John Martin, lo scampato
e tre e mezzo del pomeriggio del 25 giugno del
1876, nella zona del Little Big Horn.
Scopo della missione: rintracciare i Sioux e dar loro una
"severa lezione" per l'allontanamento abusivo dalle
riserve. Il capitano Benteen, comandante del 1° gruppo squadroni
del 7° reggimento cavalleria, mentre stava ripensando, dubbioso,
agli ordini del "generale" Custer, che gli erano sembrati
improvvisati e cervellotici, sentì il suo primo sergente che lo
chiamava: "Signore! Guardate là avanti!". Benteen si
distolse dai suoi pensieri, e dall'ascolto di un crepitare di
fucileria che non capiva da dove provenisse, e guardò nella
direzione indicata dal suo sottufficiale: un uomo a cavallo stava
arrivando freneticamente, agitando il cappello. Gli uomini erano
tesi e disorientati e il capitano Benteen sentì che qualcuno già
armava istintivamente il fucile. "Giù le armi! Non vedete che
è uno dei nostri?". Pochi istanti e fu possibile riconoscere
il cavaliere: era il trombettiere John Martin, che quel mattino era
stato distaccato presso il comando di reggimento quale trombettiere
di servizio per il comandante.
Benteen stimava John Martin, uno dei soldati migliori del
reggimento. Disciplinato, volonteroso e con un accento latino che
denunciava chiaramente le sue origini. John Martin si chiamava in
realtà Giovanni Martini, era nato a Sala Consilina in provincia di
Salerno, il 28 gennaio del 1853. Era sbarcato in America due anni
prima, confuso tra le migliaia di emigranti che arrivavano a New
York in cerca della terra promessa. Giovanni Martini non aveva
trovato lavoro come manovale, come operaio. Si era arruolato
nell'esercito firmando, il 1° giugno del 1874, l'atto di giuramento
di fedeltà per una prima ferma quinquennale e divenendo così John
Martin, da civile musicante di professione, soldato trombettiere
dell'Esercito degli Stati Uniti d'America. Senza riprender fiato e
senza accorgersi che il suo cavallo sanguinava copiosamente dal
collo, John Martin balzò a terra, si rimise il cappello per il
saluto regolamentare e riferì al capitano Benteen gli ordini del
"generale", consegnandogli anche un foglietto su cui il
tenente Cooke, aiutante maggiore di Custer, li aveva precisati per
iscritto. Il soldato John Martin non poteva sapere che non
avrebbe più rivisto né il "generale" né gli altri 242
commilitoni ai quali era stato aggregato quel mattino. Non sapeva
che stava per entrare nella storia. Meno di un'ora prima, stava
cavalcando immediatamente dietro al "generale", al cui
servizio era stato assegnato quel mattino, e si teneva
scrupolosamente alla distanza regolamentare. Custer, del tutto privo
di disciplina per sé stesso, teneva moltissimo alla disciplina dei
suoi uomini e John Martin sapeva bene che non era il caso di
contrariarlo. Martin non amava Custer. Del resto, nessuno dei
soldati amava il "generale", ma tutti ne subivano il
fascino e tutti dovevano dargli atto di un coraggio personale spesso
ai limiti dell'incoscienza. Non era certo l'ufficiale che non
condividesse i pericoli coi suoi uomini. E poi l'incredibile
carriera di Custer, la sua eccezionale fortuna, gli avevano creato
quella fama di infallibilità a cui molti ormai credevano. Così
quel mattino il ragazzo di Sala Consilina era stato contento di
essere assegnato quale trombettiere di giornata al servizio del
comandante. Alla strana eccitazione che prende sempre gli uomini
prima del combattimento, John Martin aggiungeva l'orgoglio di poter
