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A cura di Domenico Rizzi

Quarta parte del viaggio

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ount Rushmore dista soltanto 26 chilometri dal Crazy Horse Memorial e bastano 20 minuti per raggiungere la località. Il sole è caldissimo e la temperatura si sente anche all’interno dell’auto con l’aria condizionata in funzione. Mentre ci avviciniamo, ansiosi di ammirare quel maestoso monumento, il traffico aumenta, segno che diverse persone si stanno dirigendo alla nostra stessa mèta. Finalmente, dopo un quarto d’ora, spuntano da lontano le teste scolpite dei quattro presidenti americani.

“Eccolo! E’ fantastico!”, grida qualcuno di noi.

Sembriamo a volte dei bambini eccitati, ma il nostro entusiasmo è talmente giustificato che nessuno al mondo potrebbe criticarci.  Sistemata l’auto nell’immenso parcheggio antistante, ci avviamo a piedi verso il viale che conduce al belvedere, da dove si possono osservare le statue come dal palco di un teatro. I visitatori sono centinaia, di ogni provenienza e di tutte le età. Una comitiva di giapponesi sta già fotografando tutto ciò che trova sul proprio cammino. E se un domani ti  riproducessero un’opera simile, magari con i busti dei loro samurai, nel centro di Tokio?

No! Mount Rushmore è senz’altro una realizzazione unica nel suo genere e può competere sia con i giardini pensili di Babilonia, quanto con il colosso di Rodi, due delle decantate sette meraviglie dell’antichità. E’ merito dello scultore Butzon Borglum, che la iniziò nel 1927 e rimase incompiuta, a causa della sua morte, nel 1941. Il progetto originario prevedeva di realizzare le quattro figure a busto intero, ma si interruppe dopo avere completato le teste.

Percorriamo il lungo viale gremito di folla fino alla balaustra terminale, dove ci troviamo di fronte a questa ottava meraviglia postuma. Di fronte a noi giganteggiano, scolpite nella roccia, le statue raffiguranti George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt, rispettivamente i due padri fondatori degli Stati Uniti, il liberatore degli schiavi e l’uomo che affondava le sue radici nel West, il cow-boy presidente che condusse la favolosa carica dei Rough Riders sulla San Juan Hill di Santiago de Cuba. Era il luglio 1898, quando gli Americani sbarcarono nell’isola e la liberarono dalla dominazione spagnola, rendendola indipendente. “That’s wonderful…!” esclama una signora dell’Illinois che mi sta accanto mentre scatto le foto. Le brillano gli occhi dall’emozione e confesso che anche noi stiamo provando la medesima sensazione.

Ci soffermiamo diversi minuti in quel luogo, esposti ai raggi di un sole caldissimo. Ma il nostro programma esige il rispetto della tabella di marcia e sappiamo che fra poco dovremo riprendere la strada verso Deadwood, che dista 72 chilometri. Poiché abbiamo ampiamente superato il mezzogiorno, decidiamo di pranzare nel grande fast food che si trova sul posto, circondato da ampie vetrate. Dopo esserci serviti al self-service, sediamo ad un tavolo, in una posizione da cui possiamo continuare ad ammirare lo spettacolo di Mount Rushmore. Quando ripartiamo, nelle prime ore del pomeriggio, quasi ci viene il magone.

La carreggiata prosegue in mezzo a boschi di pini, in un clima che comunque è sempre meno torrido di quello delle praterie. Appaiono spesso, ai lati del percorso, laghi e laghetti, con persone intente a prendere fotografie. Una ventina di chilometri prima dell’arrivo, un paio di cerbiatti ci attraversa la strada, ma poiché stiamo procedendo abbastanza lentamente, riescono a transitare indisturbati. Mi chiedo se avremo la fortuna di scorgere un altro bisonte, ma tutto ciò che riusciamo a vedere sono purtroppo animali che giacciono morti ai lati dello stradone.

