a mattina del 25 luglio, mentre
esploriamo per l’ultima volta il caratteristico centro di Deadwood,
le nubi che si erano addensate nel cielo la sera precedente non si
sono ancora dissipate. Pioviggina, la temperatura si è attestata
intorno ai 22 gradi ed il clima secco delle pianure sembra già un
ricordo.
Finalmente,
verso mezzogiorno, ci decidiamo a lasciare questo luogo storico,
perché la prossima tappa con pernottamento si trova a Sheridan, nel
Wyoming del nord, a 350 chilometri da dove ci troviamo ora.
L’intenzione
sarebbe di deviare leggermente dal percorso stabilito per vedere
anche la meraviglia della Devil’s Tower, diventata famosa in tutto
il mondo dopo che Steven Spielberg vi girò il suo film “Incontri
ravvicinati del terzo tipo”, nel 1977. Purtroppo, un denso strato di
nubi molto basse avvolge completamente le montagne e rinunciamo a
questa visita, dopo avere annullato la possibile escursione a Fort
Meade, poco distante da Deadwood, il presidio a cui venne assegnato
il maggiore Marcus Reno successivamente alla battaglia di Little Big
Horn.
L’unica pausa
che ci concediamo è a Gillette, nel Wyoming, ma soltanto per
rifornirci di carburante. Dal momento che il viaggio procede senza
intoppi, attraverso una distesa infinita di praterie, decidiamo
anche di fare uno spuntino nel fast-food adiacente l’area di
servizio. Poi, con calma, si riprende la marcia, alternandoci, il
mio amico ed io, alla guida della grossa Buick.
Giungiamo a
Sheridan verso le 15, imboccando subito, all’uscita dall’autostrada,
la North Main Street, il viale lungo cui è situato il mega-albergo
che ci ospiterà fino al 27 luglio. Da un po’ di tempo ha ripreso a
piovere, con tuoni e lampi, ma poi la una pioggia riprende a cadere
solo a tratti, talmente fine da poter fare a meno dell’ombrello.
Dopo esserci sistemati nelle camere, osserviamo incuriositi un folto
gruppo di motociclisti, di ambo i sessi e quasi tutti di età
superiore ai 40 anni, che si sono radunati a poca distanza dalla
piscina dell’hotel. Possiedono moto Harley Davidson e si apprestano
a raggiungere le Black Hills, dove è stato programmato un grosso
meeting. Scambiamo qualche parola con loro e prendiamo delle foto,
poi ci incamminiamo lungo la Main Street, una strada molto larga,
costellata di negozi di ogni genere. Ci attirano in particolare
alcuni monumenti recenti dedicati a cow-boys ed esploratori e
affreschi murali sui quali campeggiano immancabilmente sia la figura
di Buffalo Bill, che quella del generale Custer. Quest’ultima mi fa
rammentare che il giorno dopo ci recheremo nel Montana, a Little Big
Horn, dove, il 25 e 26 giugno 1876, oltre un terzo del Settimo
Cavalleria cadde sotto gli implacabili colpi degli Indiani di Toro
Seduto e Cavallo Pazzo.
Un brivido mi
percorre la schiena, ma non sono certo la diminuita temperatura, né
l’umidità provocata dalla pioggia a causarmelo.
Dopo avere
pubblicato 4 libri su questo importantissimo evento, è difficile
rimanere insensibili alla prospettiva di mettere realmente piede in
uno dei più celebri campi di battaglia della storia. Tuttavia, per
ora ci godiamo la cittadina dove abbiamo fatto sosta.
Sheridan venne
fondata nei primi Anni Ottanta dell’Ottocento dal postmaster John D.
Loucks, che ne fu anche il primo sindaco dal 1884 al 1887, organizzò
la scuola e la Chiesa Metodista locali e creò, insieme all’editore
Tom Cotton, il giornale “Sheridan Post”. La città, che oggi ha
16.000 abitanti, deve il proprio nome al luogotenente generale
Philip Henry Sheridan (1831-1888) comandante della Divisione del
Missouri nel periodo più caldo delle campagne contro i Pellirosse,
dal 1869 al 1879. La storia lo ricorda anche per una battuta,
pronunciata in risposta alle parole del capo comanche Tosawi, che si
era dichiarato un “Indiano buono”. Secondo quanto annotò nel proprio
taccuino il tenente Charles Nordstrom, presente all’incontro,
Sheridan gli ribattè: “Il solo Indiano buono che io conosca è quello
morto!”
