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A cura di Domenico Rizzi

Seconda parte del viaggio

L

usk, dicevamo, è una cittadina all’apparenza insignificante. I residenti effettivi risultano meno di 1.500, ma con la gente di passaggio – camionisti, viaggiatori e turisti - gli abitanti diventano un po’ di più.

Per un appassionato di storia del West, anche questi minuscoli centri hanno un significato. Dalla breve conversazione con una graziosa addetta alla reception dell’albergo che ci ospita e da un dèpliant sfogliato in fretta, veniamo a sapere che la piccola oasi nel mare della prateria venne fondata da persone capitate lì alla ricerca di giacimenti, al tempo in cui i “prospectors” si erano già riversati a migliaia nelle Black Hills per la stessa ragione. Svanita l’illusione, i sognatori lasciarono il posto a gente più concreta, che intendeva utilizzare la terra per impiantarvi le attività tradizionali, allevamento e coltivazione del suolo. 

Per quanto sia sempre stato un grande estimatore di Sergio Leone, riconosco che il suo West non ha mai rappresentato appieno la complessa realtà dell’epoca.

I pistoleri, i “bounty killers” e i vendicatori impersonati da Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Charles Bronson, i banditi come Ramon Rojo, El Indio e l’enigmatico Frank, furono soltanto una minoranza marginale nel contesto della colonizzazione, che mise in moto decine di migliaia di persone comuni rimaste nell’anonimato, artefici della creazione di Stati come il Wyoming.

Dopo un salutare bagno nella piccola piscina dell’hotel e una serena notte di riposo, il viaggio riprende in direzione nord-est, verso la prossima fermata di Hot Springs, nel South Dakota, distante circa 150 chilometri.

Sarebbe ripetitivo descrivere il tragitto, che si può sintetizzare in una espressione: “Prateria, prateria, prateria!”. Si tratta in realtà di un esteso altopiano la cui altitudine media supera quasi sempre i 1.000 metri, intervallato raramente da colli e avvallamenti, con una vegetazione scarsissima. L’arbusto più comune rimane la “sage-brush”, una pianta di salvia selvatica dal profumo gradevole che troviamo dovunque.

Durante l’intero percorso, si incrociano poche automobili ed un numero maggiore di grossi autocarri a rimorchio. L’unica eccezione è rappresentata da un solitario ciclista, un giovane coraggioso che ci precede a circa 70 chilometri dall’arrivo alla nostra destinazione, rammentandoci che lo spirito pionieristico in America non è mai tramontato.

Hot Springs, nel South Dakota, è un modesto agglomerato di oltre 4.000 abitanti, adagiato fra una serie di boscose alture, su una delle quali campeggia il Civic Museum, che la mia compagna ed io raggiungeremo a piedi nell’assolato pomeriggio, sfidando una temperatura di 40 gradi. all’ombra.

La cittadina è’ attraversata da un corso d’acqua di piccole dimensioni chiamato Fall River, che delimita il parco dell’albergo da noi prenotato per il 22 e 23 luglio. Non potremmo propriamente definire un fiume quello che in Lombardia viene chiamato “roggia”, un canale come se ne trovano tanti in provincia di Pavia, donde derivano i miei natali. D’altro canto non c’è da stupirsi di certe imprecisioni, se gli Americani osano chiamare “colline” le Black Hills, montagne che raggiungono i 2200 metri di altitudine!

Una bella statua raffigurante un bisonte rosso, collocata appena al di là del Fall River, alle spalle dell’hotel, attira la nostra attenzione mentre percorriamo la strada verso il museo. Osservo con piacere che questo simbolo del West troneggia maestoso in ogni località (è anche l’emblema dello Stato del Wyoming) rammentando ai visitatori che per secoli fu l’incontrastato signore delle praterie, venerato dagli Indiani e temuto perfino del terribile orso “grizzly”, uno degli animali più forti e feroci d’America.