Le Black Hills furono prese d’assalto nel 1875, dopo che si era sparsa la voce della scoperta dell’oro. A trovare la prima pepita era stato Horatio Ross, un minatore al seguito del Settimo Cavalleria di Custer, il 30 giugno dell’anno precedente. Nonostante le cautele adottate dal governo per tenere segreta la scoperta, i prospectors presero d’assalto questi monti, mettendosi a setacciare le sabbie dei torrenti e a scavare miniere dovunque. Vani furono i tentativi del governo di farli allontanare con l’impiego dell’esercito. Il generale George F. Crook, comandante del Dipartimento Militare del Platte, annotò nelle sue memorie: “Il generale Sheridan, comandante la Divisione del Missouri, diramò un ordine alle truppe con disposizioni di arrestare chiunque tentasse di entrare nella zona e di distruggerne i mezzi di trasporto, le armi e ogni equipaggiamento. Ma, nonostante tutte queste precauzioni, molte spedizioni si in insinuarono fra le colline.” (da “General George Crook. His Autobiography”, a cura di Martin F. Schmitt, Norman, Okl., 1946).

L’invasione massiccia del territorio, impossibile da arginare con lo scarso organico di cui disponeva l’esercito, avrebbe poi scatenato la rivolta dei Sioux nel 1876-77, culminata nella battaglia del Little Big Horn.  

Quando scendiamo nella vallata in cui si trova Deadwood, il tempo è diventato nuvoloso e c’è da aspettarsi che si metta presto a piovere. Raggiunto l’ampio piazzale in cui si trova l’albergo – simile nella struttura a quello di Lusk, vale a dire un edificio basso, con camere tutte disposte in fila al pianterreno e al primo piano – parcheggiamo e ci portiamo subito al bureau, dove sbrighiamo le pratiche di rito. Il luogo è isolato rispetto al centro, che tuttavia dista meno di un chilometro “Seguendo Sherman Street ci arrivate anche a piedi” spiega la ragazza della reception “Se vi interessa visitare anche Mount Moriah, c’è una deviazione sulla destra. Dista appena due miglia dall’abitato.”

Detto e fatto, sono circa le 18, sistemiamo alla meglio i bagagli e decidiamo di salire subito a Deadwood. Fra l’altro, mentre tento di sostituire il rullino, la mia macchina fotografica mi abbandona definitivamente ed ogni tentativo di ripristinarne l’uso – sentito anche il parere di un fotografo della città - risulterà vano. Per fortuna siamo ottimamente attrezzati per le decine di foto che dovremo ancora scattare.

Posteggiamo l’auto in una piazzetta dietro l’ufficio postale di Deadwood e ci dirigiamo verso il centro della cittadina, che ha meno di 1.500 abitanti. All’epoca della corsa all’oro, raggiunse probabilmente una popolazione quattro volte superiore. Una nota curiosa: il sindaco è di lontana origine italiana, in una regione dove la presenza dei nostri connazionali è quasi insignificante.

Lascio spaziare lo sguardo sulle colline circostanti e vi scopro centinaia di alberi che sembrano pietrificati, donde il nome dato al paese, che significa “bosco morto”. Mentre ci stiamo portando verso la via principale, notiamo alcune persone nel tradizionale costume western. A Deadwood si stanno svolgendo le riprese di una nuova serie di telefilm, imperniate sulla figura di Wild Bill Hickok e dei personaggi della sua epoca. Forse è nell’ambito del progetto, diretto da Walter Hill – regista di “I cavalieri dalle ombre lunghe” e del più recente “Geronimo” - di cui hanno parlato in giugno anche i giornali italiani, definito “una delle più grandi scommesse della tv americana” e intitolato appunto “Deadwood”, oppure si tratta di un’altra storia ambientata nella cittadina divenuta tanto celebre nel 1876, anno della sua nascita ufficiale. Personalmente sono molto felice che il western continui a vivere, talvolta in versioni discutibili, ma tenendo comunque sempre desta l’attenzione della gente per questo fantastico genere mirabilmente cantato da John Ford, Howard Hawks, Sam Peckinpah e Sergio Leone.

Ed eccoci nella strada dove si svolse la storia, quella autentica.

Qui sembra che il tempo si sia fermato al 2 agosto 1876, quando un tale Jack Mc Call, di incerta provenienza, entrò nel “Number Ten Saloon” gestito da Carl Mann e sparò alle spalle di James Butler Hickok, il grande Wild Bill. L’ex sceriffo di Hays City e Abilene, che aveva 39 anni compiuti e soffriva di una grave forma di glaucoma, stava giocando una partita a poker insieme a Mann, al capitano di marina Massey e a Charles Rich. Abituato da sempre a sedersi con le spalle rivolte alla parete, questa volta si era trovato il posto già occupato da Rich, al quale aveva chiesto inutilmente di cedergli il suo sgabello, forse presagendo che potesse accadergli qualcosa di grave. Perciò Mc Call ebbe gioco facile, fulminando con un colpo a tradimento il più famoso tutore della legge della Frontiera.

