usk,
dicevamo, è una cittadina all’apparenza insignificante. I residenti
effettivi risultano meno di 1.500, ma con la gente di passaggio –
camionisti, viaggiatori e turisti - gli abitanti diventano un po’ di
più.
Per un appassionato di storia del
West, anche questi minuscoli centri hanno un significato. Dalla
breve conversazione con una graziosa addetta alla reception
dell’albergo che ci ospita e da un dèpliant sfogliato in fretta,
veniamo a sapere che la piccola oasi nel mare della prateria venne
fondata da persone capitate lì alla ricerca di giacimenti, al tempo
in cui i “prospectors” si erano già riversati a migliaia nelle Black
Hills per la stessa ragione. Svanita l’illusione, i sognatori
lasciarono il posto a gente più concreta, che intendeva utilizzare
la terra per impiantarvi le attività tradizionali, allevamento e
coltivazione del suolo.
Per quanto sia sempre stato un
grande estimatore di Sergio Leone, riconosco che il suo West non ha
mai rappresentato appieno la complessa realtà dell’epoca.
I pistoleri, i “bounty killers” e i
vendicatori impersonati da Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Charles
Bronson, i banditi come Ramon Rojo, El Indio e l’enigmatico Frank,
furono soltanto una minoranza marginale nel contesto della
colonizzazione, che mise in moto decine di migliaia di persone
comuni rimaste nell’anonimato, artefici della creazione di Stati
come il Wyoming.
Dopo un salutare bagno nella piccola
piscina dell’hotel e una serena notte di riposo, il viaggio riprende
in direzione nord-est, verso la prossima fermata di Hot Springs, nel
South Dakota, distante circa 150 chilometri.
Sarebbe ripetitivo descrivere il
tragitto, che si può sintetizzare in una espressione: “Prateria,
prateria, prateria!”. Si tratta in realtà di un esteso altopiano la
cui altitudine media supera quasi sempre i 1.000 metri, intervallato
raramente da colli e avvallamenti, con una vegetazione scarsissima.
L’arbusto più comune rimane la “sage-brush”, una pianta di salvia
selvatica dal profumo gradevole che troviamo dovunque.
Durante l’intero percorso, si
incrociano poche automobili ed un numero maggiore di grossi
autocarri a rimorchio. L’unica eccezione è rappresentata da un
solitario ciclista, un giovane coraggioso che ci precede a circa 70
chilometri dall’arrivo alla nostra destinazione, rammentandoci che
lo spirito pionieristico in America non è mai tramontato.
Hot Springs, nel South Dakota, è un
modesto agglomerato di oltre 4.000 abitanti, adagiato fra una serie
di boscose alture, su una delle quali campeggia il Civic Museum, che
la mia compagna ed io raggiungeremo a piedi nell’assolato
pomeriggio, sfidando una temperatura di 40 gradi. all’ombra.
La cittadina è’ attraversata da un
corso d’acqua di piccole dimensioni chiamato Fall River, che
delimita il parco dell’albergo da noi prenotato per il 22 e 23
luglio. Non potremmo propriamente definire un fiume quello che in
Lombardia viene chiamato “roggia”, un canale come se ne trovano
tanti in provincia di Pavia, donde derivano i miei natali. D’altro
canto non c’è da stupirsi di certe imprecisioni, se gli Americani
osano chiamare “colline” le Black Hills, montagne che raggiungono i
2200 metri di altitudine!
Una bella statua raffigurante un
bisonte rosso, collocata appena al di là del Fall River, alle spalle
dell’hotel, attira la nostra attenzione mentre percorriamo la strada
verso il museo. Osservo con piacere che questo simbolo del West
troneggia maestoso in ogni località (è anche l’emblema dello Stato
del Wyoming) rammentando ai visitatori che per secoli fu
l’incontrastato signore delle praterie, venerato dagli Indiani e
temuto perfino del terribile orso “grizzly”, uno degli animali più
forti e feroci d’America.