Io e la mia
compagna entriamo in un classico saloon con un ampio bancone di
legno scuro e gli arredi in pieno stile western. Mentre aspettiamo
che ci servano qualcosa da bere, osserviamo la quantità di
fotografie di rodei, le copie di vecchi giornali e cimeli vari
appesi alla parete che sta alle nostre spalle. In alto, sono sospese
parecchie teste di cervo, alce e daino, oltre alle armi e
attrezzature da caccia dell’epoca. Una pagina ingiallita del
“Tribune Extra” di Bismarck, Territorio del Dakota (i due Stati
separati del North e South Dakota nacquero soltanto nel 1889) datata
6 luglio 1876, reca il titolo “First Account of the Custer Massacre”,
scrivendo che le vittime della battaglia sono state oltre 300. In
seguito si appurerà che i caduti effettivi furono 261, mentre altri
4 militari, fra i quali il giovane sottotenente Henry M. Harrington,
non verranno mai più ritrovati, portando a 265 il conto totale delle
perdite americane. “Domani” dico alla mia compagna “vedremo da
vicino il luogo in cui gli Indiani ottennero una delle maggiori
vittorie della loro storia, che segnò anche l’inizio di un
inevitabile declino.” Mi chiede: “Che cosa ti aspetti di scoprire,
oltre a quello che già conosci?” La mia risposta è ovvia: “Trovare
conferma a tutto ciò che ho scritto finora sull’argomento. Custer
commise un’imprudenza, ma molte circostanze lo spinsero all’errore.
Credeva che gli Indiani stessero per fuggire e prese l’unica
decisione possibile per un militare: cercare di impedirglielo. Del
resto il comandante delle operazioni, genrale Alfred H. Terry, non
gli aveva dato consegne troppo specifiche.”
Mentre usciamo
dal locale, mi sento di aggiungere un’altra precisazione:
“Probabilmente si fidò eccessivamente di alcuni suoi ufficiali,
soprattutto del capitano Frederick Benteen, con il quale non era in
buoni rapporti da tempo. Come hai letto nel mio ultimo libro,
‘Monahseetah e il generale Custer’ fu Benteen a rendere di pubblico
dominio la notizia che il generale avesse un’amante indiana, con
l’evidente intenzione di screditare il suo superiore.”
Little Big Horn
Battlefield – chiamato un tempo Custer Battlefield - si trova circa
130 chilometri a nord di Sheridan, all’interno della riserva dei
Crow, una tribù di lingua sioux sempre in lotta sia con la nazione
lakota, quanto con i Cheyenne.
Seguendo la
Interstate 87 entriamo nel Montana, lo “Stato del Grande Cielo”,
denominato anche “Oro y Plata” (oro e argento) per le ricchissime
risorse di metalli preziosi che furono alla base della
colonizzazione del suo territorio.
Effettivamente,
scrutando il cielo dal posto di guida dell’auto, si è
un’indescrivibile sensazione di immenso, che giustifica
l’appellativo.
L’ingresso nella
Riserva Crow, come anche in quella dei Sioux visitata pochi giorni
prima, è del tutto libero e soltanto un cartello stradale di colore
verde avverte che si sta entrando in territorio indiano.
Raggiungiamo
Little Big Horn in poco più di un’ora, mentre il tempo è ritornato
bello e il sole è caldissimo. Nella località più famosa del West,
notiamo subito un gran numero di auto di tutte le provenienze e
l’ansia di visitare la collina su cui caddero gli uomini del Settimo
è fortissima. Dopo aver pagato il pedaggio d’ingresso e posteggiata
l’auto, scorgo l’imponente monumento che si erge su un’altura poco
distante e stento ad impormi di vedere prima il Visitor Center, che
è gremito di persone.
All’interno vi
sono cartine e plastici della battaglia, fucili, pistole, armi
tradizionali degli Indiani, molte fotografie, libri ed opuscoli. I
Crow che lo gestiscono sono cortesi e forniscono volentieri le
informazioni. Chiamano se stessi Apsalooke e appartengono al
medesimo ceppo siouan dei Lakota, dei quali furono nemici almeno per
un secolo. Molti di loro – 176 per l’esattezza - presero parte, come
ausiliari del generale George F. Crook, alla battaglia del fiume
Rosebud il 16 giugno 1876, nella quale le truppe americane furono
respinte da Toro Seduto e ripiegarono verso il Goose Creek. Nove
giorni dopo, Custer portò con sé 35 scout indiani, appartenenti alle
tribù dei Crow e degli Arikara, tradizionali nemici dei Sioux.