Il saloon conserva lo stesso stile di allora: luci basse, bancone e tavoli in legno massiccio e segatura sparsa su tutto il pavimento, perché la gente dell’epoca – quasi tutti minatori – entrava nel locale con gli stivali sporchi, dopo avere percorso le fangose vie di Deadwood.

Dietro il bancone notiamo subito un gigantesco barman di colore, affiancato da altri lavoranti. Fra i tavoli, circolano bellissime cameriere in costumi ottocenteschi, che si comportano in maniera molto affabile con i numerosi clienti. Anche diverse persone che si trovano all’interno, sedute oppure appoggiate al banco, indossano un abbigliamento rigorosamente western.

In fondo al saloon è rimasto il tavolo su cui Hickok giocò la sua ultima partita. Vi sono ancora appoggiate sopra le carte che il famoso tiratore aveva in mano al momento della morte: una doppia coppia di assi e di otto, combinazione che da allora venne chiamata, in tutto il West, “la mano del morto”. L’unica nota un po’ stridente sono alcune sedie in similpelle di recente fabbricazione, che, con i loro colori troppo vivaci, spezzano l’atmosfera tradizionale dell’ambiente, ma nessuno sembra farvi caso.

Ci beviamo un’ottima birra e scattiamo alcune fotografie del locale, intrattenendoci oltre mezz’ora, poi ce ne andiamo. A meno di cinquanta metri, sul lato opposto della via nella direzione da cui siamo arrivati, vi è un negozio che reca una targa accanto all’ingresso. C’è scritto: “In questo luogo venne catturato l’assassino Jack Mc Call, che sparò a Wild Bill Hickok il 2 agosto 1876”. L’omicida, assolto una prima volta da una giuria ritenuta irregolare, andò poi in giro a vantarsi della sua prodezza, finchè venne arrestato, condannato a morte e impiccato a Yankton meno di un anno dopo.

Wild Bill Hickok è stato fra coloro che alimentarono enormemente la leggenda del West. Nato nell’Illinois nel 1837, esploratore del generale George Armstrong Custer durante le campagne contro gli Indiani nel Kansas, rappresentò la legge in  varie città della regione, le famigerate “cow-towns” dove le sparatorie si susseguivano a ritmo quotidiano. Temuto dagli uomini quanto ammirato e amato dalle donne, Wild Bill passò alla storia come uno dei più implacabili sceriffi della Frontiera. Alto e slanciato, con i lunghi capelli castani e ondulati sciolti sulle spalle, sguardo acuto e penetrante, aveva il fascino del personaggio enigmatico e sicuro. Elizabeth Bacon, moglie di Custer, lo definì “il più bell’uomo che avesse mai conosciuto”. Qualche biografo impietoso, invece, scrisse di lui che “sparava troppo e non sempre dalla parte giusta”, alludendo al tragico errore commesso durante un conflitto a fuoco nel Kansas, quando ferì mortalmente il proprio aiutante per avere premuto il grilletto con eccessiva fretta. Portava abitualmente due pistole Colt Navy con il calcio di madreperla, che teneva infilate nel cinturone perché non usava le fondine. Le sue vittime furono, secondo Henry Morton Stanley (giornalista inglese in America, l’uomo che in seguito sarebbe diventato un celebre esploratore, ritrovando il dottor Livingstone in Africa) più di 100. In realtà, è probabile che tale numero debba essere ridotto ad una trentina. 

Hickok ebbe rapporti con donne diverse, forse anche prostitute, ma nel 1876 sposò Agnes Thatcher Lake, proprietaria di un circo. Subito dopo si recò nelle Black Hills, facendo sosta a Deadwood, ossessionato dalla paura della cecità e in cerca di fortuna.

Martha Jane Cannary, la famigerata Calamity Jane, nacque nel Missouri nel 1852 e fu sempre segretamente innamorata di lui, sebbene non corrisposta. Donna ambigua quanto generosissima, dall’aspetto mascolino, coltivò indifferentemente amicizie maschili e femminili, sostenendo di avere avuto una dozzina di mariti. Ebbe anche una figlia, che attribuì ad una relazione con Hickok. Nell’ultima lettera indirizzata a lei, poco prima di morire, scrisse: “Odio sporcizia e povertà, ma è così che sto vivendo i miei ultimi giorni”.

La suggestione del luogo è fortissima, impossibile non esserne affascinati.

