a visita a Little Big Horn Battlefield si
protrae oltre mezzogiorno, ma io vorrei che non si esaurisse mai.
Quel luogo remoto, dove alcuni anni fa le autorità aggiunsero,
appena dietro il Visitor Center, un cimitero per i caduti nelle
guerre combattute recentemente dagli Stati Uniti, rappresenta il
vero santuario del West, la sintesi e la fine virtuale di un’epopea.
Dopo l’eclatante vittoria ottenuta contro Custer, gli Indiani si
frazionarono in molteplici bande, ciascuna delle quali seguì una
propria direzione. La maggior parte di esse si illuse per breve
tempo di poter continuare a vivere in quel territorio secondo le
antiche usanze.
Soltanto autorevoli esponenti come i sioux Nuvola Rossa e Coda
Macchiata, che con i loro uomini non avevano voluto partecipare alla
grande insurrezione del 1876, sapevano quanto fosse inutile opporsi
ai Bianchi. Infatti nel 1870 entrambi avevano attraversato la parte
orientale degli Stati Uniti in treno, per raggiungere, insieme ad
altri capi, Washington e New York. Quest’ultima città da sola, senza
contare gli altri grossi centri visitati, raggiungeva già il milione
di abitanti, mentre l’intera nazione lakota – i Sioux occidentali –
non arrivava a 15.000 persone.
Neppure il capo-guerriero cheyenne Mano Gialla credeva tanto alla
potenza degli Americani, se, appena dopo la battaglia del Little Big
Horn, fuggì dalla riserva di White River con 600 seguaci per unirisi
ai vincitori. A fermarli pensarono il colonnello Wesley Merritt e il
suo Quinto Cavalleria, sbarrando loro il passo al Warbonnet Creek,
nel Nebraska nord-occidentale, a non molta distanza dall’itinerario
percorso da noi nei giorni scorsi. Ma in questo frangente, più che
la potenza della cavalleria, fu la carabina di Buffalo Bill a
scongiurare un altro sanguinoso combattimento, abbattendo il focoso
condottiero con un colpo preciso. La stampa nazionale ed estera
avrebbe poi trasformato l’episodio in un duello all’arma bianca, che
lo stesso Cody smentì di avere mai sostenuto.
I Cheyenne furono sicuramente il popolo più ostinato nel resistere
ad oltranza ai Bianchi.
Dopo la loro resa, nel 1877, fu un migliaio di essi a subire la
deportazione in Oklahoma, dove viveva il ramo meridionale della
tribù, ma non vi resistettero a lungo. Decimati da un’epidemia,
decisero in 300 di fuggire nuovamente al nord e l’ultimo dei loro
gruppi in armi, quello di Coltello Spuntato, si arrese soltanto nel
gennaio 1879, nei pressi di Fort Robinson. Invece alla banda
capeggiata da Piccolo Lupo – consegnatasi a Fort Keogh nel Montana –
fu consentito di rimanere nelle sue antiche dimore, che formano oggi
la riserva dei Northern Cheyenne.
Per questo, lasciando Little Big Horn, facciamo una puntata fino a
Lame Deer, dove vivono i discendenti di quell’ultimo gruppo.
Il viaggio non è molto lungo, perché la riserva confina con quella
dei Crow. Giungiamo a Lame Deer dopo aver percorso una novantina di
chilometri attraverso colline e praterie erbose apparentemente
disabitate, ma la nostra sosta sarà purtroppo brevissima.
La riserva dei Northern Cheyenne venne istituita, con decreto del
Presidente degli Stati Uniti Chester A. Arthur, nel 1884. La sua
estensione è notevole: quasi 445.000 acri (1 acro è pari a 0,40
ettari) la popolazione residente di soli 4.371 abitanti, sebbene
quella complessiva dei Cheyenne Settentrionali ne comprenda circa
6.600. Sono dunque molti gli Indiani che vivono e lavorano fuori dal
territorio assegnato.
La suddivisione fra i due rami – Cheyenne del Nord e del Sud –
avvenne intorno al 1826, allorché una parte della tribù si trasferì
nelle praterie a sud del Platte River, spingendosi nel Colorado, nel
Kansas e in Oklahoma. Comunque si trattò di un frazionamento
artificiale, in quanto i Cheyenne mantennero un’unica direzione
politica – un consiglio composto di 44 capi – le medesime leggi ed
usanze molto simili. Ciò che differenziò nel tempo i due
raggruppamenti fu l’adozione, abbastanza generalizzata, della lingua
lakota da parte dei primi, che vivevano a stretto contatto con i
Sioux loro alleati.
Se nell’insieme i Cheyenne censiti nel 1880 risultarono 2.500 – non
erano più di 3.500 un secolo prima – oggi sono cinque volte tanti,
perché in Oklahoma ne vivono altri 8.000.