La visita al museo, dopo una frugale colazione in un fast-food della Dairy Queen ed una lunga camminata all’ombra degli alberi che fiancheggiano il corso del Fall, ci riporta immediatamente all’atmosfera del vecchio West, fra manichini di donne vestite con gli abiti dell’epoca, sedute su poltrone e divani di camere arredate, stufe panciute, armi e suppellettili di ogni genere, insieme a miriadi di fotografie e dipinti. Al piano terra – il museo è distribuito su vari livelli - è ricostruito perfettamente un antico ufficio postale, con gli sportelli provvisti di sbarre e la cassaforte che un tempo custodiva i valori, all’epoca in cui imperversavano bande come quella di Butch Cassidy e Sundance Kid.

Durante una conversazione con un’anziana impiegata del museo, approfitto per acquisire informazioni riguardo alla riserva indiana che andremo a visitare l’indomani, quella di Pine Ridge, territorio in cui abitano le tribù dei Lakota-Sioux.

Benchè abbia un quadro abbastanza chiaro della misera realtà che si presenterà ai nostri occhi, ho tenuto in considerazione l’avvertimento di una poliziotta incontrata in un’area di servizio prima di giungere ad Hot Springs. “La riserva”, mi disse “non è sempre un luogo sicuro per un visitatore, soprattutto di notte. Anche se i pericoli non sono maggiori che in una grande città, è bene cercare di essere prudenti. Purtroppo si verificano furti di automobili e di effetti personali.”

La signora del museo sottolinea soltanto il fatto che la maggior parte della gente di Pine Ridge vive in uno stato di estrema povertà, che l’alcoolismo è molto diffuso e le autorità della riserva non riescono a tenere sotto controllo il fenomeno.

Dai dati in mio possesso, so che il territorio lakota è davvero come mi viene descritto, perché l’indice di disoccupazione oscilla fra il 75 e l’85 per cento e l’abuso di bevande alcoliche è un vizio inarrestabile dall’epoca dell’istituzione delle riserve, negli ultimi due decenni dell’Ottocento. Sebbene a tratti possa apparire eccessivamente vittimista ed esagerato, il libro “Donna Lakota” di Mary Crow-Dog e Richard Erdoes (pubblicato anche in Italia nel 1997) fornisce un quadro realistico dei Sioux di oggi.

Il giorno dopo, il tragitto verso Pine Ridge e la successiva tappa di Wounded Knee è di circa 128 chilometri, lungo una statale che si snoda in una pianura piatta ed uniforme, interrotta a tratti da dolci colline erbose e da canyons. Come già riscontrato nel Wyoming, sullo sfondo non si vedono quasi mai dei boschi e soltanto qualche albero isolato interrompe di tanto in tanto la monotonia del paesaggio. La temperatura si mantiene sopra i 35 gradi centigradi.

Passiamo in auto, senza fermarci, vicino alla Holy Rosary Mission, il luogo in cui è sepolto Nuvola Rossa (vi sosteremo lungo la via del ritorno) e incrociamo la deviazione che conduce ad un “casino” gestito dagli Indiani, un’attività che ha preso piede un po’ in tutte le riserve negli ultimi decenni.

A Pine Ridge, un villaggio di casette per lo più di legno, abitato da 3.100 Sioux, c’è un discreto movimento, ma nel complesso si tratta di una località incolore, abbastanza deprimente.

Ciò che invece sorprende in questi luoghi, in contrasto con il quadro  da terzo mondo solitamente tracciato sui libri e negli articoli di stampa, è il livello di scolarizzazione della nuova generazione, decisamente elevato per una riserva indiana. Infatti, la Red Cloud Indian School, intitolata al grande condottiero oglala Nuvola Rossa, ha avuto quasi 400 iscritti nel 2004 e i Sioux risultano, fra tutti i nativi americani delle riserve, quelli che conseguono il maggior numero di diplomi di “high school” (scuola superiore). Non a caso, in un dèpliant offerto dall’albergo a Hot Springs, sopra la fotografia di Nuvola Rossa è scritto: “Keeping the Promise” (mantenendo la promessa) e la traduzione del sottotitolo  suona così: “Dagli anni del 1880…fino agli anni 2000 ed oltre…offrendo un’educazione di qualità ai ragazzi Lakota nella Riserva Indiana di Pine Ridge”.

