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A cura di Domenico Rizzi

Sesta parte del viaggio

L

a visita a Little Big Horn Battlefield si protrae oltre mezzogiorno, ma io vorrei che non si esaurisse mai. Quel luogo remoto, dove alcuni anni fa le autorità aggiunsero, appena dietro il Visitor Center, un cimitero per i caduti nelle guerre combattute recentemente dagli Stati Uniti, rappresenta il vero santuario del West, la sintesi e la fine virtuale di un’epopea.

Dopo l’eclatante vittoria ottenuta contro Custer, gli Indiani si frazionarono in molteplici bande, ciascuna delle quali seguì una propria direzione. La maggior parte di esse si illuse per breve tempo di poter continuare a vivere in quel territorio secondo le antiche usanze. Soltanto autorevoli esponenti come i sioux Nuvola Rossa e Coda Macchiata, che con i loro uomini non avevano voluto partecipare alla grande insurrezione del 1876, sapevano quanto fosse inutile opporsi ai Bianchi. Infatti nel 1870 entrambi avevano attraversato la parte orientale degli Stati Uniti in treno, per raggiungere, insieme ad altri capi, Washington e New York. Quest’ultima città da sola, senza contare gli altri grossi centri visitati, raggiungeva già il milione di abitanti, mentre l’intera nazione lakota – i Sioux occidentali – non arrivava a 15.000 persone. Neppure il capo-guerriero cheyenne Mano Gialla credeva tanto alla potenza degli Americani, se, appena dopo la battaglia del Little Big Horn, fuggì dalla riserva di White River con 600 seguaci per unirisi ai vincitori. A fermarli pensarono il colonnello Wesley Merritt e il suo Quinto Cavalleria, sbarrando loro il passo al Warbonnet Creek, nel Nebraska nord-occidentale, a non molta distanza dall’itinerario percorso da noi nei giorni scorsi. Ma in questo frangente, più che la potenza della cavalleria, fu la carabina di Buffalo Bill a scongiurare un altro sanguinoso combattimento, abbattendo il focoso condottiero con un colpo preciso. La stampa nazionale ed estera avrebbe poi trasformato l’episodio in un duello all’arma bianca, che lo stesso Cody smentì di avere mai sostenuto.

I Cheyenne furono sicuramente il popolo più ostinato nel resistere ad oltranza ai Bianchi. Dopo la loro resa, nel 1877, fu un migliaio di essi a subire la deportazione in Oklahoma, dove viveva il ramo meridionale della tribù, ma non vi resistettero a lungo. Decimati da un’epidemia, decisero in 300 di fuggire nuovamente al nord e l’ultimo dei loro gruppi in armi, quello di Coltello Spuntato, si arrese soltanto nel gennaio 1879, nei pressi di Fort Robinson. Invece alla banda capeggiata da Piccolo Lupo – consegnatasi a Fort Keogh nel Montana – fu consentito di rimanere nelle sue antiche dimore, che formano oggi la riserva dei Northern Cheyenne.

Per questo, lasciando Little Big Horn, facciamo una puntata fino a Lame Deer, dove vivono i discendenti di quell’ultimo gruppo. Il viaggio non è molto lungo, perché la riserva confina con quella dei Crow. Giungiamo a Lame Deer dopo aver percorso una novantina di chilometri attraverso colline e praterie erbose apparentemente disabitate, ma la nostra sosta sarà purtroppo brevissima.