La visita al museo, dopo una frugale
colazione in un fast-food della Dairy Queen ed una lunga camminata
all’ombra degli alberi che fiancheggiano il corso del Fall, ci
riporta immediatamente all’atmosfera del vecchio West, fra manichini
di donne vestite con gli abiti dell’epoca, sedute su poltrone e
divani di camere arredate, stufe panciute, armi e suppellettili di
ogni genere, insieme a miriadi di fotografie e dipinti. Al piano
terra – il museo è distribuito su vari livelli - è ricostruito
perfettamente un antico ufficio postale, con gli sportelli provvisti
di sbarre e la cassaforte che un tempo custodiva i valori, all’epoca
in cui imperversavano bande come quella di Butch Cassidy e Sundance
Kid.
Durante una conversazione con
un’anziana impiegata del museo, approfitto per acquisire
informazioni riguardo alla riserva indiana che andremo a visitare
l’indomani, quella di Pine Ridge, territorio in cui abitano le tribù
dei Lakota-Sioux.
Benchè abbia un quadro abbastanza
chiaro della misera realtà che si presenterà ai nostri occhi, ho
tenuto in considerazione l’avvertimento di una poliziotta incontrata
in un’area di servizio prima di giungere ad Hot Springs. “La
riserva”, mi disse “non è sempre un luogo sicuro per un visitatore,
soprattutto di notte. Anche se i pericoli non sono maggiori che in
una grande città, è bene cercare di essere prudenti. Purtroppo si
verificano furti di automobili e di effetti personali.”
La signora del museo sottolinea
soltanto il fatto che la maggior parte della gente di Pine Ridge
vive in uno stato di estrema povertà, che l’alcoolismo è molto
diffuso e le autorità della riserva non riescono a tenere sotto
controllo il fenomeno.
Dai dati in mio possesso, so che il
territorio lakota è davvero come mi viene descritto, perché l’indice
di disoccupazione oscilla fra il 75 e l’85 per cento e l’abuso di
bevande alcoliche è un vizio inarrestabile dall’epoca
dell’istituzione delle riserve, negli ultimi due decenni
dell’Ottocento. Sebbene a tratti possa apparire eccessivamente
vittimista ed esagerato, il libro “Donna Lakota” di Mary Crow-Dog e
Richard Erdoes (pubblicato anche in Italia nel 1997) fornisce un
quadro realistico dei Sioux di oggi.
Il giorno dopo, il tragitto verso
Pine Ridge e la successiva tappa di Wounded Knee è di circa 128
chilometri, lungo una statale che si snoda in una pianura piatta ed
uniforme, interrotta a tratti da dolci colline erbose e da canyons.
Come già riscontrato nel Wyoming, sullo sfondo non si vedono quasi
mai dei boschi e soltanto qualche albero isolato interrompe di tanto
in tanto la monotonia del paesaggio. La temperatura si mantiene
sopra i 35 gradi centigradi.
Passiamo in auto, senza fermarci,
vicino alla Holy Rosary Mission, il luogo in cui è sepolto Nuvola
Rossa (vi sosteremo lungo la via del ritorno) e incrociamo la
deviazione che conduce ad un “casino” gestito dagli Indiani,
un’attività che ha preso piede un po’ in tutte le riserve negli
ultimi decenni.
A Pine Ridge, un villaggio di
casette per lo più di legno, abitato da 3.100 Sioux, c’è un discreto
movimento, ma nel complesso si tratta di una località incolore,
abbastanza deprimente.