Rispetto alla riserva Sioux di Pine Ridge, che abbiamo visitato
pochi giorni fa, la situazione dei Northern Cheyenne sembra
migliore. La disoccupazione, benché elevata, è intorno al 45 per
cento della forza-lavoro, l’alcoolismo è meno diffuso e il grado di
istruzione è confortante, con il 54 per cento di diplomati alla
“high school” della riserva, la scuola superiore.
La fierezza di questo popolo, che tenne testa agli Americani per 25
anni, si sintetizza in alcuni monumenti dedicati ai suoi condottieri
più prestigiosi, quali Due Lune – leader di una parte dei Cheyenne
nella battaglia del Little Big Horn – e Coltello Spuntato, che guidò
la fuga dall’Oklahoma nel 1878, resistendo poi tenacemente alle
truppe del capitano Henry W. Wessels di Fort Robinson, nel Nebraska.
Ma per quanto riusciamo a vedere, a quell’ora del giorno la riserva
sembra deserta e ci soffermiamo brevemente soltanto per vedere dei
ragazzi che stazionano davanti ad una chiesa rivestita in legno ed
alcuni campi coltivati.
La segnaletica indica diversi luoghi
interessanti – quali la camera di commercio, un visitor center ed
un’importante missione – mentre apprendiamo che il pow-wow –
l’annuale raduno folkloristico con danze ed esibizioni nei costumi
tradizionali, che era il vero obiettivo della visita - ha già avuto
luogo ai primi di luglio.
Sheridan si trova ad oltre due ore d’auto, il mezzogiorno è già
passato da un po’ e l’appetito comincia a farsi sentire, ma è anche
la fatica che comincia a trionfare sulla spinta entusiastica che ci
ha tenuti per giorni in continuo movimento, percorrendo più di 2.000
chilometri in una settimana.
La decisione di tornare indietro ci trova perciò tutti concordi e in
un attimo siamo “on the road again”, diretti al Wyoming.
Quando, allontanatici da Lame Deer verso sud-ovest, rientriamo nella
riserva dei Crow, l’affaticamento e il desiderio di un buon “hot-dog” con patate fritte ci induce a fermarci nel primo posto che
capita, rivelatosi subito un po’ sospetto.
Infatti, un grande
cartello esposto davanti al “fast-food” avverte: “Attenzione! La
sosta in questo luogo è a vostro rischio e pericolo”.
Non fidandoci a lasciare l’auto incustodita (abbiamo davanti a noi
altri 100 chilometri di prateria e le aree di servizio sono
rarissime) facciamo i turni ad entrare per rifornirci di panini,
bibite e sigarette. All’interno, il personale sembra interamente di
razza Crow e la cassiera a cui mi appresto a pagare, benché ciò sia
abbastanza strano, non comprende troppo bene il mio inglese. Quando
esco, rimanendo ad attendere i due amici che si trovano ancora
dentro (la mia compagna è già vicina all’auto) noto un gruppo di
motociclisti che si sta radunando a poca distanza da noi.
L’impressione è assai poco rassicurante e rammenta alcuni film
americani in cui compaiono bande di teppisti motorizzati che fanno
scorribande nei centri abitati.
Peraltro, la polizia indiana della riserva se n’è andata proprio
mentre stavamo parcheggiando e la mia prudenza suggerisce di
allontanarci alla svelta da quel luogo.
Perciò, additando il
cartello che contiene l’avvertimento, sollecito i miei compagni di
viaggio a salire immediatamente in macchina, mi siedo al posto di
guida e accendo il motore senza ulteriori indugi: “Se le autorità
hanno esposto quell’avvertimento” dico apertamente “ci sarà pure una
ragione. Se finora non c’è successo niente, tanto di guadagnato. I
luoghi pericolosi ci sono in America come in Italia.”
Finalmente, dopo una sosta che è durata soltanto quindici minuti,
ripartiamo.
Giungiamo a Sheridan a pomeriggio avanzato, stanchi ma soddisfatti.
Questa sera ci sarà spazio per un’altra camminata in città e domani
mattina, prima di fare un’escursione al famosissimo Fort Philip
Kearny, visiteremo il parco cittadino, un luogo di notevole valore
storico per chi conosce a fondo la storia delle guerre indiane
dell’Ottocento.
Il parco di Sheridan si trova a pochi chilometri dal centro della
città ed è attraversato dal Goose Creek, il Fiume dell’Oca, che
passa sotto la North Main Street, a pochi passi dallo splendido
albergo in cui alloggiamo. Questo corso d’acqua e la valle da esso
attraversata riportano alle vicende belliche del 1876 fra l’esercito
americano e la coalizione pellerossa guidata da Toro Seduto.