vivere l'azione al fianco del "generale". Non erano più i
giorni tutti uguali del suo paese, le ore spese in tanti progetti,
tante aspirazioni che puntualmente si infrangevano contro una realtà
di miseria senza via d'uscita. Non erano più i giorni della
traversata dell'oceano, col cuore pieno di nostalgie per una terra
che, per quanto avara, era sempre la sua terra. Giovanni Martini
aveva lasciato tutto questo alle spalle: ora c'era John Martin, che
si apprestava a combattere vicino all'ufficiale più famoso
dell'Esercito degli Stati Uniti. D'altra parte, non c'era un motivo
per credere che anche la giornata del Little Big Horn non sarebbe
stata come tante altre. Quante volte il 7° cavalleria aveva già
dato delle buone lezioni alle scimmie rosse? Tante. E del resto,
cosa potevano fare quei poveretti, armati sommariamente, privi di
una vera tattica militare, contro un esercito armato di tutto punto,
inquadrato perfettamente? Potevano solo morire da coraggiosi, quando
le giacche azzurre arrivavano alla carica nei loro villaggi. Certo,
in quei casi non si andava tanto per il sottile: quando vola tanto
piombo possono beccarselo anche le donne, i bambini, i vecchi. Ma si
sa, la guerra è guerra. Nel tardo mattino il
"generale" aveva diviso il reggimento in tre gruppi
squadroni; il 3° gruppo, composto da cinque squadroni era sotto il
suo diretto comando. Custer aveva impartito le istruzioni ai
comandanti degli altri gruppi, poi era iniziata l'esplorazione per
prendere contatto col nemico. John Martin era sempre vicino a Custer
quando questi, con alcuni scout, si portò su una delle alture da
cui si poteva vedere parte della vallata in cui scorreva il fiume
Little Big Horn.
A un certo punto vide il "generale"
esultare: l'obiettivo era individuato. Erano diverse decine di
tende, giù a valle. Il villaggio sembrava pressoché deserto. Ora
non restava che trovare un passaggio dalle alture per scendere coi
cavalli nella vallata, poi sarebbe stato un gioco da ragazzi. Non
per niente il comandante, in preda a grande eccitazione, gridava ai
soldati: "Ragazzi, li abbiamo trovati! Li faremo fuori
definitivamente e poi ce ne torneremo alla nostra guarnigione.
Andiamo, andiamo!". Dopo una decina di minuti fu individuata
una finestra naturale molto ampia, nella quale scorreva un
torrentello, il Medicine Tail Coulee, affluente del Little Big Horn.
Era un impluvio ripido, ma percorribile a cavallo. Da questo nuovo
angolo di visuale si poteva finalmente osservare tutta la vallata
del Little Big Horn. E John Martin si sentì gelare il sangue. Non
era un ufficiale, non era uno stratega. Ma non erano necessari i
gradi sulle spalline per rendersi conto che nella vallata c'era il
più grosso accampamento mai visto. Quanti indiani c'erano
laggiù? Difficile valutarlo, ma di sicuro si trattava di diverse
migliaia. Il 7° era andato a cacciarsi in una maledetta trappola.
Come mai il "generale" non aveva pensato di mandare avanti
degli esploratori? Martin era in attesa di ordini. Era lui il
trombettiere, era solo a lui che il "generale" poteva dare
il compito di suonare l'unico segnale logico: la ritirata. Custer
guardava in silenzio il mare di tende indiane che si stendeva sotto
i suoi occhi. Verso Nord c'era un gran polverone e da lì arrivavano
dei rumori di fucileria. Era la direzione in cui era andato il 2°
gruppo squadroni, quello comandato dal maggiore Marcus Reno. Da
dalla posizione in cui si trovavano era impossibile capire cosa
stesse succedendo al maggiore Reno e ai suoi centocinquanta uomini.