Ciò che invece sorprende in questi
luoghi, in contrasto con il quadro da terzo mondo solitamente
tracciato sui libri e negli articoli di stampa, è il livello di
scolarizzazione della nuova generazione, decisamente elevato per una
riserva indiana. Infatti, la Red Cloud Indian School, intitolata al
grande condottiero oglala Nuvola Rossa, ha avuto quasi 400 iscritti
nel 2004 e i Sioux risultano, fra tutti i nativi americani delle
riserve, quelli che conseguono il maggior numero di diplomi di “high
school” (scuola superiore). Non a caso, in un dèpliant offerto
dall’albergo a Hot Springs, sopra la fotografia di Nuvola Rossa è
scritto: “Keeping the Promise” (mantenendo la promessa) e la
traduzione del sottotitolo suona così: “Dagli anni del 1880…fino
agli anni 2000 ed oltre…offrendo un’educazione di qualità ai ragazzi
Lakota nella Riserva Indiana di Pine Ridge”.
L’aspetto negativo è purtroppo, come
mi confermerà una ragazza oglala ad Holy Rosary Mission, l’abbandono
della lingua tradizionale a favore dell’inglese.
Wounded Knee è un posto dimesso,
come francamente mi aspettavo.
E’ la tarda mattinata del 23 luglio,
il caldo è elevato e il cielo sereno.
Nell’avvallamento in cui, il 29
dicembre 1890, i soldati del Settimo Cavalleria radunarono la tribù
di Grosso Piede – circa 330 persone - falcidiandola senza pietà al
primo accenno di ribellione, sono stati collocati due tabelloni di
legno di colore azzurro ormai sbiadito, recanti la scritta “Wounded
Knee Massacre” ed una sommaria descrizione dell’evento. Poco
distante, alcune donne indiane gestiscono una sorta di mercatino su
una bancarella sovrastata da un tetto di frasche e foglie, unico
riparo dal sole implacabile.
All’intorno, i colli e la pianura
sembrano deserti, salvo un “accampamento” di basse costruzioni in
metallo e plastica che si scorge ad una certa distanza. E’ il tipico
villaggio dei Sioux che non vivono in città e conservano
probabilmente abitudini nomadi, costituito da una serie di
“containers” smontabili e circondato da camioncini ed auto americane
di grossa cilindrata. La somiglianza con la struttura dei villaggi
“rom” che si trovano anche in Italia è notevole e le persone che vi
abitano sembrano avere qualcosa in comune con questa gente.
Mi avvicino alle donne che vendono
oggetti artigianali e saluto, alzando la mano con il palmo rivolto
verso di loro.
Spinto dalla suggestione del luogo,
per un attimo mi immedesimo in un interprete bianco dell’Ottocento,
come Mitch Bouyer o Frank Grouard e dico loro, servendomi del poco
lakota che conosco:: “Ho mita kola!”. E’ un segno di benvenuto, al
quale rispondono sorridendo allo stesso modo. “Mita kola!”.
Intuiscono subito la nostra provenienza europea e chiedono in
inglese da quale Paese siamo venuti. Poi una delle “squaw” mi dona
gentilmente la mappa della riserva indiana, indicando con un dito
dapprima il Visitor Center su una piccola altura rocciosa e quindi
il cimitero di Wounded Knee, adagiato sulla sommità di un altro
colle. In mezzo, ai piedi della strada sterrata che sale verso il
camposanto, vi è un “gazebo” molto più ampio costruito con pali e
frasche, sotto il quale si trovano una decina di persone, sia adulti
che bambini.
Prima che possiamo raggiungerlo, una
grossa auto si ferma al mio fianco e dal finestrino si affaccia una
donna di una cinquantina d’anni, che mi convince ad acquistare un
amuleto costruito a mano. Pago volentieri il modico prezzo e lo
acquisto: dopo il mio ritorno in Italia, lo porterò appeso
all’interno della mia auto, in ricordo di quel giorno memorabile. La
donna scende e acconsente a farsi fotografare insieme alla nipotina,
una graziosa bambina oglala di 4 o 5 anni, mentre la figlia è
rimasta alla guida del veicolo. Intanto, alle nostre spalle giungono
altre due coppie di turisti, che parcheggiano a poca distanza e si
dirigono verso il Visitor Center. Alcuni Indiani si avvicinano
subito anche a loro per vendere dei “souvenirs” come quello che ho
appena acquistato.