La riserva dei Northern Cheyenne venne istituita, con decreto del Presidente degli Stati Uniti Chester A. Arthur, nel 1884. La sua estensione è notevole: quasi 445.000 acri (1 acro è pari a 0,40 ettari) la popolazione residente di soli 4.371 abitanti, sebbene quella complessiva dei Cheyenne Settentrionali ne comprenda circa 6.600. Sono dunque molti gli Indiani che vivono e lavorano fuori dal territorio assegnato. La suddivisione fra i due rami – Cheyenne del Nord e del Sud – avvenne intorno al 1826, allorché una parte della tribù si trasferì nelle praterie a sud del Platte River, spingendosi nel Colorado, nel Kansas e in Oklahoma. Comunque si trattò di un frazionamento artificiale, in quanto i Cheyenne mantennero un’unica direzione politica – un consiglio composto di 44 capi – le medesime leggi ed usanze molto simili. Ciò che differenziò nel tempo i due raggruppamenti fu l’adozione, abbastanza generalizzata, della lingua lakota da parte dei primi, che vivevano a stretto contatto con i Sioux loro alleati.

Se nell’insieme i Cheyenne censiti nel 1880 risultarono 2.500 – non erano più di 3.500 un secolo prima – oggi sono cinque volte tanti, perché in Oklahoma ne vivono altri 8.000. Rispetto alla riserva Sioux di Pine Ridge, che abbiamo visitato pochi giorni fa, la situazione dei Northern Cheyenne sembra migliore. La disoccupazione, benché elevata, è intorno al 45 per cento della forza-lavoro, l’alcoolismo è meno diffuso e il grado di istruzione è confortante, con il 54 per cento di diplomati alla “high school” della riserva, la scuola superiore.

La fierezza di questo popolo, che tenne testa agli Americani per 25 anni, si sintetizza in alcuni monumenti dedicati ai suoi condottieri più prestigiosi, quali Due Lune – leader di una parte dei Cheyenne nella battaglia del Little Big Horn – e Coltello Spuntato, che guidò la fuga dall’Oklahoma nel 1878, resistendo poi tenacemente alle truppe del capitano Henry W. Wessels di Fort Robinson, nel Nebraska. Ma per quanto riusciamo a vedere, a quell’ora del giorno la riserva sembra deserta e ci soffermiamo brevemente soltanto per vedere dei ragazzi che stazionano davanti ad una chiesa rivestita in legno ed alcuni campi coltivati.

La segnaletica indica diversi luoghi interessanti – quali la camera di commercio, un visitor center ed un’importante missione – mentre apprendiamo che il pow-wow – l’annuale raduno folkloristico con danze ed esibizioni nei costumi tradizionali, che era il vero obiettivo della visita - ha già avuto luogo ai primi di luglio.

Sheridan si trova ad oltre due ore d’auto, il mezzogiorno è già passato da un po’ e l’appetito comincia a farsi sentire, ma è anche la fatica che comincia a trionfare sulla spinta entusiastica che ci ha tenuti per giorni in continuo movimento, percorrendo più di 2.000 chilometri in una settimana.

La decisione di tornare indietro ci trova perciò tutti concordi e in un attimo siamo “on the road again”, diretti al Wyoming.

Quando, allontanatici da Lame Deer verso sud-ovest, rientriamo nella riserva dei Crow, l’affaticamento e il desiderio di un buon “hot-dog” con patate fritte ci induce a fermarci nel primo posto che capita, rivelatosi subito un po’ sospetto.

Infatti, un grande cartello esposto davanti al “fast-food” avverte: “Attenzione! La sosta in questo luogo è a vostro rischio e pericolo”. Non fidandoci a lasciare l’auto incustodita (abbiamo davanti a noi altri 100 chilometri di prateria e le aree di servizio sono rarissime) facciamo i turni ad entrare per rifornirci di panini, bibite e sigarette. All’interno, il personale sembra interamente di razza Crow e la cassiera a cui mi appresto a pagare, benché ciò sia abbastanza strano, non comprende troppo bene il mio inglese. Quando esco, rimanendo ad attendere i due amici che si trovano ancora dentro (la mia compagna è già vicina all’auto) noto un gruppo di motociclisti che si sta radunando a poca distanza da noi.

L’impressione è assai poco rassicurante e rammenta alcuni film americani in cui compaiono bande di teppisti motorizzati che fanno scorribande nei centri abitati. Peraltro, la polizia indiana della riserva se n’è andata proprio mentre stavamo parcheggiando e la mia prudenza suggerisce di allontanarci alla svelta da quel luogo.