L’aspetto negativo è purtroppo, come mi confermerà una ragazza oglala ad Holy Rosary Mission, l’abbandono della lingua tradizionale a favore dell’inglese.

Wounded Knee è un posto dimesso, come francamente mi aspettavo.

E’ la tarda mattinata del 23 luglio, il caldo è elevato e il cielo sereno.

Nell’avvallamento in cui, il 29 dicembre 1890, i soldati del Settimo Cavalleria radunarono la tribù di Grosso Piede – circa 330 persone -  falcidiandola senza pietà al primo accenno di ribellione, sono stati collocati due tabelloni di legno di colore azzurro ormai sbiadito, recanti la scritta “Wounded Knee Massacre” ed una sommaria descrizione dell’evento. Poco distante, alcune donne indiane gestiscono una sorta di mercatino su una bancarella sovrastata da un tetto di frasche e foglie, unico riparo dal sole implacabile.

All’intorno, i colli e la pianura sembrano deserti, salvo un “accampamento” di basse costruzioni in metallo e plastica che si scorge ad una certa distanza. E’ il tipico villaggio dei Sioux che non vivono in città e conservano probabilmente abitudini nomadi, costituito da una serie di “containers” smontabili e circondato da camioncini ed auto americane di grossa cilindrata. La somiglianza con la struttura dei villaggi “rom” che si trovano anche in Italia è notevole e le persone che vi abitano sembrano avere qualcosa in comune con questa gente.

Mi avvicino alle donne che vendono oggetti artigianali e saluto, alzando la mano con il palmo rivolto verso di loro.

Spinto dalla suggestione del luogo, per un attimo mi immedesimo in un interprete bianco dell’Ottocento, come Mitch Bouyer o Frank Grouard e dico loro, servendomi del poco lakota che conosco:: “Ho mita kola!”. E’ un segno di benvenuto, al quale rispondono sorridendo allo stesso modo. “Mita kola!”. Intuiscono subito la nostra provenienza europea e chiedono in inglese da quale Paese siamo venuti. Poi una delle “squaw” mi dona gentilmente la mappa della riserva indiana, indicando con un dito dapprima il Visitor Center su una piccola altura rocciosa e quindi il cimitero di Wounded Knee, adagiato sulla sommità di un altro colle. In mezzo, ai piedi della strada sterrata che sale verso il camposanto, vi è un “gazebo” molto più ampio costruito con pali e frasche, sotto il quale si trovano una decina di persone, sia adulti che bambini.

Prima che possiamo raggiungerlo, una grossa auto si ferma al mio fianco e dal finestrino si affaccia una donna di una cinquantina d’anni, che mi convince ad acquistare un amuleto costruito a mano. Pago volentieri il modico prezzo e lo acquisto: dopo il mio ritorno in Italia, lo porterò appeso all’interno della mia auto, in ricordo di quel giorno memorabile. La donna scende e acconsente a farsi fotografare insieme alla nipotina, una graziosa bambina oglala di 4 o 5 anni, mentre la figlia è rimasta alla guida del veicolo. Intanto, alle nostre spalle giungono altre due coppie di turisti, che parcheggiano a poca distanza e si dirigono verso il Visitor Center. Alcuni Indiani si avvicinano subito anche a loro per vendere dei “souvenirs” come quello che ho appena acquistato.

Memori dei consigli ricevuti da più parti, teniamo d’occhio la nostra auto e non ci spostiamo mai tutti insieme, ma in effetti nessuno dei Sioux sembra avere cattive intenzioni nei nostri confronti. Benchè mi renda conto che molti Americani nutrano ancora delle forti prevenzioni nei riguardi dei Pellirosse, raccomando ai miei compagni di viaggio di osservare una certa prudenza.

