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A cura di Gaetano Della Pepa

L'agente indiano

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11 marzo 1824 veniva creato il Servizio Affari Indiani alle dipendenze del dipartimento della guerra. Il compito di quest’ufficio era quello di versare alle tribù firmatarie di trattati le annualità, in soldi ed in beni materiali, fissati dai trattati, controllandone i bilanci. In seguito, però, oltre ai compiti di gestire il fondo per la civilizzazione degli indiani, ai funzionari del Servizio venne affidato anche l’arduo incarico di risolvere le controversie tra gli stessi indiani ed i bianchi, in particolare coloni e commercianti.

Nel 1831 l’ufficio passò alle dipendenze del ministero dell’interno ed assunse la denominazione di Commissariato agli Affari Indiani con a capo il Presidente degli   Stati Uniti. Vennero nominati i sovrintendenti e posti a capo delle varie zone in cui venne diviso il territorio, sia quello delle tribù ormai pacifiche, sia di quelle ancora in guerra. Vennero create le Agenzie, un organismo politico-amministrativo, che inglobava o una riserva o il territorio di una tribù ancora libera e non sottomessa. A capo venne nominato l’Agente Indiano con il compito di versare le annualità, rilasciare le licenze ai bianchi consentendo loro di inoltrarsi a commerciare nel territorio indiano; sorvegliare il divieto di vendita d’alcool nella riserva e vigilare sull’andamento dell’opera di civilizzazione degli indiani finanziata dal governo.

Di qui la necessità di assegnare l’incarico a persone con solide qualità personali, sia umane sia professionali. Almeno nelle intenzioni...

L’intero schema di pacificazione e di sistemazione territoriale fra invasori e nativi si reggeva dunque su una figura centrale, quella dell’agente indiano: un funzionario civile che doveva sovrintendere all’agenzia ed amministrare la distribuzione di fondi e dei pagamenti in natura agli indiani. Dunque il Piccolo Padre, come lo chiamavano gli indiani per distinguerlo dal Grande Padre, il Presidente degli Stati Uniti, era il perno attorno al quale avrebbero dovuto ruotare i rapporti fra i vecchi ed i nuovi inquilini del Nordamerica. Forse il meccanismo avrebbe anche avuto qualche chance reale di buon funzionamento, ma a condizione che l’agente indiano fosse stato un autentico manager competente, onesto e dotato di ottime qualità di mediazione e psicologia.

Proviamo per un momento ad immaginare la situazione per quella che ipotizziamo poteva essere quella normale.

Un impiegato viene convocato dai suoi capi ufficio a Washington ed informato che quanto prima potrà essere catapultato nella più estrema, più inospitale e più pericolosa delle frontiere, quella selvaggia del West, per gestire una delle agenzie indiane, nel territorio dei famigerati musi rossi. L’uomo, se accetta la proposta,  di conseguenza viene allontanato dai conforti dell’Est, dai comodi orari di lavoro ed dalla vita tranquilla del piccolo burocrate. La sua carriera, a quel punto prende strade quasi sconosciute ed incontrerà numerosi bivi in prossimità dei quali ogni decisione dovrà essere presa con massima rapidità. La sua vita familiare è presumibilmente destinata a subire profondi contraccolpi perchè ben poche mogli erano orientate a lasciare le grandi città per trasferirsi con i figli nel “grande deserto americano” e vivere fra i “selvaggi pellerossa”.  

Però nelle mani di questo piccolo e sconvolto burocrate il governo metteva colossali somme di denaro, a fronte di un magro stipendio di impiegato statale. Centinaia di migliaia di dollari da amministrare e distribuire direttamente agli indiani o da utilizzare per acquisti di beni e vettovaglie secondo i trattati di pace.

E’ così che l’agente indiano scopre ben presto di avere a portata di mano gli strumenti per arricchirsi impunemente alle spalle del contribuente americano da una parte e  dei suoi indiani dall’altra, sperando in un rapido ritorno nelle zone di origine.

Esistevano naturalmente regolamenti, leggi e controlli. Gli Uffici Superiori erano presso il Ministero a tremila chilometri di distanza nell’Est, molto oltre la frontiera che delimitava il confine con la civiltà. Le ispezioni governative erano molto rare e sempre preannunciate. Un ispettore, partito da Washington, per giungere sul posto impiegava settimane con viaggi lunghi e pericolosi e sovente preferiva viaggiare scortato e per niente in incognito.

Di fronte, come clienti, egli aveva gli indiani, analfabeti, cacciatori di bisonte ed all’oscuro di ogni procedura di ricorso civile, privi di qualsiasi voce o di rappresentanza politica. Nient’altro che “pecore da tosare”.

