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A cura di Domenico Rizzi

Terza parte del viaggio

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rima di lasciare la riserva indiana, facciamo altre due soste. La prima è nella cittadina di Pine Ridge, dove chiediamo alcune informazioni in un’area di servizio. La seconda volta ci fermiamo alla Holy Rosary Mission, fondata nel 1888 dai Gesuiti, dove Nuvola Rossa trascorse gli anni della sua vecchiaia, dopo il suo ritiro definitivo dalla politica. Il grande leader si spense qui, dove si trova anche la sua tomba, nel 1909, all’età di 87 anni.
La giornata continua ad essere molto calda, ma noi ci muoviamo incuranti della stanchezza per i duecento chilometri percorsi e di un discreto appetito che comincia a farsi sentire.
La missione ha un aspetto del tutto moderno e la chiesa è stata ricostruita pochi anni fa a poca distanza da quella originale, andata distrutta. Alcuni Oglala, seduti sulle panchine del piazzale antistante il Visitor Center, ci osservano incuriositi. Soltanto i loro tratti rivelano che sono Sioux, perché vestono tutti all’occidentale. Dopo aver scambiato qualche parola e scattato tre o quattro foto, una signora che si qualifica come insegnante di spagnolo, ci accompagna a visitare il centro aperto ai visitatori.
Se non altro, l’interno è molto più vario di quello visitato a Wounded Knee: vi sono capi di abbigliamento, borse, portachiavi, collane e bracciali, ma anche molti quadri appesi alle pareti, interessanti stampe e ingrandimenti di celebri fotografie d’epoca. Una di queste, riproduce la tragica scena della sepoltura delle vittime a Wounded Knee; un’altra ritrae Buffalo Bill Cody a cavallo, in compagnia del generale Nelson A. Miles, pochi giorni prima del sanguinoso episodio.
Il centro è affidato ad un anziano missionario, coadiuvato da una giovane Oglala dall’aspetto grazioso. Dopo avere fatto due chiacchiere con il religioso – che ci aiuta a far funzionare una difettosa macchina distributrice delle bibite – mi rivolgo alla ragazza Lakota, salutandola come ho fatto poche ore prima a Wounded Knee. Mi risponde “Mita kola” con un sorriso, ma poi mi spiega in inglese di non saper parlare, come quasi tutti i giovani di Pine Ridge, nella lingua tradizionale. “Comprendo a stento il Lakota: tutti noi, a scuola, abbiamo studiato l’inglese. Soltanto i vecchi conoscono e parlano ancora l’antico idioma”. Mi lascio sfuggire, mostrando il mio disappunto: “E’ un peccato! Così disperdete la cultura del vostro popolo, che è molto antica!”.
Aggiungo una considerazione che mi pare pertinente, spiegandole che in Italia si organizzano quasi dovunque, anche nella mia provincia, corsi di dialetto, per impedirne l’estinzione. Poi rifletto sui motivi che possono avere spinto le autorità ad imporre questa scelta.
La rivolta di Wounded Knee risale al 1973 e questa ragazza non può avere più di 25 anni: è probabile che dopo tale evento, abbia avuto luogo una sorta di “americanizzazione” forzata dei Sioux, sul modello di quelle già adottate dopo il disastro di Custer, quando le riserve vennero militarizzate. Anche la distinzione fra le tribù che compongono i Lakota – Oglala, Hunkpapa, Sichangu, Minneconjou, Sihasapa, Oohenonpa, Itazipcho – non è più molto sentita. Almeno due o tre Indiani interpellati a Wounded Knee, me ne avevano dato conferma in mattinata.
Quando usciamo dal Visitor Center, dopo aver curiosato per oltre mezz’ora fra le molte cose interessanti che vi sono esposte, il missionario mi chiama per presentarmi un uomo di una certa età, dal fisico vigoroso, che sta conversando con lui. Questo signore, che ha 69 anni e indossa collane e talismani di argento e turchese, è lo scrittore Oglala Eagle Man, autore di una decina di libri sulla storia del suo popolo. Non potevo avere un’occasione migliore! Dopo avergli spiegato che il mio hobby è proprio la storia del West e dei nativi americani, parliamo per una ventina di minuti. Mi spiega che il missionario è un suo amico e di non avere prevenzioni verso il Cristianesimo, ma insiste sull’importanza della religione praticata un tempo dalla sua gente. Non posso dargli torto: l’abbandono delle antiche credenze, ha rappresentato senz’altro il colpo di grazia per la cultura dei nativi.
Eagle Man possiede anche un nome americano: si chiama Ed Mc Gaa, è nato a Pine Ridge ed ha combattuto nel Vietnam, raggiungendo il grado di capitano come “Marine Fighter Pilot”. Partecipò infatti a 110 missioni di guerra contro i Vietcong, come è scritto nella nota biografica che accompagna le sue pubblicazioni.
In questa terra meravigliosa, le sorprese non finiscono davvero mai e vorrei chiedergli ancora moltissime cose. Invece Eagle Man deve scappare e accetta soltanto di farsi fotografare con me e con i miei amici. Prima di salire sulla sua auto, saluta dicendo che forse ci rivedremo. Dopo avere dato un’occhiata all’interno della chiesa, risaliamo anche noi in auto per riprendere il lungo percorso che ci separa da Hot Springs.
Adesso la stanchezza accumulata comincia a farsi sentire maggiormente e la tentazione di una doccia rilassante e di uno spuntino prevalgono perfino sul desiderio di concederci un’altra sosta strada facendo.
Raggiunto l’albergo, sentiamo la necessità di sgranchirci le gambe con una passeggiata per le vie della cittadina, commentando gli incontri di quella memorabile giornata. Naturalmente la sera, dopo una buona cena in un ristorante, ci ritiriamo presto, perché il mattino successivo ci aspetta la traversata delle Black Hills, che avrà come unico pernottamento una delle città più famose della Frontiera: Deadwood.