Vi troviamo giardini pubblici molto ordinati e puliti, con parcheggi
esterni per le auto. Vicino agli uffici del sorvegliante del parco
si trovano anche un grande polo sportivo-ricreativo con ristorazione
ed una piscina di notevoli dimensioni. L’area recintata per gli
animali si estende invece su una collina, alla quale è possibile
accedere soltanto a piedi, percorrendo un sentiero in terra battuta
che inizia a metà del parco.
Proprio mentre stiamo per iniziare la nostra salutare salita,
scopriamo un cippo su cui è incisa la seguente iscrizione “Nel
giugno 1876 il generale George F. Crook si accampò in questo luogo
della vallata del torrente Goose, con le sue truppe e le guide
alleate dei Crow e degli Shoshone.”
Non posso non soffermarmi a guardarmi intorno, cercando qualcosa,
fra i prati, gli alberi maestosi e le panchine, che mi rammenti
quella spedizione. Crook, che guidava una delle tre colonne mobilitate dal generale
Philip Sheridan per costringere gli Indiani rìbelli a ritirarsi
nelle riserve del Dakota, era partito da Fort Fetterman, nel
Wyoming, puntando verso nord con più di 1.000 soldati e guide. Le
altre due colonne, meno consistenti della sua, erano affidate al
colonnello John Gibbon, che proveniva dal Montana e al generale
Alfred H. Terry di Fort Lincoln, nel Dakota, con il Settimo
Cavalleria di George Armstrong Custer ai suoi ordini. Non tutti
sanno, ad esempio, che Custer non aveva alcun comando autonomo, ma
rimase in subordine a Terry finché questi non gli diede delle
consegne molto vaghe per cercare di individuare il grosso delle
forze indiane. In pratica, benché le disposizioni di Terry fossero
di aspettare l’arrivo dell’altro contingente guidato da Gibbon,
Custer si trovò a gestire una situazione imprevista, senza aver
ricevuto ordini precisi da nessuno.
Sulla battaglia che terminò in un massacro – l’unica pesante
sconfitta militare subita dagli Stati Uniti dopo la guerra di
secessione – sono state raccontate troppe cose inattendibili e
formulate ipotesi spesso assurde.
Se gli Indiani vennero a conoscerne i retroscena soltanto molti anni
dopo, i politici ed i militari erano consapevoli degli errori che
portarono alla drammatica fine di Custer e dei suoi 264 uomini.
Il contingente inizialmente impiegato per debellare gli ostili
consisteva in 2.400 uomini – ai quali si aggiunsero, durante la
prima fase della campagna, più di 300 scout indiani e nella seconda
parte, dopo la sconfitta di Custer, altri 2.000 soldati - per andare
alla ricerca di circa 8.000 Sioux e Cheyenne, dei quali 2.000
guerrieri, su un’area vasta, come annotò un ufficiale prussiano
aggregato alle truppe di Crook, “due volte la Francia”.
La sottovalutazione dell’abilità tattica del nemico e la decisione
di impiegare un numero troppo esiguo di militari per economizzare i
costi della spedizione furono la vera ragione del disastro del
Little Big Horn. I politici, compreso il presidente degli Stati
Uniti Ulysses Grant, se la cavarono indicando la causa
nell’incoscienza del generale Custer.
Quell’incoscienza che, sia durante la Guerra di Secessione quanto
nelle successive campagne contro gli Indiani delle Pianure nel
1866-73, aveva fatto molto comodo all’Unione, contribuendo alla
vittoria del Nord sui Sudisti e alla pacificazione delle praterie
del West, aperte alla colonizzazione.
Nel marzo 1876 il generale Crook aveva raggiunto la vallata del
Goose Creek con 1.048 uomini. Prima di muovere verso nord per
attaccare i Sioux, la sua colonna venne rafforzata dall’arrivo di
276 guide indiane, appartenenti alle tribù dei Crow e degli
Shoshone, da sempre nemici giurati di Lakota e Cheyenne.
In questo luogo che stiamo vedendo, l’ufficiale pose il suo
accampamento, lasciando muli e carriaggi insieme ad un reparto di
scorta. Poi, si trasferì con il grosso delle sue truppe sul fiume
Rosebud, dove la mattina del 16 giugno venne attaccato da un nutrito
contingente nemico, guidato da Cavallo Pazzo, Gall, Due Lune ed
altri capi.
Al termine di 6 ore di battaglia, il generale decise di ripiegare
verso il campo-base sul Goose, dichiarando in seguito di avere
riportato un successo contro gli assalitori, tesi da lui ribadita
anche nel libro “General George F. Crook. His Autobiography” a cura
di Martin F. Schmitt.
