li indiani dovevano le loro particolari doti di
disciplina, abnegazione, resistenza e coraggio all'educazione che
ricevevano, tutta improntata a far acquisire la padronanza di sé.
Sin dalla più tenera infanzia il fanciullo indiano veniva allenato a
controllarsi, a sottomettere il corpo, i sensi e la mente alle prove
più dure, per renderli quanto più inaccessibili alla debolezza e
questa salutare influenza agiva su di lui sin dalla culla e non in
senso figurativo, ma realmente.
Com'è noto, le culle indiane consistevano in
un'asse di legno sulla quale era stesa una pelle di daino. Qui il
piccolo, il papoose, era legato e tale rimaneva sia al riparo della
tenda, sia sul dorso della madre intenta alle sue quotidiane
faccende o sulla groppa del cavallo in mezzo alla schiera in marcia
durante lo spostamento del campo.
Così aveva inizio una disciplina corporale che
avrebbe ricordato più tardi, nelle lunghe ore d'agguato durante le
quali anche il trasalire di un muscolo avrebbe compromesso il
risultato della caccia o attirato l'attenzione del nemico. Oltre che
a non muoversi, il fanciullo si abituava a non parlare. In molte
tribù si avvolgevano nella lana i rudimentali poppatoi non soltanto
per impedire al neonato di gridare, ma anche per obbligarlo a
respirare col naso e non con la bocca, per determinare un'abitudine
che poteva essere questione di vita o di morte per uomini la cui
esistenza tanto si avvicina a quella degli animali selvaggi.
L'educazione del piccolo Indiano continuava in
forme via via più dure quando sia in grado di reggersi in piedi,
anche se non occorre concluderne che i genitori dessero prova di
brutalità. Al contrario, erano innumerevoli le manifestazioni di
affetto. Amavano molto i loro figli, come risulta nelle relazioni di
viaggio dei missionari. "La tenerezza delle donne indiane per i
loro figli", afferma padre Savinien nelle sue Missioni
Cattoliche, "non è certamente inferiore a quella delle donne
dei paesi civili. Anche l'Indiano condivide questo sentimento. Il
guerriero pronto ad affrontare la morte più crudele, la morte lenta
mentre lo bruciano vivo, senza emettere un gemito, piange come un
bambino se il figlio o la figlia si ammalano o muoiono. Questa
tenerezza degli Indiani per i piccoli talvolta ci mette in
imbarazzo, perchè se qualche allievo ha un piccolo guaio o un
leggero mal di testa l'intera famiglia, appena avuta la notizia,
viaggia giorno e notte per giungere da noi e vedere quello che
avviene. Qualche volta chiedono all'agente del governo il permesso
di condurre il fanciullo al campo, senza rendersi conto che là gli
mancheranno le cure necessarie, oppure vogliono applicare al
fanciullo i rimedi dello stregone."
Il Pellerossa del XIX secolo non soltanto era
buono coi suoi figli ma rispettava anche quelli del nemico. Ciò non
significa che allevasse i suoi figli nelle mollezze. All'età di
cinque anni il bimbo andava a cavallo, a caccia col padre, si
esercitava nella pesca, imparava a conoscere le piste, ad ascoltare
le voci della natura, ad osservare, a discernere, a classificare
nella sua memoria una quantità di piccoli fatti che avrebbero avuto
per lui grande importanza.
Era, insomma, un'educazione assai simile a
quella impartita dai genitori ad un lupachiotto, un modelli che
affinava eccezionalmente i sensi del bimbo. L'odorato degli Indiani
aveva la finezza di quello dei cani da caccia; la loro vista, senza
essere oggettivamente migliore di quella dei Bianchi, consentiva di
riconoscere particolari che per questi ultimi non avrebbero avuto
senso; il loro orecchio distingueva tra mille rumori una voce, un
segnale, un indizio e il loro tatto era assai affinato.
Nel corso dell'apprendistato, tanto il maestro
che l'allievo conservavano il più assoluto silenzio. Il guerriero
era gaio, brillante e rumoroso quando, attorno al focolare, narrava
lunghissime storie o quando si divertiva con i compagni. Però
diventava il più silenzioso degli uomini se era impegnato nella
caccia o nella guerra, perchè considerava la parola un pericolo
permanente. Essendogli tuttavia indispensabile comunicare agli altri
i suoi pensieri, adottava il linguaggio dei segni.
Il bambino Indiano veniva ritenuto privo di
personalità sino a dodici anni, e considerato, indipendentemente dal
suo sesso, una "fanciullina", ossia poco più di un giovane animale.
Al momento della pubertà, prendeva coscienza della sua futura
condizione di guerriero mentre si trasformava non solo fisicamente,
ma anche psicologicamente. Si anneriva il viso col nerofumo, per
significare che iniziava il digiuno e che nessuno gli doveva
rivolgere la parola. Poi, a seconda delle usanze, si ritrovava nella
foresta o si chiudeva nel suo angolo, sotto la sorveglianza dello
stregone, digiunando e meditando talvolta anche per otto giorni.
Cadeva così in una sorta di estasi o in un sonno affollato dalle
allucinazioni della fame, durante il quale gli accadeva di sognare
un animale o un oggetto che divenivano il suo nume tutelare e di cui
prendeva spesso il nome, e che, al risveglio andava a cercare o a
cacciare per portarlo trionfalmente al campo. Allora il padre
invitava gli amici a una grande festa, nel corso della quale il
giovane guerriero assumeva il suo nuovo nome, mentre lo stregone
decideva quale parte dell'animale - becco, dente, artiglio - avrebbe
dovuto portare con sé come talismano.