"Trombettiere!". "Signorsì!". Martin si avvicinò
al "generale", ma questi non gli impartì l'ordine che
sperava. "Tornate subito indietro al galoppo, raggiungete il
capitano Benteen e ditegli di accorrere immediatamente. C'è un
grosso villaggio e gli indiani saranno numerosi. Voglio che porti
anche le salmerie, con lo squadrone del capitano McDougall. Avete
capito bene?" "Sì, signore". Martin girò il cavallo
e stava per spronarlo, quando venne fermato dall'aiutante maggiore,
il tenente Cooke, che gli scrisse su un foglietto gli ordini del
"generale", temendo la non perfetta padronanza
dell'inglese del soldato di Sala Consilina. John Martin prese il
foglietto (che oggi è conservato nel museo di West Point), lo infilò
nel guanto e partì al gran galoppo, risalendo la lunga colonna di
squadroni che, in fila per quattro, attendevano gli ordini. Giunto
al termine della colonna si girò un attimo indietro, il tempo
sufficiente per vedere Custer che alzava il braccio nel segnale di
"avanti": i cavalli di testa incominciavano già a
scendere per l'impluvio. Allora il trombettiere capì che non c'era
più un istante da perdere. Se qualcuno gli avesse detto che era
l'ultima volta che vedeva vivi tutti quegli uomini che si stava
lasciando alle spalle, forse non ci avrebbe creduto. Ma di sicuro la
sensazione del pericolo si fece strada nel suo cuore, mentre la
fiducia incrollabile nel "generale" Custer vacillava. Ma
perchè il comandante stava già dirigendosi verso la valle del
Little Big Horn? Cosa poteva sperare di fare, con poco più di
duecento uomini, contro migliaia di diavoli rossi? John Martin
rallentò un attimo: dalla posizione in cui era arrivato poteva
vedere la parte nord della vallata dove, in un'incredibile
confusione di polvere, urla degli indiani e spari, le truppe al
comando del maggiore Reno stavano chiaramente sbandandosi. Erano
stati i primi a prendere contatto col nemico e i primi ad esserne
travolti. John Martin spronò nuovamente, doveva arrivare al più
presto al primo gruppo squadroni. Andava a chiamare rinforzi o a
portare altri uomini al macello? Un soldato non si fa queste
domande, gli ordini sono ordini, corri Giovanni, anche se senti come
una lama nel cuore un desiderio improvviso di essere a casa tua,
sotto il sole pigro, magari a patir la fame, ma vivo, Gesù
Benedetto, senza la morte attorno, fatta di guerrieri rossi che si
erano riuniti a migliaia per presentare il conto al "figlio
della stella del mattino", come era soprannominato Custer dagli
indiani, per la sua abitudine di attaccare gli accampamenti poco
prima dello spuntare dell'alba, quando la vigilanza è più
attenuata. Signore, quanto è bella Sala Consilina, che voglia di
piangere e di scappare. Ma un soldato non scappa, e poi lì ci sono
i tuoi commilitoni, e poi, forse, anche stavolta ve la caverete...
Ecco lì un gruppo di indiani, ne sbucavano da tutte le parti.
Vedono il trombettiere lanciato al galoppo e fanno partire qualche
fucilata. Due pallottole fischiano vicine alle orecchie del
cavaliere. Troppo vicine! Il galoppo si trasforma in corsa sfrenata,
anche se il cavallo ha uno scarto improvviso, difficile da dominare.