Perciò, additando il cartello che contiene l’avvertimento, sollecito i miei compagni di viaggio a salire immediatamente in macchina, mi siedo al posto di guida e accendo il motore senza ulteriori indugi: “Se le autorità hanno esposto quell’avvertimento” dico apertamente “ci sarà pure una ragione. Se finora non c’è successo niente, tanto di guadagnato. I luoghi pericolosi ci sono in America come in Italia.”

Finalmente, dopo una sosta che è durata soltanto quindici minuti, ripartiamo. Giungiamo a Sheridan a pomeriggio avanzato, stanchi ma soddisfatti. Questa sera ci sarà spazio per un’altra camminata in città e domani mattina, prima di fare un’escursione al famosissimo Fort Philip Kearny, visiteremo il parco cittadino, un luogo di notevole valore storico per chi conosce a fondo la storia delle guerre indiane dell’Ottocento.

Il parco di Sheridan si trova a pochi chilometri dal centro della città ed è attraversato dal Goose Creek, il Fiume dell’Oca, che passa sotto la North Main Street, a pochi passi dallo splendido albergo in cui alloggiamo. Questo corso d’acqua e la valle da esso attraversata riportano alle vicende belliche del 1876 fra l’esercito americano e la coalizione pellerossa guidata da Toro Seduto. Vi troviamo giardini pubblici molto ordinati e puliti, con parcheggi esterni per le auto. Vicino agli uffici del sorvegliante del parco si trovano anche un grande polo sportivo-ricreativo con ristorazione ed una piscina di notevoli dimensioni. L’area recintata per gli animali si estende invece su una collina, alla quale è possibile accedere soltanto a piedi, percorrendo un sentiero in terra battuta che inizia a metà del parco.