Una ragazza lakota, decisamente attraente, mi viene incontro con un bambino in braccio, sorridendo. A differenza delle altre donne ha i capelli di un castano chiaro che sfuma nel biondo, ma il taglio degli occhi e gli zigomi sporgenti sembrano confermare la sua origine inconfondibilmente indiana. Mi permetto una battuta in italiano con i miei amici: “Ecco una squaw bianca, rapita in qualche incursione fuori dalla riserva“, ma mi viene difficile pensare che nel 2000 possano ancora accadere episodi come quelli che ho descritto nel mio libro “Le schiave della Frontiera”, quando donne bianche come Cynthia Ann Parker e Fanny Kelly venivano catturate dai Pellirosse per diventare mogli di famosi guerrieri.

Mentre sorrido a questo improbabile acostamento, la ragazza ci invita ad andare verso la tettoia di frasche, dove alcuni suoi contribali sostano al riparo dal sole. Le rispondo che lo faremo senz’altro, dopo avere visto l’interno del Visitor Center ed il cimitero sulla collina. Allora lei ritorna fra la sua gente, siede su una panca e incomincia ad allattare il proprio piccolo, mentre noi saliamo la breve stradina che conduce al piccolo museo. 

L’interno è piuttosto spoglio, con pochi oggetti di interesse disposti sulle bancarelle insieme a pelli di bisonte. Le pareti sono affrescate con ritratti di Toro Seduto e di altri capi famosi della nazione lakota. L’unico Sioux che si trova al suo interno è un anziano che pare immerso in preghiera e rimane indifferente alla nostra visita. Su una parete vi è l’immancabile  scritta “American Indian Movement”, la fazione politica che nel 1973 pilotò l’insurrezione di Pine Ridge, costata due morti e diversi feriti e sedata dall’intervento degli agenti del BIA (Bureau of Indian Affairs) appoggiati da reparti dell’esercito e dell’F.B.I. Usciamo dopo avere scattato alcune fotografie e scendiamo di nuovo nell’avvallamento per imboccare il polveroso sentiero che porta al cimitero.

Quando giungiamo sull’altura, l’impressione che ne abbiamo è del tutto sconfortante. 

Personalmente - ma è anche l’opinione dei miei compagni - mi sarei aspettato che un monumento di questa importanza fosse tenuto con maggiore cura, come meriterebbe un luogo carico di storia. Invece il camposanto sembra in stato di abbandono, infestato da erbacce di ogni genere alte fino a mezzo metro, che ricoprono tombe e vialetti, rendendo a volte irriconoscibili le lapidi. Molte di esse sono in pessimo stato di conservazione, disadorne e quasi ricoperte da piante infestanti, nonostante vi siano sepolti anche Indiani deceduti pochi anni fa.

Dalla strada polverosa antistante il cimitero, faccio scorrere lo sguardo sulla vallata, soffermandomi per un istante sul gruppetto di Lakota che staziona all’ombra del “gazebo”. Mi chiedo perché mai questa gente si disinteressi a tal punto del luogo in cui giacciono le ossa dei loro famigliari. Eppure, come scrive Mary Crow-Dog nel libro autobiografico citato, fra i Lakota i legami famigliari sono sempre stati molto stretti. 

Mentre discendo per primo il sentiero, incrocio di nuovo la ragazza dai capelli chiari che sta salendo da sola. Mi saluta senza fermarsi, mostrandomi ancora il suo affabile sorriso. Soltanto chi leggerà un mio romanzo ambientato in queste zone, la cui protagonista è proprio una ragazza oglala (ma ho completato questo libro, tuttora inedito, prima di visitare la riserva!) potrà comprendere il mio platonico interesse per questa creatura dall’aspetto così inconsueto. Per ironia della sorte, il negativo dell’unica fotografia che la ritrae con il bambino in braccio è risultato danneggiato.

Ho amato gli Indiani fin da bambino e la vista di Wounded Knee mi ha quasi lasciato il magone, sebbene non mi aspettassi che fosse molto diverso.