All’esterno del
centro, parecchie decine di persone ascoltano un “ranger” che spiega
la dinamica della battaglia, ma noi preferiamo incamminarci, insieme
ad altri turisti, lungo il breve sentiero che conduce al monumento
sull’altura.
Da lassù si
domina tutta la vallata del fiume Little Big Horn, quasi
completamente nascosto dagli alberi, proprio com’era già nel 1876.
La mia macchina fotografica d’emergenza, una usa-e-getta acquistata
al modico prezzo di 8 dollari proprio al Visitor Center, entra
subito in funzione. L’emozione è alle stelle: sotto i miei occhi, in
un camposanto recintato, vi sono le lapidi di George Armstrong
Custer – l’unica contraddistinta da una targa incisa su sfondo nero
– del capitano Myles W. Keogh, l’impetuoso irlandese che aveva
combattuto in Italia contro i Piemontesi nel battaglione irlandese
che difendeva Ancona; dell’aiutante William Cooke, di Thomas e
Boston Custer, fratelli minori del generale. Su questo colle, si
difesero gli ultimi 42 soldati del contingente condotto da “Capelli
Gialli”, disposti a quadrato per far fronte ad una marea di Indiani.
Da un sentiero
sterrato è possibile scendere verso la vallata e ci accingiamo
subito a farlo, notando, mentre camminiamo sotto un sole cocente,
diverse lapidi sparse. Tranne una, che è posta nel bel mezzo del
sentiero, tutte si trovano ai lati del percorso. Un altro
particolare è che tutte recano l’identica scritta: “Soldato del
Settimo Cavalleria”. Infatti, l’aspetto più triste e sconvolgente
dell’episodio è che quasi tutti i cadaveri vennero fatti a pezzi
dagli Indiani, che, dopo averli denudati, li privarono di gambe,
braccia, teste e organi genitali. Come scrisse Alce Nero, simili
operazioni di “bassa macelleria” toccavano quasi sempre alle donne.
Tutti i corpi, tranne quelli di
Custer e del capitano Keogh, furono deturpati, lasciando tuttora
aperto un mistero che ho cercato di spiegare proprio nel mio libro
su Monahseetah e Custer, pubblicato in Italia nel 2005. Forse,
benchè sembri azzardato, fu proprio questa ragazza cheyenne che
impedì alle altre donne, salite sul colle per compiere lo scempio di
mutilare il corpo senza vita del suo amante di un tempo, anche
perché probabilmente lei era una delle poche che lo conosceva. Le
altre congetture formulate da parecchi studiosi – che Custer fosse
stato risparmiato in ossequio al suo coraggio – trovarono decine di
smentite fra gli stessi combattenti indiani. Anzi, Toro Bianco,
nipote di Toro Seduto, sostenne che i capi dei soldati venivano
presi particolarmente di mira, perché “erano quelli che seminavano
maggiori guai.”
Il sentiero
arriva soltanto fino all’inizio di un dirupo, che altro non è se non
un ruscello in secca. Qui si trova un cartello con scritto “Trail
end. Return to Visitor Center by same path” (Fine della pista.
Ritornate al Visitor Center lungo lo stesso sentiero). Il canalone
sottostante è il Deep Ravine, uno dei corridoi attraverso i quali
Custer e il suo reparto pensavano di arrivare fino al fiume per
attaccare l’accampamento. L’altro reparto, guidato dal capitano
George W. Yates, aveva tentato prima, ma invano, di scendere da una
spaccatura analoga, denominata Medicine Tail Coulee. Entrambi i
contingenti, incalzati dagli Indiani che salivano dal Little Big
Horn sotto la guida di Cavallo Pazzo e Gall, cercarono di
riunificarsi sulla sommità delle alture, per l’ultima disperata
resistenza.
Custer
aveva inizialmente con sé 224 uomini, ma alcuni se la cavarono,
allontanandosi prima del fatale accerchiamento. Uno di essi fu il
caporale-trombettiere John Martin, alias Giovanni Martini, oriundo
italiano di Sala Consilina, in provincia di Salerno. Custer lo inviò
in cerca del reparto comandato dal capitano Frederick W. Benteen con
un messaggio che oggi è custodito nel museo dell’Accademia Militare
di West Point, dove vennero traslati anche i resti di Custer. Lo
scrisse frettolosamente a matita, su un foglietto strappato dalla
propria agenda il tenente canadese William W. Cooke, dietro espresso
ordine del generale. E’ composto da poche, concitate parole:
“Benteen come on. Big Village. Be quick. Brig
packs. P.S. Bring pacs”. (Benteen, venite avanti. Grande
villaggio. Fate presto. Portate le munizioni. P.S. Portate le
munizioni). Nella fretta, l’aiutante Cooke commise un errore di
ortografia, saltando una “k” nella parola “packs” ripetuta nel post
scriptum. Martini riuscì a trovare i 120 uomini del capitano Benteen,
raggiunto poi anche dal centinaio di superstiti del maggiore Marcus
Reno in ritirata e dal convoglio degli approvvigionamenti del
capitano Thomas Mc Dougall, ma le forze riunificate non riuscirono a
soccorrere i reparti accerchiati di Custer.