Proprio mentre stiamo per iniziare la nostra salutare salita, scopriamo un cippo su cui è incisa la seguente iscrizione “Nel giugno 1876 il generale George F. Crook si accampò in questo luogo della vallata del torrente Goose, con le sue truppe e le guide alleate dei Crow e degli Shoshone.” Non posso non soffermarmi a guardarmi intorno, cercando qualcosa, fra i prati, gli alberi maestosi e le panchine, che mi rammenti quella spedizione. Crook, che guidava una delle tre colonne mobilitate dal generale Philip Sheridan per costringere gli Indiani rìbelli a ritirarsi nelle riserve del Dakota, era partito da Fort Fetterman, nel Wyoming, puntando verso nord con più di 1.000 soldati e guide. Le altre due colonne, meno consistenti della sua, erano affidate al colonnello John Gibbon, che proveniva dal Montana e al generale Alfred H. Terry di Fort Lincoln, nel Dakota, con il Settimo Cavalleria di George Armstrong Custer ai suoi ordini. Non tutti sanno, ad esempio, che Custer non aveva alcun comando autonomo, ma rimase in subordine a Terry finché questi non gli diede delle consegne molto vaghe per cercare di individuare il grosso delle forze indiane. In pratica, benché le disposizioni di Terry fossero di aspettare l’arrivo dell’altro contingente guidato da Gibbon, Custer si trovò a gestire una situazione imprevista, senza aver ricevuto ordini precisi da nessuno. Sulla battaglia che terminò in un massacro – l’unica pesante sconfitta militare subita dagli Stati Uniti dopo la guerra di secessione – sono state raccontate troppe cose inattendibili e formulate ipotesi spesso assurde. Se gli Indiani vennero a conoscerne i retroscena soltanto molti anni dopo, i politici ed i militari erano consapevoli degli errori che portarono alla drammatica fine di Custer e dei suoi 264 uomini. Il contingente inizialmente impiegato per debellare gli ostili consisteva in 2.400 uomini – ai quali si aggiunsero, durante la prima fase della campagna, più di 300 scout indiani e nella seconda parte, dopo la sconfitta di Custer, altri 2.000 soldati - per andare alla ricerca di circa 8.000 Sioux e Cheyenne, dei quali 2.000 guerrieri, su un’area vasta, come annotò un ufficiale prussiano aggregato alle truppe di Crook, “due volte la Francia”. La sottovalutazione dell’abilità tattica del nemico e la decisione di impiegare un numero troppo esiguo di militari per economizzare i costi della spedizione furono la vera ragione del disastro del Little Big Horn. I politici, compreso il presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant, se la cavarono indicando la causa nell’incoscienza del generale Custer. Quell’incoscienza che, sia durante la Guerra di Secessione quanto nelle successive campagne contro gli Indiani delle Pianure nel 1866-73, aveva fatto molto comodo all’Unione, contribuendo alla vittoria del Nord sui Sudisti e alla pacificazione delle praterie del West, aperte alla colonizzazione. Nel marzo 1876 il generale Crook aveva raggiunto la vallata del Goose Creek con 1.048 uomini. Prima di muovere verso nord per attaccare i Sioux, la sua colonna venne rafforzata dall’arrivo di 276 guide indiane, appartenenti alle tribù dei Crow e degli Shoshone, da sempre nemici giurati di Lakota e Cheyenne. In questo luogo che stiamo vedendo, l’ufficiale pose il suo accampamento, lasciando muli e carriaggi insieme ad un reparto di scorta. Poi, si trasferì con il grosso delle sue truppe sul fiume Rosebud, dove la mattina del 16 giugno venne attaccato da un nutrito contingente nemico, guidato da Cavallo Pazzo, Gall, Due Lune ed altri capi. Al termine di 6 ore di battaglia, il generale decise di ripiegare verso il campo-base sul Goose, dichiarando in seguito di avere riportato un successo contro gli assalitori, tesi da lui ribadita anche nel libro “General George F. Crook. His Autobiography” a cura di Martin F. Schmitt. Le perdite subite dall’esercito furono irrisorie – meno di una quindicina secondo il rapporto ufficiale, ma qualcuno dei partecipanti alla battaglia avrebbe invece riferito di 57 fra morti e feriti – ma Crook preferì ripiegare, forse perché sbalordito dall’elevato numero degli avversari, comunque pari o di poco superiore a quello dei suoi uomini. Schmitt scrisse, nel libro citato, che quella del Rosebud “fu la sola importante sconfitta che il generale subì per mano degli Indiani”. Quando Crook smise di sbandierarla come una vittoria, scaricò l’intera responsabilità su alcuni suoi ufficiali, deferiti alla corte marziale per incapacità e conseguentemente sospesi dal comando e dal grado per un certo periodo. Forse la sua mancanza maggiore fu di aver rinunciato a proseguire la marcia per incontrare le altre due colonne, guidate rispettivamente dal generale Terry e dal colonnello Gibbon, ma non conosciamo fino in fondo le ragioni oggettive che gli fecero prendere questa decisione. E’ un fatto che, comportandosi così, sottrasse al già esiguo corpo di spedizione il 50 per cento della forza, costringendolo ad operare in territorio nemico con meno di 1.400 uomini, che si sarebbero ridotti a poco più di 1.100 dopo le perdite sofferte al Little Big Horn. Non solo, ma Crook omise di avvisare gli altri due contingenti – che si trovavano sul fiume Tongue, nel Montana - di essere stato battuto e di trovarsi nella valle del Goose Creek in attesa di eventuali rinforzi. Probabilmente i suoi portaordini non riuscirono a localizzare la colonna unificata di Terry e Gibbon. Crook era stato un grande protagonista del conflitto contro i Confederati e vantava l’indiscusso merito di avere sottomesso la maggior parte degli Apache in Arizona. Soltanto contro Geronimo, nell’ultima fase della disperata resistenza dei Chiricahua nel 1886, il generale avrebbe registrato un altro insuccesso come quello del Rosebud, rassegnando poi le dimissioni a favore del generale Nelson A. Miles, l’uomo che aveva sconfitto Cavallo Pazzo e costretto Toro Seduto a chiedere asilo politico in Canada.