Ma Giovanni è tornato ad essere John, non c'è tempo per le
fantasie, l'Italia è lontana, infinitamente lontana, la morte è
invece qui, a due passi. Finalmente John Martin vide in lontananza
una colonna di soldati. Non poteva essere che il gruppo squadroni
comandato dal capitano Benteen. Allora si tolse il cappello per
agitarlo e farsi riconoscere, prima che qualche commilitone troppo
frettoloso lo tirasse giù da cavallo con un fucilata. Martin
consegnò il foglietto con gli ordini al capitano Benteen. Voleva
anche riferire di quanto aveva visto del maggiore Reno, ma il
capitano non gliene lasciò il tempo. "Cos'è successo al
vostro cavallo?", chiese. "Dev'essere sfinito,
signore". "Sfinito? Guardate lì, sul collo. E ringraziate
il Cielo che non sia toccato a voi..." Martin guardò il collo
dell'animale: da due ferite d'arma da fuoco il sangue scorreva sul
pelame. Ecco perché il cavallo gli aveva dato tanto filo da
torcere! "Ora, Martin, tornate al vostro squadrone e fatevi
cambiare cavalcatura. Poi resterete aggregato a noi. Raggiungeremo
insieme il generale". Per qualche minuto John Martin riprese
fiato. Ora, in mezzo ai commilitoni, si sentiva un poco più
tranquillo. Ma aveva ancora davanti agli occhi la visione di
quell'immenso campo indiano. Chissà se anche questa volta avrebbe
funzionato la "fortuna di Custer". Come tutti i soldati
John Martin sapeva quasi a memoria la biografia di Custer, di
quest'uomo che era diventato, nella guerra di secessione, generale
di divisione a soli 26 anni. Era stato uno dei quattro generali che
avevano presenziato alla firma dell'atto di resa dell'armata
confederata, ad Appomattox, e veniva considerato tra coloro che
maggiormente avevano contribuito alla conclusione vittoriosa della
guerra. Durante gli anni della guerra tra Nord e Sud le promozioni
erano fioccate, perché l'esercito mancava quasi del tutto di
ufficiali generali e a questi gradi erano arrivati i più coraggiosi
e i più capaci, saltando la normale trafila dei gradi intermedi.
Custer era senza dubbio uno dei migliori ufficiali del Nord. E dal
1863 al 1865 era passato dal grado di capitano a quello di generale
di brigata e poi di generale di divisione. Ma erano gradi "brevet",
ossia puramente funzionali alle esigenze della guerra. Alla
smobilitazione a Custer fu offerto, come a tutti gli ufficiali in
servizio permanente, di rimanere nell'esercito, riprendendo il grado
originario. Anzi, nel suo caso, dati i suoi particolari meriti,
venne reintegrato non col grado di capitano, che aveva allo scoppio
delle ostilità, ma con quello di tenente colonnello. Martin sapeva
quello che sapevano tutti i soldati, ma che si diceva solo a bassa
voce, ossia che Custer aveva vissuto quella
"retrocessione" (che peraltro aveva interessato tutti i
quadri permanenti dell'esercito) come un affronto personale, e
intimamente aveva continuato a considerarsi un generale, anzi
"il" generale, come dimostravano i suoi atteggiamenti
spesso insubordinati, la sua fantasia nell'inventarsi le uniformi,
quando non addirittura nel fregiarsi di quelle spalline che non
avrebbe dovuto più portare. Del resto, nessuno poteva negare il suo
valore personale, anche se alcuni dicevano che non aveva le doti
dello stratega ed altri lo definivano, tout court, un incosciente e
un "macellatore di indiani". Di sicuro di indiani
Custer ne aveva eliminati tanti, così tanti da convincersi che la
sua sola presenza era sufficiente a terrorizzare l'uomo rosso, che
non aveva mai cessato, se non di disprezzare, quantomeno di
considerare di sicuro un selvaggio.
Cambiata la cavalcatura e con una generosa
razione di liquore John Martin si sentì un po' rinfrancato. Ma la
sosta non durò che pochi istanti: il capitano Benteen aveva già
dato gli ordini e gli squadroni ripartirono al galoppo, facendo a
ritroso la strada appena percorsa dal trombettiere di Sala Consilina.