Mentre procediamo alla volta delle Colline Nere, il paesaggio inizia a modificarsi. Le praterie brulle, i canyons, le immense distese battute dal vento lasciano gradualmente il posto ai rilievi coperti di pini, il clima diventa più umido e sopportabile e lo scenario mi riporta vagamente alle nostre montagne lombarde.
Il gruppo montuoso si innalza fino a 7.242 piedi di altitudine (2200 metri) con la vetta di Harney Peak, raggiungibile con una passeggiata di 4 ore seguendo un sentiero che da Sylvan Lake si snoda per qualche chilometro fra rocce e oasi boscose. Dopo il trasferimento dei Sioux nelle riserve del Dakota, la zona – comprendente quasi 500.000 ettari ed estesa anche al vicino Stato del Wyoming - fu trasformata in National Forest nel 1898.
La nostra mèta più immediata è il Crazy Horse Memorial, la montagna di Cavallo Pazzo, che dista solo 37 chilometri da Hot Springs. Prima, però, facciamo una breve sosta a Custer City per chiedere informazioni. Proseguendo, finalmente assistiamo all’apparizione dell’animale che fu il sovrano incontrastato delle praterie. Durante la guida, passando vicino ad un’altura che si erge a picco sulla nostra destra, scorgo un enorme bisonte nero – sicuramente del peso di una tonnellata – che sta salendo verso la sommità. Poiché sono al volante, lancio subito l’“allarme” ai miei compagni, invitandoli a fotografarlo (non mi è possibile fermarmi, avendo un paio di auto che mi seguono da vicino) ma il bufalo scompare subito dalla nostra vista.
Mi sovvengono due celebri affermazioni trovate nei miei libri sulla Frontiera.
La prima è di Theodore Roosevelt, il presidente-cowboy che, pur essendo newyorkese di nascita, si considerò sempre un autentico uomo del West, al punto da trascorrere volontariamente tre anni come mandriano nel Dakota. Quando nel 1905 si costituì la Società del Bisonte Americano, egli, che ne divenne presidente onorario, scrisse al segretario Ernest H. Baynes, definendo il bisonte “il più grande degli animali selvaggi d’America e senza dubbio quello che caratterizza meglio di qualsiasi altro la grande fauna del continente. I bisonti sono incontestabilmente la specie che ha avuto la parte più importante nella vita degli Indiani…Sarebbe una disgrazia irreparabile se la razza fosse lasciata scomparire.” (Martin S. Garretson, “The American Bison”, New York, 1938).
Per fortuna, grazie anche all’impegno della Società, le sue speranze si concretizzarono. Dai 1.091 bisonti superstiti censiti in USA nel 1889 dal dottor William T. Hornaday, direttore del Parco Zoologico di New York, si passò agli oltre 21.000 esemplari del 1933 e ai 35.000 attuali. Dee Brown, autore di molti libri sulla storia del West, si trova d’accordo con Teddy Roosevelt, sostenendo: “Forse l’aquila è il simbolo nazionale, ma il bisonte è uscito dalla storia come il simbolo più realmente rappresentativo dell’America.” (Dee Brown, “Lungo le rive del Colorado”, Mondadori, Milano, 2002).
Per me, che considero la storia come un dialogo aperto dell’uomo con il proprio passato, l’improvvisa apparizione del bisonte sulla collina non è altro che l’ennesima magia offertaci da questa fantastica escursione americana. Il maestoso animale è salito sulla punta più alta del colle proprio mentre stavamo attraversando il suo regno di un tempo, quasi volesse onorarci della sua presenza. Chi scrive storie ambientate in epoche trascorse, potrà comprendere la suggestione che mi ha colto in un simile frangente e non gli parrà tanto assurdo che l’antico signore delle praterie si sia affacciato a salutare simbolicamente questo appassionato, romantico cultore dell’epopea del West.