Il Goose Creek Park è un luogo piacevole ed ameno, che si visita volentieri. Si incontrano scoiattoli che attraversano di corsa i prati verdissimi per arrampicarsi sugli alberi e si possono scorgere alcuni daini all’interno della zona recintata.

Quando raggiungiamo il pianoro su cui termina il nostro sentiero, attraverso la rete metallica vediamo anche quattro o cinque bisonti al pascolo. Non sono grossi come l’esemplare che ci apparve salendo verso le Black Hills ed hanno il manto più chiaro, ma sono degli ottimi rappresentanti di quella specie tanto cara agli Indiani. Come abbiamo detto in precedenza, oggi sono ridiventati sufficientemente numerosi e vivono in aree protette da leggi federali e statali, ma il loro numero è infinitamente inferiore a quello stimato intorno al 1850. “L’odierna distruzione del regno animale, come balene, foche, ecc. ” è il mio commento “dovrebbe farci riflettere anche sull’utilizzo esagerato delle ricchezze della nostra Terra, che con troppa incoscienza siamo portati ad immaginare eterne, come il petrolio, il metano ed altre preziose risorse. Le motoseghe stanno facendo fare alla foresta amazzonica - un oceano di legname solo in apparenza inesauribile - la fine dei bisonti. Nella prima metà dell’Ottocento vi erano forse trenta o quaranta milioni di questi bovini in America, ma sterminandoli al ritmo di migliaia al giorno, si finì per ridurli a poche centinaia. Ma forse l’uomo è un animale che non impara nulla dai propri errori.”

L’escursione dura circa un’ora, lasciandoci il nostalgico ricordo di un tuffo in un lontano passato, quando l’arrivo delle mandrie di bisonti era accolto festosamente da tutti gli Indiani delle Grandi Pianure situate fra il fiume Mississippi e le Montagne Rocciose. Per loro significava infatti mostrare le abilità venatorie individuali, ma soprattutto fare grandi provviste di carne, pellicce ed altre parti che servivano all’economia tribale.

Oggi quei bisonti sono lì dietro il recinto, indifferenti alle nostre macchine fotografiche mentre immortaliamo un altro pezzo della vera America – non quella dei grattacieli e del progresso più sfrenato – che porteremo con noi al ritorno.

L’America dei Pellirosse e delle carovane di pionieri, dei bisonti e delle sterminate mandrie di “longhorn” sospinte da spericolati cow-boys lungo le polverose piste del bestiame. L’America che ameremo avere sempre nel cuore.

 

Bisonti. Oggi quei bisonti sono lì dietro il recinto, indifferenti alle nostre macchine fotografiche mentre immortaliamo un altro pezzo della vera America – non quella dei grattacieli e del progresso più sfrenato – che porteremo con noi al ritorno.

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Cliccate sulle foto per vederle ingrandite.

Sotto: Paesaggio della Riserva dei Crow, nel Montana

Lungo la strada che attraversa le Riserve dei Crow e dei Northern Cheyenne, nel Montana

Bisonti nel Parco di Sheridan, Wyoming

Un bisonte fotografato nel Parco di Sheridan, Wyoming. Sullo sfondo la piscina di un centro sportivo

Domenico Rizzi vicino al cippo, situato nel Parco di Sheridan, che ricorda l’accampamento del generale Crook nel giugno 1876

Il sentiero che conduce all’area protetta dove vivono bisonti ed altri animali, nel Parco di Sheridan. Su uno dei pali di legno che delimitano la pista è visibile uno scoiattolo

Domenico Rizzi accanto alla recinzione che protegge i bisonti nel Parco di Sheridan, Wyoming

 

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