Spirit Lake
entro la
piccola capanna, lo scoppio del fucile doveva essere stato
assordante. Colpito alla schiena, Rowland Gardner cadde e morì senza
lottare. Nell’arco di pochi minuti, sua moglie, sua figlia, suo
figlio e due nipoti furono picchiati a morte con il calcio dei
fucili e con ceppi di legna da ardere.
La tredicenne
Abbie Gardner vide tutto quel che era accaduto. Seduta su una sedia,
con in braccio il bimbo di sua sorella, assistette alla scena in
silenzio, come quando sua madre e sua sorella erano state trascinate
fuori, come quando la capanna era stata saccheggiata , come quando
il suo fratellino e i suoi due nipotini le erano stati strappati
dalle braccia uno a uno. “Per tutto il tempo rimasi muta e senza
lacrime,” scrisse in seguito, “ma quando rimasi sola li supplicai di
uccidermi.”
Invece Abbie fu
fatta prigioniera da quegli assassini, una banda di indiani Sioux
ribelli agli ordini di un capo chiamato Inkpaduta. Essi non volevano
uccidere Abbie, ma volevano uccidere altri. Molti altri.
L’8 marzo 1857
fu il primo giorno del massacro di Spirit Lake, il crimine più noto
nella storia degli Iowa. Quando il massacro ebbe fine, 38 vittime
giacevano a terra morte.
Sebbene il suo
nome possa essere tradotto in “Cima Rossa” o “Punta Scarlatta”,
generalmente egli è conosciuto come Inkpaduta. Abbie Gardner lo
ricordava come “un mostro selvaggio con sembianze umane, il cui
unico luogo poteva essere l’angolo più buio dell’Ade.”
Nelle favole, i
cattivi sono brutti e spaventosi. Così era per Inkpaduta. Al tempo
del massacro, egli era circa sulla sessantina, e il suo volto era
segnato da profonde cicatrici causate dal vaiolo, la malattia che
aveva ucciso così tante anime tra la sua gente. Se si fosse trattato
di una leggenda, egli sarebbe stato visto come un mostro, un essere
più diabolico che umano. Nella realtà, Inkpaduta era un uomo
violento che viveva una vita di violenze. Ma ogni storia fa parte di
una storia più grande, e lo stesso è per il massacro di Spirit Lake.
Guardando la storia più grande, quella della sua vita, Inkpaduta può
essere compreso meglio, perlomeno, ma non è certo meno colpevole.
Quando i
Gardner si stabilirono nelle vicinanze di Spirit Lake nel 1856, si
stavano inoltrando nel cuore di un territorio instabile. Abbie
ricordava che lungo una delle strade che provenivano da Clear Lake,
“incontravamo spesso ‘pellirossa’, ogni giorno, e alla notte
rimanevamo ad ascoltare gli ululati dei lupi.”
Questi
‘pellirossa’ erano chiamati Sioux dai bianchi, ma essi chiamavano sè
stessi Dakota. I nomi erano causa di parecchia confusione, e a
quell’epoca la parola “Sioux” evocava l’immagine dei Lakota delle
pianure del nord, dei teepe e dei bisonti, e della battaglia di
Little Bighorn. I Dakota, o Santee Sioux, erano un popolo abituato
ai boschi così come alle praterie, e tanto per complicare
ulteriormente il racconto, non vivevano in quello che oggi è lo
stato di Dakota, ma nel Minnesota e nell’Iowa del nord. Essi avevano
un passato di relazioni amichevoli con i bianchi, una storia che
durava da due secoli al tempo in cui i Gardner costruirono la loro
nuova capanna vicino alla sponda ovest di Okoboji Lake.
Ma da allora le
cose cambiarono, e sarebbero rimaste così per molto tempo, e i
Dakota erano nervosi.
Si supponeva
che il trattato del 1851 avrebbe risolto ogni cosa. Cresceva la
pressione da parte dei coloni bianchi nel Minnesota dell’est,
cresceva la fame negli accampamenti Dakota, e crescevano i debiti
che i Dakota avevano accumulato con i commercianti bianchi. Si
pensava che tutto ciò sarebbe stato spazzato via da una grande
cessione di territori. Varie tribù acconsentirono, sotto pressione,
a vendere molte terre in Minnesota e nell’Iowa del nord, tenendo per
sé una riserva lungo il Minnesota River. In cambio, il governo degli
Stati Uniti acconsentì, tra le altre cose, ad un pagamento annuale
in denaro e cibo, e concesse ai capi Dakota di governare gli affari
tribali della propria gente.
