengano massacrati da un esercito di mercenari»
.
Anche se le file texane si stavano ingrossando di volontari, nel
forte l'attesa si faceva sempre più drammatica. Bowie era ormai allo
stremo quando il 29 febbraio un gruppo di volontari che era arrivato
con lui andò a trovarlo per comunicargli che Santa Anna aveva
offerto un'amnistia ai difensori di Alamo che si fossero arresi.
«Chi di voi vuole andarsene, è libero di farlo» , disse Bowie con un
fil di voce. E quelli non se lo fecero dire due volte: lo
ringraziarono e uscirono dal forte, salvi.
La notte del primo marzo un violento temporale si abbattè sulla
zona. Alle tre, sotto una pioggia battente, una sentinella si sentì
chiamare e, con sua grande sorpresa, vide John Smith, El Colorado,
bussare alla porta del forte con trentadue uomini: alla fine i
rinforzi, se così si potevano definire, erano arrivati. Il giorno
dopo a Brazoria, diverse decine di chilometri più in là , l'ultimo
appello di Travis, «Vittoria o Morte» , veniva pubblicato sul
giornale «Texan Republican» . Ma la spedizione di soccorso era ben
distante dall'essere organizzata. A Washington, dove doveva
partecipare a una convention, Sam Houston continuava a dire che
quella di Alamo era «una maledetta menzogna, e che anche tutti quei
rapporti di Travis e Fannin erano menzogne, visto che là non vi
erano forze messicane e che tutta quella messinscena era soltanto
uno stratagemma elettorale studiato da Travis e Fannin per sostenere
la loro popolarità» .
Houston arrivò a insinuare che i rapporti ricevuti fossero
addirittura fatti ad arte dai messicani, per cui, con la mente
offuscata dai litri di whisky che si beveva tutti i giorni (fu visto
diverse volte ubriaco in pubblico), di fatto non fece mai nulla per
salvare la guarnigione di Alamo.
Il 3 Marzo gli americani assediati videro un uomo a cavallo
correre nella prateria sfidando il fuoco dei fucili messicani. Era
James Butler Bonham che portava due messaggi, uno dei quali di
Willie Williamson, uno dei capi della rivolta, scritto alcuni giorni
prima a San Felipe. Nella prima missiva Williamson annunciava
l'arrivo di 660 volontari. Nella seconda, forse scritta da Houston
in persona, si diceva invece che le forze presenti a San Felipe non
potevano essere trasferite. In pratica, Alamo veniva abbandonato a
se stesso.
Per Travis era l'ennesimo colpo. Già furente per l'abbandono dei
volontari texani che egli non esitava a definire traditori, quella
notizia gli fece capire che ormai non c'era davvero più nulla da
fare. Allora scrisse alcune lettere che affidò nuovamente a El
Colorado, lettere il cui contenuto non fu mai reso pubblico e nelle
quali probabilmente scrisse il suo testamento politico. Una era
indirizzata a Jesse Grimes, un delegato della convenzione di
Washington, un'altra a David Ayers di Montville. A entrambi affidò
le sue ultime volontà e, soprattutto, l'educazione del figlio
Charles, 5 anni, avuto dal suo matrimonio con Rosanna Cato. L'ultima
missiva, di cui non si conobbe mai il contenuto, era per l'amata
Rebecca, la donna che aveva intenzione di sposare se solo fosse
riuscito a sopravvivere all'avventura di Alamo. Arriveranno tutte a
destino compiuto, quando le ossa di Travis erano già state
incenerite.
Il 4 marzo i messicani ripresero a bombardare la missione. Il 5
gli americani contarono 334 palle di cannone contro le loro mura. E
quella notte un Travis ormai disperato giocò la sua ultima carta
inviando un ultimo messaggero, il giovane James Allen, nel disperato
tentativo di convincere lo stato maggiore americano a mandare
rinforzi. Un rapido censimento delle armi permise di stabilire che
nella missione i 180 americani rimasti avevano in tutto 816 tra
pistole e fucili, con polvere e piombo sufficienti per circa 15 mila
colpi, 25 granate da cannone e duecento baionette: un po' poco per
fronteggiare un esercito di quattromila uomini armati di tutto punto
e dotati di artiglieria pesante. L'attacco decisivo cominciò intorno
alle 3 del mattino del 6 marzo. Gli assediati, stanchi e provati
dalla continua tensione, dormivano quasi tutti. Nessuno, nemmeno le
sentinelle, si accorse che oltre un migliaio di soldati messicani
del battaglione Toluca aveva completamente circondato la missione e
pian piano si avvicinava alle mura. Nessuno, nonostante il chiarore
della luna, vide le scale che venivano appoggiate e subito salite
dai commandos nemici. Nessuno si rese conto che la missione era
stata invasa fino a quando il primo «Viva Santa Anna» non squarciò
il silenzio della notte. Erano circa le 5,30. Travis fu svegliato di
soprassalto dall'ufficiale J.J. Baugh che irruppe nella sua camera
urlando: «I messicani stanno arrivando!» . Ancora stordito da quelle
poche ore di sonno, Travis arrivò sugli spalti appena in tempo per
vedere una marea di uniformi bianche che si lanciava all'assalto dei
suoi uomini. Quando girò lo sguardo una pallottola di circa due
centimetri di diametro lo prese in piena fronte uccidendolo sul
colpo. Il suo corpo, successivamente trafitto anche da molti colpi
di baionetta, cadde vicino ad un cannone e lì restò fino alla fine
della battaglia. Uno ad uno gli americani vennero uccisi tutti:
l'ordine era di non fare prigionieri. Quando i messicani entrarono
dentro il convento, in una stanza trovarono James Bowie ormai
agonizzante alla sua terza settimana di febbre tifoidea.
Scambiandolo per uno che si voleva nascondere sotto le coperte, lo
presero a fucilate sul posto facendogli letteralmente saltare la
testa. Sempre più numerosi, cominciarono poi a spingere ciò che
restava del gruppo dei difensori fino all'ingresso della missione.
Gli americani furono costretti a uscire spinti verso l'esterno.
Fuori li aspettava la cavalleria messicana comandata da Ramirez y
Sesma che in due cariche successive pose fine a colpi di lancia
anche a quella eroica e disperata sacca di resistenza.
I messicani si fermarono soltanto quando, abbattendo una porta,
si trovarono di fronte a tre donne e due bambini. Fu una di queste,
Susanna Dickenson, che in seguito testimonierà di aver visto i corpi
di Davy Crockett e dei suoi compagni del Tennessee giacere nella
polvere davanti al sagrato della chiesa.
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