Le perdite subite dall’esercito furono irrisorie – meno di una
quindicina secondo il rapporto ufficiale, ma qualcuno dei
partecipanti alla battaglia avrebbe invece riferito di 57 fra morti
e feriti – ma Crook preferì ripiegare, forse perché sbalordito
dall’elevato numero degli avversari, comunque pari o di poco
superiore a quello dei suoi uomini. Schmitt scrisse, nel libro
citato, che quella del Rosebud “fu la sola importante sconfitta che
il generale subì per mano degli Indiani”. Quando Crook smise di
sbandierarla come una vittoria, scaricò l’intera responsabilità su
alcuni suoi ufficiali, deferiti alla corte marziale per incapacità e
conseguentemente sospesi dal comando e dal grado per un certo
periodo.
Forse la sua mancanza maggiore fu di aver rinunciato a proseguire la
marcia per incontrare le altre due colonne, guidate rispettivamente
dal generale Terry e dal colonnello Gibbon, ma non conosciamo fino
in fondo le ragioni oggettive che gli fecero prendere questa
decisione.
E’ un fatto che, comportandosi così, sottrasse al già esiguo corpo
di spedizione il 50 per cento della forza, costringendolo ad operare
in territorio nemico con meno di 1.400 uomini, che si sarebbero
ridotti a poco più di 1.100 dopo le perdite sofferte al Little Big
Horn.
Non solo, ma Crook omise di avvisare gli altri due contingenti – che
si trovavano sul fiume Tongue, nel Montana - di essere stato battuto
e di trovarsi nella valle del Goose Creek in attesa di eventuali
rinforzi. Probabilmente i suoi portaordini non riuscirono a
localizzare la colonna unificata di Terry e Gibbon.
Crook era stato un grande protagonista del conflitto contro i
Confederati e vantava l’indiscusso merito di avere sottomesso la
maggior parte degli Apache in Arizona.
Soltanto contro Geronimo, nell’ultima fase della disperata
resistenza dei Chiricahua nel 1886, il generale avrebbe registrato
un altro insuccesso come quello del Rosebud, rassegnando poi le
dimissioni a favore del generale Nelson A. Miles, l’uomo che aveva
sconfitto Cavallo Pazzo e costretto Toro Seduto a chiedere asilo
politico in Canada.
Il Goose Creek Park è un luogo piacevole ed ameno, che si visita
volentieri. Si incontrano scoiattoli che attraversano di corsa i
prati verdissimi per arrampicarsi sugli alberi e si possono scorgere
alcuni daini all’interno della zona recintata.
Quando raggiungiamo il pianoro su cui termina il nostro sentiero,
attraverso la rete metallica vediamo anche quattro o cinque bisonti
al pascolo.
Non sono grossi come l’esemplare che ci apparve salendo verso le
Black Hills ed hanno il manto più chiaro, ma sono degli ottimi
rappresentanti di quella specie tanto cara agli Indiani.
Come abbiamo detto in precedenza, oggi sono ridiventati
sufficientemente numerosi e vivono in aree protette da leggi
federali e statali, ma il loro numero è infinitamente inferiore a
quello stimato intorno al 1850.
“L’odierna distruzione del regno animale, come balene, foche, ecc. ”
è il mio commento “dovrebbe farci riflettere anche sull’utilizzo
esagerato delle ricchezze della nostra Terra, che con troppa
incoscienza siamo portati ad immaginare eterne, come il petrolio, il
metano ed altre preziose risorse. Le motoseghe stanno facendo fare
alla foresta amazzonica - un oceano di legname solo in apparenza
inesauribile - la fine dei bisonti. Nella prima metà dell’Ottocento
vi erano forse trenta o quaranta milioni di questi bovini in
America, ma sterminandoli al ritmo di migliaia al giorno, si finì
per ridurli a poche centinaia. Ma forse l’uomo è un animale che non
impara nulla dai propri errori.”
L’escursione dura circa un’ora, lasciandoci il nostalgico ricordo di
un tuffo in un lontano passato, quando l’arrivo delle mandrie di
bisonti era accolto festosamente da tutti gli Indiani delle Grandi
Pianure situate fra il fiume Mississippi e le Montagne Rocciose. Per
loro significava infatti mostrare le abilità venatorie individuali,
ma soprattutto fare grandi provviste di carne, pellicce ed altre
parti che servivano all’economia tribale.
Oggi quei bisonti sono lì dietro il recinto, indifferenti alle
nostre macchine fotografiche mentre immortaliamo un altro pezzo
della vera America – non quella dei grattacieli e del progresso più
sfrenato – che porteremo con noi al ritorno.
L’America dei Pellirosse e delle carovane di pionieri, dei bisonti e
delle sterminate mandrie di “longhorn” sospinte da spericolati
cow-boys lungo le polverose piste del bestiame.
L’America che ameremo avere sempre nel cuore.