In realtà, i
trattati si rivelarono una grande truffa. I Dakota stipularono
l’accordo credendo che le loro nuove entrate avrebbero potuto
aiutarli a mantenere il loro stile di vita di cacciatori e
raccoglitori, in un mondo dove cresceva sempre più la scarsità di
selvaggina e i ricchi coloni. Ma i bianchi vedevano i trattati come
un mezzo per distruggere quello stile di vita e trasformare gli
indiani in agricoltori. A questo scopo, la riserva era vista come un
luogo dove avrebbero potuto essere concentrati anche i Dakota che si
erano allontanati dalla tribù, dove avrebbe potuto essere scalzata
la struttura tribale e rimpiazzata con i valori degli agricoltori e
dei capitalisti americani. In breve, sarebbe stata una scuola di
civiltà, con la fame come insegnante.
La nuova
riserva venne amministrata con una miscela di idealismo, corruzione,
ingenuità e incompetenza. Il denaro dei Dakota venne dirottato ai
commercianti, che vendettero loro merce a credito con prezzi
esorbitanti. Le forniture di viveri del governo arrivarono
danneggiate. Nel 1854, un ufficiale dell’esercito riferì che mentre
stavano rimuovendo le doghe di un barile di farina, questa “stava
dritta e in forma, ed era dura come un mortaio.” La farina venne
distribuita comunque, insieme a fette di maiale rancido. Spesso,
questo era tutto quello che c’era da mangiare. In queste
circostanze, molti Dakota iniziarono a tornare nelle terre che erano
state cedute, specialmente verso quelle zone dove c’erano pochi
insediamenti di bianchi.
Inkpaduta e i
suoi seguaci furono uno di quei gruppi di Dakota che si
allontanarono dalla riserva. Ma diversamente dalla maggior parte
degli altri, essi non avevano nemmeno iniziato a stabilirsi nella
riserva, perlomeno non in maniera stabile. Benché Inkpaduta
appartenesse alla tribù Dakota dei Wahpekute, uno dei gruppi che
avevano firmato il trattato, egli non aveva presenziato ai consigli
che lo avevano preceduto. Egli non era stato là, ma si era opposto
al trattato, e per lungo tempo era stato in conflitto con il suo
stesso popolo.
I tumulti
avevano avuto inizio con il padre di Inkpaduta, Wamdisapa. Wamdisapa
ed un altro uomo erano capi rivali di un villaggio; in seguito
l’altro uomo venne assassinato. Molta gente credeva che Wamdisapa e
Inkpaduta fossero coinvolti in quell’uccisione. Quando Wamdisapa fu
assassinato pochi anni dopo, il villaggio si divise.
Quelli che
erano rimasti dei seguaci di Wamdisapa alla fine si spostarono in
Iowa, vicino all’attuale Fort Dodge. A quel tempo, il villaggio era
sotto la leadership di un capo chiamato Sintomnaduta, ritenuto da
qualcuno il fratello di Inkpaduta. Nel 1852, Sintomnaduta venne
colpito a morte con un’ascia da un noto commerciante di whiskey e
ladro di cavalli di nome Henry Lott. Quasi tutta la famiglia di
Sintomnaduta, nove tra donne e bambini, morì nel corso del brutale
attacco.
Inkpaduta si
trovava nuovamente in posizione di leadership. Sorprendentemente,
egli non scese sul sentiero di guerra. Invece decise di informare
dell’omicidio un ufficiale dell’esercito statunitense di stanza a
Fort Dodge. Sicuramente i bianchi avrebbero punito un uomo come Lott..
Da principio,
pareva che la corte trattasse il caso seriamente. Sebbene Lott fosse
fuggito, venne incriminato in contumacia. Ma, in un evidente atto di
disprezzo compiuto nei confronti di tutti i Dakota, il procuratore
inchiodò la testa di Sintomnaduta ad un palo sopra alla sua casa, e
la lasciò lì. Lott non tornò più nell’Iowa, e nessuno cercò mai di
trovarlo.
Venne poi il
brutale inverno del 1856-57. I Gardner e i loro vicini si erano
ritirati nelle loro piccole capanne, razionando le loro scarse
provviste di cibo. Il villaggio di Inkpaduta si trovava a circa
dieci miglia a nord, a Loon Lake, in Minnesota. Quell’inverno il suo
popolo era affamato, e uno dei suoi nipoti morì di fame prima che il
gelo fosse terminato.