Da quel momento il fanciullo era considerato
uomo e faceva di tutto per dimostrarlo. Il primo risultato da
ottenere era l'acquisizione della piena padronanza di sé, poiché gli
Indiani consideravano massima virtù non cedere né alla paura, né
alla collera, né al desiderio, restando impassibili persino durante
l'agonia. Un vecchio capo incoraggiava così un guerriero che partiva
per la caccia al bisonte in pieno inverno per soccorrere la tribù
che moriva di fame: "Né la fame,né il freddo, né il dolore, né la
paure di queste cose, né il dente acuto del pericolo, né la stessa
stretta della morte debbono impedirti di compiere un'azione utile."
Inoltre i missionari bianchi documentano: "Oltre alla sua
volontà, l'Indiano possiede un vigoroso organismo che gli permette
di conseguire l'autocontrollo. Ogni guerriero si allena sin da
giovane per resistere alla fatica e alle intemperie, per giungere a
poter correre per molti giorni di seguito portando le armi ed i
viveri; si disseta all'acqua di fonte e solo una coperta od una
pelle lo protegge dalla pioggia e dal freddo. Quando è necessario,
l'Indiano deve essere in grado di braccare l'animale per più giorni
consecutivi senza mangiare, senza bere, senza dormire e senza cedere
alla debolezza". Così si legge nelle Missioni Cattoliche di
padre Savinien.
Per arrivare a questa padronanza occorreva
sottoporsi a un regime rigoroso ed a precise regole igieniche. Tutti
coloro che li hanno conosciuti al tempo della loro vita libera,
prima che le miserie e i vizi della civiltà li facessero degenerare,
hanno concordato nel porre in rilievo la grande cura che avevano del
loro corpo. Quando l'intera prateria era il loro regno, restavano
per quanto potevano nei pressi dei laghi e dei fiumi per lavarsi e
bagnarsi il mattino e la sera, uomini, donne e bambini. Inoltre,
nonostante i metodi rudimentali, avevano elaborato veri e propri
bagni di vapore, il cui uso era generale e permanente. Vi era per
questo un apposito luogo, la sweat house, una tenda bassa ricoperta
di pelli e di spesse coperte perchè l'aria non vi circolasse. Vi si
entrava nudi e si prendeva posto presso una tinozza d'acqua, mentre
fuori venivano scaldate grosse pietre poi fatte rotolare a una a una
dentro la tenda, sulle quali si versava l'acqua, che vaporizzava in
modo che ben presto una nube densa e umida riempiva il locale
rendendo l'atmosfera quasi soffocante. Ma l'indiano, soffrendo, vi
rimaneva, bevendo una grande quantità d'acqua per evitare la
disidratazione che poteva essere provocata dal sudore che usciva
abbondantemente dal corpo. Infine dopo un certo tempo, si usciva in
fretta per buttarsi nel fiume, talvolta ghiacciato, perchè si
facevano bagni di vapore tanto in estate quanto nel cuore
dell'inverno. Quando si usciva dall'acqua, il corpo veniva
frizionato vigorosamente mente ci si avvolgeva in coperte calde. Si
concludeva l'operazione ungendosi con il grasso d'orso allo scopo di
mantenere elastici i muscoli e proteggere la pelle dalle intemperie,
dal sole e dalle punture degli insetti. Talvolta in luogo del grasso
di orso si usava il misterioso "Balsamo dei Seneca" che non era
altro che "Olio di roccia", ossia il petrolio.
Purtroppo, per via della loro aspirazione a
vincere ogni debolezza fisica e ad allenarsi alla sopportazione del
dolore, gli Indiani sottoponevano il loro corpo a ben altre prove,
comprese autentiche torture che l'orgoglio li induceva a sopportare
senza un lamento ma che portavano, sia pure raramente, persino alla
morte e che, in ogni caso, invece di renderli più forti fisicamente,
li indebolivano. Di queste tragiche cerimonie la danza del sole
resta la più cruenta.
L'adolescente aveva diritto di chiamarsi
guerriero solo dopo aver dato prova di coraggio di fronte al
nemico e, nella maggior parte delle tribù, dopo aver personalmente
abbattuto un avversario. Questo evento non si faceva attendere molto
perché per questi nomadi sempre all'erta la guerra non era
un'operazione molto diversa dalla caccia con cui procurarsi ciò di
cui si abbisogna. Così il giovane aveva presto occasioni per
cimentarsi. Tanto per fare un esempio Toro Seduto all'età di
quattordici anni aveva già affrontato e ucciso un nemico della tribù
dei Crow.
Questo stile di vita comporta conseguenze che
modificavano profondamente il carattere. Il nomade passava da
periodi di intensa attività ad altri di completo riposo. Aveva
momenti di distensione, ma in altri casi doveva compiere sforzi
notevoli.
Quando non era in guerra o alla caccia, non si
dedicava ai lavori agricoli. Non aveva il senso della proprietà e si
mostrava facilmente ladro, il che era un difetto che li metteva in
cattiva luce. Ma essi rubavano senza pensare di agire male, anzi si
vantavano delle loro imprese. Rubare un cavallo era bene, ma rubarne
dieci era decisamente meglio e costituiva la prova di
destrezza,abilità, astuzia. Era ben più difficile impadronirsi di un
cavallo chiuso in un recinto o legato vicino ad una tenda occupata
da uomini armati che abbattere un bisonte nella pianura che un cervo
nella foresta. Il furto, quindi, diventava una caccia come un'altra
nella quale non si vedeva nulla di vergognoso. Parimenti, di tanto
in tanto, le tribù nomadi si saccheggiavano reciprocamente.