Raggiunto il “gazebo” più grande, chiedo ai Sioux di lasciarsi fotografare. Accettano di buon grado ed uno di essi mi chiede un contributo per la causa dei nativi, sostenuta dall’American Indian Movement. Quindi, mentre torniamo verso l’auto per ripartire, i Lakota ci salutano cordialmente agitando le mani,.

Percorse le poche decine di metri verso la vallata, per immetterci sulla strada del ritorno, incontriamo per la prima volta la Polizia Indiana della Riserva. Sono due uomini che stanno risalendo sulla loro auto provvista di lampeggiante sul tetto, come le macchine della polizia americana. Non indossano alcuna uniforme e riusciamo appena a vederli mentre ripartono in direzione di Pine Ridge.

I rapporti dei poliziotti sioux con la loro gente furono assai difficili per parecchi decenni, dopo che Testa di Toro, Testa Rasata e Tomahawk Rosso uccisero il grande condottiero Toro Seduto a Standing Rock, durante la tentata insurrezione del 14 dicembre 1890. L’avversione per gli agenti indiani in divisa riaffiorò anche nel corso degli incidenti scoppiati trentadue anni fa, quando gli insorti resistettero alle forze dell’ordine per 67 giorni. In quell’occasione la Polizia della riserva fu accusata, fra l’altro, di proteggere gli interessi degli allevatori bianchi del South Dakota.

Oggi probabilmente gli antichi rancori si sono un po’ attenuati e la maggior parte dei giovani non manifesta interesse alle tradizioni storiche tribali, più di quanto ne dimostrino le nuove generazioni del mondo industrializzato, Italia compresa. La cultura di tipo “pratico” sta diluendo sempre di più i legami con il nostro passato, in nome di una non ben definita globalizzazione del sapere, basata su nozioni di stretta attualità che ci allontanano sempre più dalla storia. Non era certamente questo l’auspicio di Marshall T. Mc Luhan, quando diede alle stampe il suo “Villaggio globale”, negli Anni Sessanta del Novecento.

Percorriamo alcune miglia, mentre i miei compagni di viaggio commentano la brutta impressione che il cimitero di Wounded Knee ha lasciato: “Nessuno, dalle nostre parti, trascurerebbe così il camposanto dove sono sepolti i propri famigliari…!”

Faccio una breve pausa, guardando nello specchietto retrovisore la collina di Wounded Knee che scompare in lontananza, dissolvendosi insieme all’immagine degli Indiani seduti sotto il “gazebo”, della donna che mi ha venduto il talismano e della strana ragazza dai capelli chiari.  

Mi tornano alla memoria le parole pronunciate da Alce Nero nel celebre libro “Black Elk Speaks” curato da John G. Neihardt, a proposito di Wounded Knee: “Lassù morì il sogno di un popolo. Era stato un bel sogno.” 

Forse, è anche questa una delle ragioni: il sogno non esiste più.

Per un lungo tratto di strada, mentre l’auto procede fra le praterie erbose in direzione di Pine Ridge, non mi sento di fare commenti.

 

Vero West. Volevamo vedere con i nostri occhi le antiche piste degli emigranti diretti verso l’Ovest, i luoghi delle battaglie con gli indiani, le cittadine di Frontiera dove personaggi come Wild Bill Hickok incutevano timore soltanto con lo sguardo.

***

Cliccate sulle foto per vederle ingrandite.

Sotto: La via principale di Lusk, nel Wyoming

Il Fall River a Hot Springs, nel South Dakota

Una statua dedicata al bisonte, Hot Springs, South Dakota

Domenico Rizzi a Wounded Knee, Riserva di Pine Ridge, nel South Dakota

Domenico Rizzi con un'indiana Oglala e la nipotina a WOunded Knee, South Dakota

Il cimitero di Wounded Knee, con la chiesetta sullo sfondo, teatro degli scontri del 1973

Indiani Lakota sotto un gazebo, salutano la partenza di Domenico Rizzi e del suo gruppo da Wounded Knee

 

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