Sul luogo
dell’ultima resistenza, che si concluse verso le 15,30 o le 16 del
25 giugno 1876, vennero trovati 42 cadaveri e 31 cavalli abbattuti.
Una sola cavalcatura, quella del capitano Keogh, era rimasta ancora
in piedi. Si chiamava “Comanche” e diventò un animale da parate
militari per diversi anni, morendo nel 1887.
Alle spalle del
grande monumento ai caduti, dalla parte opposta rispetto al fiume
Little Big Horn, nel 1997 è stato costruito, su proposta delle
autorità della riserva, un mausoleo che commemora gli Indiani della
famosa battaglia. Sulle pareti del muro, disposto a forma circolare,
sono elencati i nomi degli scout crow e arikara che presero parte al
combattimento. All’esterno, vi sono tre significative lapidi, sulle
quali i visitatori – noi compresi – collocano delle monetine da 10
cents e mezzo dollaro. Le prime due, affiancate, ricordano dei
guerrieri cheyenne – Ossa Flessibili e Mano Chiusa - uccisi dai
soldati durante l’assalto alla collina. L’altra, ancora più
commovente, commemora tutti i cavalli del Settimo Reggimento
abbattuti nello scontro.
Se in quel
momento il mio pensiero è rivolto a tutti i combattenti del Little
Big Horn – soldati, esploratori civili e scout pellirosse, guerrieri
sioux e cheyenne – non posso fare a meno di considerare quanti
splendidi equini, sia i grossi cavalli dell’esercito che i piccoli
mustang montati dagli Indiani, lasciarono la vita in quella
battaglia.
Fra tutti gli
animali addomesticati dall’uomo, sicuramente è stato il cavallo ad
avere dato il maggior contributo di sangue alle imprese del suo
ambizioso padrone, in un arco storico di parecchi secoli durante i
quali divenne via via il bersaglio di implacabili arcieri, poi di
micidiali fucilieri e mitraglieri ed infine di spietati artiglieri.
Il cippo che
ricorda il suo sacrificio è un atto di doveroso omaggio che può fare
soltanto onore a chi lo ha voluto.
Terminata la
visita al luogo principale della battaglia, resta da vedere il punto
in cui gli altri reparti unificati resistettero per quasi due giorni
prima di essere liberati dalle truppe del colonnello John Gibbon,
sopraggiunte nella tarda mattinata del 27 giugno.
Come è noto,
Custer era arrivato nei pressi del Little Big Horn la mattina del 25
giugno, alla testa di 647 uomini, compresi civili e guide indiane.
La sua tattica prevedeva un attacco condotto su un triplice fronte:
il primo battaglione, comandato dal maggiore Marcus Reno e forte di
circa 170 uomini, avrebbe attraversato il fiume assalendo
l’estremità meridionale del grande accampamento indiano, che
nell’insieme era abitato da circa 6.800 Sioux, 900 Cheyenne e pochi
Arapaho. Il secondo battaglione, 120 soldati affidati al capitano
Frederick Benteen, doveva compiere una ricognizione e sferrare
l’attacco un po’ più in su, irrompendo nel centro del villaggio; il
terzo, guidato personalmente da Custer, aveva il compito di
proseguire per alcune miglia, calando da nord, in corrispondenza
delle tende dei Cheyenne. La quarta formazione – 131 uomini
assegnati al capitano Thomas Mc Dougall e al tenente Edward G.
Mathey – doveva tenersi più indietro, a presidiare i muli che
trasportavano viveri e munizioni.
Dopo che Reno
venne respinto con gravi perdite – 30 morti, una quindicina di
dispersi e diverse guide arikara che se l’erano svignata –
riattraversò il fiume, continuando a ripiegare verso le alture
finchè non incrociò le forze di Benteen e decise di trincerarsi
lassù per organizzare una difesa congiunta. non senza aver fatto
prima un vano tentativo – sollecitato dal capitano Thomas Weir – di
soccorrere le cinque compagnie di Custer accerchiate. Al contingente
si unirono poco tempo dopo le truppe di scorta di Mc Dougall e
Mathey, nonché il plotone del tenente italiano Charles C. De Rudio,
rimasto isolato durante la ritirata. Complessivamente, la forza che
avrebbe resistito agli Indiani nelle successive trentasei ore, era
dunque di circa 370 uomini.