Non occorre molto per raggiungere il Crazy Horse Memorial e scopriamo con piacere che diverse altre persone hanno avuto la stessa felice idea, in una splendida giornata come questa.
Posteggiata l’auto in un piazzale attrezzato, ci approssimiamo al Visitor Center, guardandoci in giro estasiati. La grande testa, che riproduce la presunta immagine di Tasunka Witko, il capo Oglala che guidò il successo della sua gente al Little Big Horn, era già visibile da lontano, mentre salivamo dalla Highway 385.
Un gruppo di boy-scout sta assediando il botteghino per acquistare il biglietto del bus che conduce nella vallata sottostante. Per ragioni di sicurezza, perché i lavori intorno al monumento sono ancora in corso, non è possibile salire fino alla sommità della montagna. Mentre aspettiamo, noto un cartellone che anticipa il progetto di un Campus universitario da realizzare fra poco nei dintorni. Se da un lato apprezzo l’iniziativa di promuovere la cultura proprio in questo luogo, che esalta un personaggio tanto popolare nella storia degli Indiani d’America, dall’altro sono consapevole che il mio West selvaggio e incontaminato, è fatalmente destinato a trasformarsi sempre di più nei prossimi decenni. Purchè, mi auguro, a nessuno venga mai l’idea di costruirci grattacieli come a New York, a Chicago o nella stessa Denver.