Memori dei consigli ricevuti da più
parti, teniamo d’occhio la nostra auto e non ci spostiamo mai tutti
insieme, ma in effetti nessuno dei Sioux sembra avere cattive
intenzioni nei nostri confronti. Benchè mi renda conto che molti
Americani nutrano ancora delle forti prevenzioni nei riguardi dei
Pellirosse, raccomando ai miei compagni di viaggio di osservare una
certa prudenza.
Una ragazza lakota, decisamente
attraente, mi viene incontro con un bambino in braccio, sorridendo.
A differenza delle altre donne ha i capelli di un castano chiaro che
sfuma nel biondo, ma il taglio degli occhi e gli zigomi sporgenti
sembrano confermare la sua origine inconfondibilmente indiana. Mi
permetto una battuta in italiano con i miei amici: “Ecco una squaw
bianca, rapita in qualche incursione fuori dalla riserva“, ma mi
viene difficile pensare che nel 2000 possano ancora accadere episodi
come quelli che ho descritto nel mio libro “Le schiave della
Frontiera”, quando donne bianche come Cynthia Ann Parker e Fanny
Kelly venivano catturate dai Pellirosse per diventare mogli di
famosi guerrieri.
Mentre sorrido a questo improbabile
acostamento, la ragazza ci invita ad andare verso la tettoia di
frasche, dove alcuni suoi contribali sostano al riparo dal sole. Le
rispondo che lo faremo senz’altro, dopo avere visto l’interno del
Visitor Center ed il cimitero sulla collina. Allora lei ritorna fra
la sua gente, siede su una panca e incomincia ad allattare il
proprio piccolo, mentre noi saliamo la breve stradina che conduce al
piccolo museo.
L’interno è piuttosto spoglio, con
pochi oggetti di interesse disposti sulle bancarelle insieme a pelli
di bisonte. Le pareti sono affrescate con ritratti di Toro Seduto e
di altri capi famosi della nazione lakota. L’unico Sioux che si
trova al suo interno è un anziano che pare immerso in preghiera e
rimane indifferente alla nostra visita. Su una parete vi è
l’immancabile scritta “American Indian Movement”, la fazione
politica che nel 1973 pilotò l’insurrezione di Pine Ridge, costata
due morti e diversi feriti e sedata dall’intervento degli agenti del
BIA (Bureau of Indian Affairs) appoggiati da reparti dell’esercito e
dell’F.B.I. Usciamo dopo avere scattato alcune fotografie e
scendiamo di nuovo nell’avvallamento per imboccare il polveroso
sentiero che porta al cimitero.
Quando giungiamo sull’altura,
l’impressione che ne abbiamo è del tutto sconfortante.
Personalmente - ma è anche
l’opinione dei miei compagni - mi sarei aspettato che un monumento
di questa importanza fosse tenuto con maggiore cura, come
meriterebbe un luogo carico di storia. Invece il camposanto sembra
in stato di abbandono, infestato da erbacce di ogni genere alte fino
a mezzo metro, che ricoprono tombe e vialetti, rendendo a volte
irriconoscibili le lapidi. Molte di esse sono in pessimo stato di
conservazione, disadorne e quasi ricoperte da piante infestanti,
nonostante vi siano sepolti anche Indiani deceduti pochi anni fa.
Dalla strada polverosa antistante il
cimitero, faccio scorrere lo sguardo sulla vallata, soffermandomi
per un istante sul gruppetto di Lakota che staziona all’ombra del
“gazebo”. Mi chiedo perché mai questa gente si disinteressi a tal
punto del luogo in cui giacciono le ossa dei loro famigliari.
Eppure, come scrive Mary Crow-Dog nel libro autobiografico citato,
fra i Lakota i legami famigliari sono sempre stati molto stretti.