Gli agenti avevano le loro baracche, spesso all’interno dei forti; i loro magazzini erano colmi di ogni ben di Dio inviato dal governo: coperte, utensili, stoffe, scatolami, lardo, farina, armi e munizioni… Tutti prodotti che avrebbero dovuto distribuire equamente e gratuitamente alle tribù sottoposte alla loro giurisdizione.

Il più delle volte questi prodotti non venivano affatto distribuiti nelle quantità previste dagli accordi, ma finivano persino per essere barattati con pelli ed oggetti vari d’artigianato.

Gli agenti indiani prediligevano intrattenere relazioni commerciali e fare fiorenti affari con mercanti disonesti che trovavano nelle agenzie governative un perfetto magazzino all’ingrosso presso il quale approvvigionarsi a prezzi stracciati, dato che qualunque cifra era profitto puro per l’agente indiano, il quale vendeva roba non sua.

Inoltre i forzieri con il denaro contante mandato dal governo, sparivano  regolarmente lungo il tragitto. Le diligenze venivano assalite e depredate dai banditi o da bande d’indiani in combutta con l’agente stesso, con il quale poi dividevano il bottino, dandone sempre la colpa a non meglio definiti banditi, meglio se indiani!

Così le tribù venivano colpite ben due volte: la prima perché non ricevevano il denaro pattuito (essendo stato rubato), la seconda quando subivano le rappresaglie militari per razzie che spesso non avevano commesso.

Anche quando il governo prese la decisione di far comperare sul posto i beni da distribuire, i risultati per gli indiani non migliorarono. Gli agenti indiani continuarono ad arricchirsi comperando prodotti scadenti, a poco prezzo, e mettendosi in tasca la differenza fra i fondi ricevuti dal governo per pagare roba buona e le spese sostenute per acquistare robaccia. Stivali di cartone che si scioglievano nella stagione delle piogge primaverili, coperte di cascame pressato che si sbriciolavano dopo poche settimane di uso, utensili e coltelli di latta che si piegavano quando gli indiani cercavano di adoperarli, e quintali di pancetta, lardo, farina andati a male divennero la regola per la dieta quotidiana di chi aveva rinunciato a procacciarsi da se di che vivere.

Con chi potevano protestare i Capi Tribù? A chi potevano fare appello?

Al Piccolo Padre che li derubava? Al Grande Padre Bianco, il Presidente degli Stati Uniti lontano migliaia di chilometri e quindi irraggiungibile? Al Comando militare della regione, dove molti ufficiali, scontenti esattamente come i funzionari civili, spartivano con loro la torta del grande saccheggio? Ai politici  che prendevano mazzette dagli agenti? Ai giornalisti che avevano solo il compito di contribuire a diffondere ed alimentare l’urgenza di trovare la soluzione al problema indiano.

Non c’era assolutamente nulla che le tribù potessero fare per ottenere il rispetto dei patti se non abbandonarsi a periodici scoppi di furia cieca e vendicativa contro gli agenti indiani che li affamavano e contro ogni bianco gli capitasse a tiro.

I Sioux Santee furono costretti alla rivolta armata anche a causa della disonestà del loro agente, tale Myrick, che per due anni non aveva dato loro un solo centesimo o un sacco di farina. I capi lo avevano avvertito che la tribù era esasperata e che un’esplosione di collera era imminente. La sua risposta fu che se gli indiani avevano fame potevano mangiare i loro escrementi e l’erba della prateria. Non passò molto dopo che i Sioux attaccarono l’agenzia ed il cadavere di Myrick fu trovato con una freccia conficcata nel cuore e la bocca piena di feci umane e di erba.

Gli indiani non erano soltanto le vittime da spennare ma una vera e propria selvaggina creata per l’arricchimento dell’Uomo Bianco. Tutti cercavano di approfittarne e non solo gli Agenti Indiani.

I soldati scotennavano e castravano i morti per farne dei souvenir da vendere. Gli ufficiali che speravano di fare carriera in fretta ingigantivano la minaccia rossa e si mostravano spietati con il nemico. Persino i cacciatori di pellicce inviati dalle società commerciali americane ricevevano paga doppia se riuscivano a dimostrare che la loro zona di lavoro era pericolosa ed infestata dai pellerossa.

Erano stati proprio i primi boscaioli ed i trappolatori della costa atlantica e delle selve dei grandi laghi ad incentivare tra gli indiani la pratica dello scotennamento. Essi ricevevano dai loro datori di lavoro, che volevano bonificare le terre da sfruttare commercialmente, 100 dollari per ogni indiano ucciso. I padroni però esigevano che fossero portati loro gli scalpi, come prova inconfutabile dell’avvenuto assassinio.

 

Incarichi. Di qui la necessità di assegnare l’incarico a persone con solide qualità personali, sia umane sia professionali. Almeno nelle intenzioni...

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Sotto: un agente indiano del Montana

Delegazione di Crow (con il capo Plenty Coups) ed il loro agente indiano

Ancora un agente indiano

 

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