Attendiamo che il bus-navetta carico di boy.scout faccia ritorno e intanto ne approfittiamo per vedere il Visitor Center, che molto ampio ed affollato.
Gli addetti alle bancarelle sono tutti Lakota della tribù degli Oglala, gentili e affabili, evidentemente abituati da tempo ad essere a contatto con il turista americano, europeo e di altri continenti. I visitatori sono moltissimi e quasi tutti, noi compresi, acquistano volentieri bracciali, borse, statuine e articoli di vario genere. All’interno si trova anche un classico “teepee” a grandezza naturale, alto parecchi metri e capace di contenere fino a dieci persone. Qualcuno si meraviglia delle sue dimensioni, ma non è difficile spiegargli che le tende riprodotte nei film western spesso erano soltanto delle imitazioni su scala ridotta. Sioux e Cheyenne si recavano frequentemente nei Monti Big Horn e sulle Black Hills per approvvigionarsi di pali di sostegno per le loro abitazioni, utilizzati, durante i trasferimenti, per formare i “travois”, i traini tradizionali attaccati a cavalli e cani. La ruota, come sappiamo, venne introdotta molto più tardi dall’uomo bianco.
Mentre mi aggiro per il centro a rovistare fra le mercanzie esposte, incontro con piacere una recente conoscenza: Eagle Man. E’ seduto davanti ad un tavolino su cui sono esposte diverse pubblicazioni di storia e cultura dei Pellirosse.
“Hi, Eagle Man” lo chiamo “Mita Kola!” Non ha difficoltà a riconoscermi e ricambia il saluto, alzandosi per porgermi la mano. “Posso avere uno dei tuoi libri da portare in Italia? domando “Certamente!” risponde, scegliendone uno dal titolo “Crazy Horse and Chief Red Cloud”, scritto da lui e appena pubblicato a Minneapolis. Voglio che lo autografi e lo fa volentieri, chiedendo il nome della mia compagna per aggiungerlo al mio. “You’re welcome” mi congeda dopo una breve conversazione “Stay well”. Indica le persone che stanno intorno alla bancarella per avere informazioni e noi non vorremmo distoglierlo più a lungo dal suo lavoro: “I hope to see you again” (Spero di rivederti) gli dico, salutandolo a mia volta.
Poco dopo usciamo dal Visitor Center per dirigerci verso il bus-navetta che è pronto per una nuova spedizione. Il mezzo non ci condurrà fino alla vetta, ma soltanto nella vallata sottostante, da dove scatteremo varie fotografie alla figura di Cavallo Pazzo scolpita nella montagna. La guida ci spiega che quest’opera non sarà ultimata prima di qualche decennio. A noi, cui il Padre Eterno ha già concesso di superare il mezzo secolo, non sarà probabilmente concesso di vederla ultimata, ma proprio questo ci rende ancora più felici di averla potuta ammirare oggi.
Quando il bus si ferma nell’avvallamento e il conducente ci invita a scendere per scattare le foto, scambio qualche impressione con alcuni viaggiatori. Poi offro una spiegazione al gruppo dei miei amici, alcuni dei quali non comprendono l’inglese “L’idea dell’opera è stata di un Indiano, il capo sioux Henry Standing Bear (Orso in Piedi) che nel 1939 scrisse una lettera allo scultore Korczak Ziolkowsky di Boston. L’artista ne fu così entusiasta, che si mise subito al lavoro per creare la statua più grande della Terra. Dopo che sarà ultimata, misurerà 183 metri di altezza, raffigurando Cavallo Pazzo in sella al suo destriero, con un braccio puntato in avanti per indicare simbolicamente la strada al suo popolo. Purtroppo Ziolkowsky è morto nel 1982, a 74 anni, ma il suo impegno è stato assunto da altri, in primis dai suoi figli.” Mi preme tuttavia aggiungere che, per ricavare il volto di Crazy Horse, lo scultore ha elaborato un’immagine di fantasia, non esistendo ritratti certi di Cavallo Pazzo.
Rammento di avere letto, in libri e articoli pubblicati in Italia, che la realizzazione sembra piuttosto brutta e il motivo decisamente retorico, ma la spiegazione è molto semplice. “Quando, fra poco, arriveremo a Mount Rushmore ” spiego “e potremo contemplare le quattro teste dei presidenti USA scolpiti nella roccia, capirete perché i Sioux abbiano fortemente voluto quest’opera…Alla presenza dei grandi leader degli Stati Uniti, hanno inteso affiancare, se non proprio contrapporre, quella di un loro uomo-simbolo, Tasunko Witko. Cavallo Pazzo non fu mai un capo politico, ma un trascinatore di uomini, coraggioso e ostinato difensore dei costumi e della libertà del suo popolo, quanto irriducibile combattente. A lui va il merito principale delle due vittorie consecutive ottenute contro i generali George F. Crook e George Armstrong Custer nel giugno 1876. Gli Americani lo consideravano tanto pericoloso da decidere di deportarlo in un’isola dei Caraibi, la Dry Tortugas. Fu durante un tentativo di arrestarlo che Cavallo Pazzo venne ucciso a baionettate dal soldato William Gentles, a Fort Robinson, il 5 settembre 1877. Suo nipote Alce Nero scrive che aveva soltanto 30 anni, ma altri biografi sostengono che fosse più anziano, probabilmente vicino ai 35. La tradizione vuole che il suo corpo sia stato trasportato a Wounded Knee e sepolto in un luogo segreto. Anche questo mistero contribuisce a perpetuare la sua leggenda.”
Sono tornato a parlare di Wounded Knee, dopo appena ventiquattr’ore dalla nostra visita laggiù. Chi non conosce la storia degli Indiani d’America, non può comprendere il fascino sottile che permea quel luogo, sebbene sembri completamente trascurato dagli stessi Indiani.
Al termine di questo viaggio, anche se non avremo potuto assistere alla consuete esibizioni in costume o a danze tribali organizzate ad hoc per il turista – come se ne possono vedere tante anche in Italia - sarò certo di avere imparato qualcosa di molto più profondo sui Pellirosse.
Venendo quassù, abbiamo toccato il cuore della loro storia.

 

Cuore indiano. La nostra mèta più immediata è il Crazy Horse Memorial, la montagna di Cavallo Pazzo, che dista solo 37 chilometri da Hot Springs. Prima, però, facciamo una breve sosta a Custer City per chiedere informazioni.

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Cliccate sulle foto per vederle ingrandite.

Sotto: Wounded Knee; indiani che stazionano vicino il Visitor Center

Particolare del cimitero di Wounded Knee

Case isolate della riserva indiana di Pine Ridge

Domenico Rizzi a Holy Rosary Mission (Pine Ridge) insieme a Eagle Man, scrittore e storico Oglala

L'ingresso del Crazy Horse Memorial nelle Black Hills (South Dakota)

Il monumento a Cavallo Pazzo, opera iniziata molti anna fa da Korczak Ziolkowsky

La Highway 385 che conduce al Crazy Horse Memorial attraverso il paesaggio boscoso delle Black Hills

 

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