Ora si sentiva distintamente il fuoco di fucileria e Benteen stava
per dare agli uomini l'ordine di disporsi in linea, convinto di
veder sbucare quanto prima gruppi di indiani inseguiti da Custer. Ma
giunto in vista della sottostante vallata del Little Big Horn non
vide altro che numerosi cavalieri galoppare in ogni direzione, in
mezzo al polverone. Ma tra loro non c'erano soldati. Più a destra
del punto di osservazione, su una altura, un gruppo di soldati
appariva invece confusamente impegnato in combattimento. Il capitano
Benteen era incerto sulla direzione da prendere e richiamò John
Martin: "Ma dov'è il generale, ora?". Il trombettiere
vide anch'egli quello che ormai vedevano tutti: nella sottostante
vallata cavalcavano solo pellirossa, in mezzo ai corpi dei
"soldati blu". Ogni tanto qualche indiano sparava un colpo
su chi ancora si muoveva. Dalla maledetta valle del Little Big Horn
non doveva uscire un solo soldato vivo. A scuotere dalle incertezze
arrivò al galoppo un gruppo di scout Crow, quelli che Custer aveva
rimandato indietro al momento dell'attacco. Senza fermarsi,
gridarono al capitano Benteen "soldati!" indicando la
direzione della collina, e il capitano si accodò agli esploratori,
arrivando alla collina su cui si era trincerato il maggiore Reno col
2° gruppo squadroni, dopo aver subìto gravi perdite nello scontro
con un nemico scatenato e superiore in numero di almeno dieci volte.
Il maggiore Reno, palesemente sconvolto, ferito
egli stesso, ordinò al capitano Benteen di disporre il 1° gruppo
squadroni a rinforzo della postazione, nella quale ora arrivavano
anche le salmerie comandate dal capitano McDougall. Ora a John
Martin e ai suoi commilitoni non restava che difendersi dagli
attacchi degli indiani in una posizione relativamente sicura, mentre
altri pellirossa portavano a compimento lo sterminio del 3° gruppo
squadroni, comandato dal "generale" Custer. 242 uomini
trovarono la morte, guidati in una assurda carica contro circa
cinquemila pellirossa. I soldati assediati sulla collina subirono
altre perdite a causa di ripetuti attacchi degli indiani, ma
riuscirono dopo tre giorni a sganciarsi. John Martin era tra i
sopravvissuti; se Custer avesse ordinato a un qualsiasi altro
soldato di fare il portaordini, anche lui sarebbe finito lì,
massacrato e poi spogliato della divisa e delle armi, come era uso
degli indiani fare coi nemici. Probabilmente dopo la tragica
esperienza del Little Big Horn avrebbe desiderato rientrare nel
silenzio, ma non fu possibile. Era stato l'ultimo a vedere Custer
vivo, a sentire gli ultimi ordini del "generale". E si
trovò per anni ad essere interpellato da giornalisti, scrittori,
nonché dalla commissione d'inchiesta che l'esercito formò per
stabilire le cause del disastro del Little Big Horn. Martin restò
nell'esercito e continuò a servire nel 7° cavalleria fino al 1887.
Divenne sottufficiale e nel 1888, col grado di sergente, fu
trasferito in artiglieria, al 3° reggimento, batteria
"G". Il 7 gennaio del 1904, dopo trent'anni di servizio
alle armi, venne posto in congedo, coi galloni di Primo Sergente
Maggiore (equivalente al nostro grado di maresciallo). Due suoi
figli, George e John, entrarono a loro volta a far parte
dell'esercito degli Stati Uniti come ufficiali del servizio
permanente. La vigilia di Natale del 1922, nella Brooklyn tanto cara
agli italiani d'America, John Martin moriva. Troppe volte era stato
interrogato sulle circostanze della battaglia del Little Big Horn e
le sue versioni, col passare degli anni, si erano fatte spesso
confuse. Ma una cosa di sicuro non aveva mai dimenticato: la secca
voce del "generale" che lo chiamava per dargli, senza
saperlo, l'ordine che gli avrebbe salvato la vita. E qui finisce la storia di Giovanni Martini, ragazzo di Sala
Consilina,
chiamato dal destino a vivere un'avventura incredibile.
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