La riserva si
trovava a nord, dove si supponeva ci fosse del cibo. Ma non ce
n’era. Quell’inverno gli indiani della riserva vennero ridotti
all’accattonaggio dai coloni bianchi. Inkpaduta venne a sapere di
questa situazione, o forse poteva immaginare. Nel mese di dicembre
egli iniziò il suo viaggio verso sud lungo Little Sioux, diretto nel
cuore dell’Iowa.
A febbraio,
Inkpaduta e la sua gente si accamparono nei pressi della città di
Smithland nella contea di Woodbury. Per loro c’era la speranza di
una buona caccia. Anche se il wapiti era stato scacciato dalle
praterie dai venti pungenti, aveva trovato rifugio in un boschetto
poco lontano. Tuttavia gli abitanti locali erano allarmati dal fatto
che i Dakota si trovassero così vicini, anche se una famiglia del
posto aveva stabilito senza alcuna difficoltà buoni rapporti con
loro.
Presto nacquero
sospetti che i Dakota affamati stessero rubando il frumento dalle
scorte dei coloni. Poi si creò una discussione molto animata
sull’uccisione di un wapiti. Alla fine, un gruppo di coloni armati
si recarono all’accampamento di Inkpaduta e gli ordinarono di
lasciare la zona. Inkpaduta disse che sarebbe partito il giorno
dopo, promettendo di seguire il suo percorso lungo il fiume fino a
raggiungere gli indiani Omaha. Ma i coloni temevano un agguato
notturno, per questo portarono via tutte le armi ai Dakota, dicendo
a Inkpaduta che le avrebbe ritrovate sul suo cammino fuori dalla
città.
Ma le armi non
furono mai riscattate. Invece di dirigersi verso sud, Inkpaduta
puntò direttamente a nord verso Little Sioux. Forse egli ebbe paura
che i bianchi stessero preparando un’imboscata. Forse egli era
semplicemente arrabbiato. Attraversando gli accampamenti Cherokee e
Peterson, la sua gente rubò delle armi e uccise del bestiame. Le
notizie si diffusero, racconti enfatizzati di stupri e saccheggi, e
i coloni terrorizzati lasciarono che gli infuriati Dakota facessero
quello che più gli aggradava. Nessun colono venne ucciso.
In ogni caso,
notizie su quanto stava accadendo non giunsero alle piccole capanne
di West Okoboji. Quella gente era troppo lontana. Quando Inkpaduta
giunse là il 7 marzo, egli non era atteso e nessuno aveva paura di
lui.
Essi giunsero
alla capanna dei Gardner proprio quando la famiglia si stava sedendo
per la colazione. Era domenica mattina, era l’8 marzo. Ammassati
nella capanna, Inkpaduta e i suoi uomini chiesero cibo e munizioni.
Venne dato loro quello che avevano chiesto. Comunque, la situazione
stava diventando tesa. Due uomini, un Dakota e un bianco, lottarono
sopra un mucchio di polvere. Il Dakota sollevò la sua pistola;
l’altro uomo la spinse via. A quel punto giunsero due vicini, e i
Dakota lasciarono la capanna.
Non è nulla,
passerà, disse uno dei vicini. Rowland Gardner la pensava
diversamente. Quelli sarebbero tornati. Egli volle avvisare gli
altri coloni, riunendoli per raccontare l’accaduto. In tutto
soltanto una quarantina di bianchi vivevano nella contea di
Dickinson, e le loro capanne erano sparse, isolate l’una dall’altra,
vulnerabili. Ma i vicini non si curarono di ciò, e tornarono a casa.
Due uomini che
vivevano con i Gardner uscirono per passare parola di quanto era
successo. Dopo circa un’ora, alle tre precise, i Gardner udirono
colpi di arma da fuoco. Poi più nulla. Per due ore essi attesero
ansiosamente nella loro capanna, finchè Rowland Gardner non potè più
resistere. Egli uscì per indagare. Il sole era già basso
all’orizzonte; presto sarebbe sopraggiunta l’oscurità.
Non aveva fatto
molta strada quando tornò precipitosamente alla capanna. “Stanno
arrivando nove indiani,” disse, “e siamo tutti condannati a morire!”
Gardner volle
barricare la porta e si preparò per un assedio. “Mentre loro ci
uccideranno tutti, io potrò al massimo uccidere qualcuno di loro!”
disse. Ma la signora Gardner protestò. Forse c’era ancora speranza;
forse lo scontro poteva ancora essere evitato. Così la porta venne
lasciata aperta, e Inkpaduta e i suoi uomini entrarono domandando
ancora farina. Gardner, andando verso il barile della farina, dette
brevemente le spalle ai Dakota. Un attimo dopo egli era morto.