Mentre discendo per primo il
sentiero, incrocio di nuovo la ragazza dai capelli chiari che sta
salendo da sola. Mi saluta senza fermarsi, mostrandomi ancora il suo
affabile sorriso. Soltanto chi leggerà un mio romanzo ambientato in
queste zone, la cui protagonista è proprio una ragazza oglala (ma ho
completato questo libro, tuttora inedito, prima di visitare la
riserva!) potrà comprendere il mio platonico interesse per questa
creatura dall’aspetto così inconsueto. Per ironia della sorte, il
negativo dell’unica fotografia che la ritrae con il bambino in
braccio è risultato danneggiato.
Ho amato gli Indiani fin da bambino
e la vista di Wounded Knee mi ha quasi lasciato il magone, sebbene
non mi aspettassi che fosse molto diverso.
Raggiunto il “gazebo” più grande,
chiedo ai Sioux di lasciarsi fotografare. Accettano di buon grado ed
uno di essi mi chiede un contributo per la causa dei nativi,
sostenuta dall’American Indian Movement. Quindi, mentre torniamo
verso l’auto per ripartire, i Lakota ci salutano cordialmente
agitando le mani,.
Percorse le poche decine di metri
verso la vallata, per immetterci sulla strada del ritorno,
incontriamo per la prima volta la Polizia Indiana della Riserva.
Sono due uomini che stanno risalendo sulla loro auto provvista di
lampeggiante sul tetto, come le macchine della polizia americana.
Non indossano alcuna uniforme e riusciamo appena a vederli mentre
ripartono in direzione di Pine Ridge.
I rapporti dei poliziotti sioux con
la loro gente furono assai difficili per parecchi decenni, dopo che
Testa di Toro, Testa Rasata e Tomahawk Rosso uccisero il grande
condottiero Toro Seduto a Standing Rock, durante la tentata
insurrezione del 14 dicembre 1890. L’avversione per gli agenti
indiani in divisa riaffiorò anche nel corso degli incidenti
scoppiati trentadue anni fa, quando gli insorti resistettero alle
forze dell’ordine per 67 giorni. In quell’occasione la Polizia della
riserva fu accusata, fra l’altro, di proteggere gli interessi degli
allevatori bianchi del South Dakota.
Oggi probabilmente gli antichi
rancori si sono un po’ attenuati e la maggior parte dei giovani non
manifesta interesse alle tradizioni storiche tribali, più di quanto
ne dimostrino le nuove generazioni del mondo industrializzato,
Italia compresa. La cultura di tipo “pratico” sta diluendo sempre di
più i legami con il nostro passato, in nome di una non ben definita
globalizzazione del sapere, basata su nozioni di stretta attualità
che ci allontanano sempre più dalla storia. Non era certamente
questo l’auspicio di Marshall T. Mc Luhan, quando diede alle stampe
il suo “Villaggio globale”, negli Anni Sessanta del Novecento.
Percorriamo alcune miglia, mentre i
miei compagni di viaggio commentano la brutta impressione che il
cimitero di Wounded Knee ha lasciato: “Nessuno, dalle nostre parti,
trascurerebbe così il camposanto dove sono sepolti i propri
famigliari…!”
Faccio una breve pausa, guardando
nello specchietto retrovisore la collina di Wounded Knee che
scompare in lontananza, dissolvendosi insieme all’immagine degli
Indiani seduti sotto il “gazebo”, della donna che mi ha venduto il
talismano e della strana ragazza dai capelli chiari.
Mi tornano alla memoria le parole
pronunciate da Alce Nero nel celebre libro “Black Elk Speaks” curato
da John G. Neihardt, a proposito di Wounded Knee: “Lassù morì il
sogno di un popolo. Era stato un bel sogno.”
Forse, è anche questa una delle
ragioni: il sogno non esiste più.
Per un lungo
tratto di strada, mentre l’auto procede fra le praterie erbose in
direzione di Pine Ridge, non mi sento di fare commenti.