Quando
raggiungiamo in auto, perché dista circa 5 miglia dal monumento, il
punto di resistenza di Reno e Benteen, mi è ancora più facile
comprendere perché gli Indiani non siano riusciti ad avere ragione
di questo reparto.
La strada corre
su un costone pianeggiante sulla sommità, ma molto scosceso da
entrambi i lati, specialmente dalla parte che guarda verso il Little
Big Horn. Lungo tutta la scarpata non si scorge un solo albero, ma
solo qualche anfratto e numerosi cespugli. Vi sono molte ragioni per
ritenere che anche al tempo del massacro fosse questo l’aspetto del
campo di battaglia.
In altri termini
– senza nulla voler togliere alle decantate capacità organizzative
di Benteen, che finì per diventare l’eroe delle due tragiche
giornate – i Pellirosse non sarebbero riusciti a conquistare la
posizione se non perdendo almeno tre uomini per ciascun soldato
abbattuto, cioè avrebbero sacrificato 1.000 guerrieri, due terzi dei
loro combattenti effettivi. Non si dimentichi che ciascun militare
possedeva un fucile Springfield versione ’73 ed una pistola Colt a 6
colpi, che utilizzavano pallottole del medesimo calibro, ed aveva
con sé 100 colpi di dotazione. Dopo l’arrivo del convoglio di Mc
Dougall, le truppe di Reno e Benteen poterono disporre di una
ulteriore razione di 25.000 colpi!
Il discorso
sulle perdite indiane del Little Big Horn è tuttora aperto.
Molti storici
accettarono ingenuamente la versione di testimoni indiani che hanno
sempre cercato di minimizzare il numero dei morti in tutte le
battaglie sostenute contro Bianchi e tribù nemiche. Infatti,
prendendo per buoni i loro racconti, anche a Beecher’s Island, nel
1868, i Cheyenne avrebbero subito soltanto 7 o 8 perdite in otto
giorni di assedio al reparto del maggiore George Forsyth, mentre in
realtà l’esercito ne quantificò oltre 70.
Secondo il capo
cheyenne Due Lune, contro Custer i Sioux ebbero 39 morti, i Cheyenne
soltanto 7. Ancora più riduttive le cifre fornite dal cheyenne Gambe
di Legno, che parlò di una trentina di caduti e del sioux Toro
Bianco, che le limitò a 23 Sioux e 7 Cheyenne.
Autorevoli
smentite giunsero invece da altre fonti di parte indiana. Secondo il
capo-guerriero sioux Cavallo Rosso, nell’assalto al battaglione di
Custer i Pellirosse persero 136 uomini e riportarono 160 feriti,
mentre Cavallo Pazzo, uno dei principali artefici della vittoria,
ammise che i Lakota caduti furono 58 ed altri 60 riportarono gravi
ferite, tant’è che una quarantina di essi morirono quasi subito.
Benchè gli Indiani, com’era loro abitudine, avessero portato via dal
campo di battaglia la maggior parte dei loro morti, il sergente
Daniel Kanipe confermò che, quando questi si furono ritirati,
rimanevano soltanto tre delle circa 1300 tende che formavano
inizialmente il grande villaggio. Esse contenevano, secondo quanto
dichiarò in seguito il sottufficiale, 60 cadaveri ammucchiati.
Per questo,
avere preso direttamente visione del luogo dello scontro è servito a
dare una conferma a ciò che avevo già anticipato in alcuni dei miei
libri: la tesi dell’esiguità delle perdite indiane al Little Big
Horn, benchè condivisa da qualificati studiosi come il dottor Thomas
B. Marquis, è manifestamente insostenibile.
In
quella battaglia, una delle più lunghe, cruente e sanguinose della
loro storia, le forze unite dei Sioux e dei Cheyenne pagarono un
prezzo elevatissimo, sicuramente non inferiore a quello del Settimo
Cavalleria.
Ma ciò, lungi
dal voler sminuire la portata di quel travolgente successo, può
soltanto accrescere il nostro rispetto verso i coraggiosi guerrieri
che decimarono, con l’audacia dei loro assalti, il miglior
reggimento di cavalleria degli Stati Uniti d’America.