Benchè siamo tutti abbastanza stanchi e il cielo prometta pioggia a breve scadenza, la giornata non può concludersi senza fare una visita al cimitero di Mount Moriah, dove sono sepolti questi due autentici campioni del West. Perciò prendiamo l’auto e partiamo subito verso la destinazione, mentre inizia già a piovigginare.

Il camposanto è su una collina, al termine di una strada ripida, ma in perfette condizioni, come tutte le altre che abbiamo percorso in precedenza.

Paghiamo un dollaro a testa per entrare e ci viene data la “Guide to Mt. Moriah Cemetery”, che contiene una mappa dettagliata del camposanto. Nel sottotitolo è specificato: “La prima sosta della vostra escursione comprende la dimora finale di tre famosi abitanti di Deadwood: Wild Bill Hickok, Calamity Jane e Potato Creek Johnny”. Tralasciando l’ultimo, un personaggio pittoresco di nome John Perrett, famoso per avere trovato la più grossa pepita della zona  (morì a 77 anni, nel febbraio 1943) troviamo facilmente le due tombe affiancate di Wild Bill e della sua sedicente amante Calamity, morta nel 1903 all’età presunta di 51 anni. Per sua espressa richiesta, la donna venne inumata accanto al grande pistolero. Al funerale parteciparono tutti i cittadini di Deadwood, autorità in testa, a dimostrazione di come Jane, divenuta cieca e caduta in miseria, fosse diventata il simbolo di un’epopea.

Il cimitero è adagiato su una collina, con sentieri che salgono con una forte pendenza e appare veramente originale. Dall’alto, dove sono sepolti anche caduti delle guerre più recenti, si domina la città, sprofondata in una vallata circondata da colline boscose.

Sulla tomba di Hickok campeggia un busto che riproduce la sua fisionomia, mentre su quella di Calamity vi è soltanto un grosso vaso di pietra. Forse questa donna, che, al di là dei suoi vizi e difetti, si prodigò in molte occasioni – servì l’esercito come mulattiere e scout, aiutò la popolazione colpita da un’epidemia, contribuì alla cattura di Jack Mc Call – avrebbe meritato, se non un monumento, un sepolcro meno comune.

Mentre continuiamo la ricerca di altre tombe di personaggi storici, incomincia a piovere davvero. Poiché siamo in giro in calzoni corti e magliette estive, decidiamo di tornare in albergo.

La sera, finalmente, riusciamo a gustare la “bistecca alla Tex Willer”, alta almeno due dita e seppellita, come chiede sovente il suo pard Kit Carson, “sotto una montagna di patate fritte”. Pranzo ottimo e conversazione piacevole con il personale del ristorante adiacente l’hotel, ma la fatica del viaggio ci assesta il colpo di grazia intorno alle ventidue.

La pioggia non accenna a diminuire, la temperatura è scesa in poche ore da 35 a 18 gradi e il giorno dopo ci attende la traversata del Wyoming settentrionale, fino a Sheridan, da dove ci  spingeremo nel Montana.

Rammentando le caratteristiche strade fangose della vera Deadwood – quella che soltanto il regista Walter Hill ha saputo riproporre fedelmente nel suo film “Wild Bill”, prodotto in USA nel 1980 e tratto dal romanzo “Deadwood” di Peter Dexter – considero che questa città non poteva riservarci un’accoglienza migliore.

Ne porterò il ricordo per molti giorni, anche dopo il ritorno dagli Stati Uniti, come quello della località più autenticamente western che abbiamo visitato.

 

Eccitazione. Sembriamo a volte dei bambini eccitati, ma il nostro entusiasmo è talmente giustificato che nessuno al mondo potrebbe criticarci.

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Cliccate sulle foto per vederle ingrandite.

Sotto: Domenico Rizzi a Mount Rushmore, nel South Dakota. Sullo sfondo i busti dei 4 presidenti americani

Inquadratura dei busti di Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln

A Mount Rushmore con alle spalle i presidenti

Monumento al cow-boy a Deadwood, nelle Black Hills del South Dakota

Attori in costume mentre girano un film western a Deadwood

Domenico Rizzi all'interno del Saloon Number Ten di Deadwood dove il 2 agosto 1876 venne ucciso Wild Bill Hickok

Domenico Rizzi ed Enzo Callegaro vicino alla tomba di Calamity Jane a Mount Moriah, il cimitero di Deadwood

 

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