Dopo che la sua
famiglia era stata uccisa, Abbie venne portata all’accampamento di
Inkpaduta, a circa un miglio di distanza. Era già buio, ma
l’accampamento era illuminato dalla luce proveniente dall’incendio
di una capanna poco distante. Gli uomini che si trovavano
all’interno erano ancora vivi, e stavano urlando. All’esterno, stesi
a terra, Abbie riconobbe i corpi dei suoi vicini, compresi quelli
che avevano pensato che non ci fossero problemi. I loro fucili
giacevano nella neve accanto ad essi. C’era stato un combattimento,
sebbene Abbie vedesse un solo Dakota ferito.
Inkpaduta
organizzò una danza della guerra quella notte. Venti persone erano
morte quel giorno. Altre sarebbero morte l’indomani.
Le vittime del
giorno seguente vennero colte di sorpresa, di capanna in capanna.
Furono distrutte quattro famiglie, e due donne, Lydia Noble 20 anni
e Elizabeth Thatcher di 19, vennero fatte prigioniere. Il marito di
Elizabeth Thatcher si trovava altrove in quel momento; Lydia Noble
non fu così fortunata: ella fu testimone dell’uccisione di suo
marito e dei suoi due bambini. Pochi giorni dopo, una
diciassettenne, Margaret Marble, venne fatta prigioniera nei pressi
di Spirit Lake dopo che suo marito era stato assassinato.
Alle Quattro
prigioniere vennero dati dei mocassini, venne detto loro di
intrecciare i capelli e di dipingersi il volto alla maniera Dakota.
Alla fine, le donne indossarono anche abiti Dakota. Come le donne
Dakota, esse tagliavano la legna, costruivano le tende, preparavano
il cibo e portavano pesanti zaini durante gli spostamenti. Gli
uomini non dovevano fare nessuna di queste cose.
Essi diressero
verso nord fino allo stato di Minnesota. I guerrieri di Inkpaduta
attaccarono la città di Springfield (l’odierna Jackson), quindi si
ritirarono, dirigendo verso ovest verso Big Sioux River. Benché
fosse marzo, la neve era ancora abbondante e il tempo molto rigido.
Un gruppo di civili armati, che partirono da Fort Dodge diretti
verso i laghi il 25 marzo, dovette attraversare cumuli di neve alti
da quindici a venti piedi. Quattordici miliziani accusarono sintomi
da congelamento, e altri due, che si erano separati dal gruppo,
morirono congelati nella contea di Palo Alto. La regione era così
isolata che i loro corpi vennero ritrovati soltanto undici anni
dopo. Nonostante queste condizioni, Inkpaduta e la sua gente
continuarono il viaggio; uomini, donne e bambini avanzavano a fatica
attraversando torrenti ghiacciati, mentre le quattro prigioniere
restavano spesso senza cibo, anche per due o tre giorni di seguito.
Elizabeth
Thatcher fu la prima prigioniera a morire. Poco dopo la sua cattura,
si ammalò di flebite e di altri disturbi. Una delle sue gambe si
gonfiò e diventò nera; le vene si ruppero; ella era troppo debole
per portare il suo zaino. Strano a dirsi, ma dopo sei settimane di
viaggio ella si ristabilì un po’. In seguito, durante
l’attraversamento del Big Sioux River, un giovane Dakota prese il
suo zaino e la spinse dentro la corrente ghiacciata del fiume. In
qualche modo, ella riuscì a nuotare fino alla riva, ma venne presa a
bastonate da altri Dakota. Alla fine le spararono. Sconvolta, Lydia
Noble tentò di convincere Abbie a tornare verso il fiume insieme a
lei, per trovare insieme la morte annegandosi. Abbie rifiutò.
Essi
proseguirono verso ovest fino a primavera inoltrata, attraversando
l’attuale South Dakota. Il 6 maggio, due Dakota della riserva
acquistarono Margaret Marble, e la portarono a St.Paul alle autorità
del Minnesota. Circa un mese più tardi, Lydia Noble rifiutò con
rabbia di lasciare il tipi quando il figlio di Inkpaduta, Nuvola
Rombante, glielo ordinò. Egli la trascinò fuori e la uccise a
randellate.
Abbie era di
nuovo sola tra i suoi rapitori, viaggiando verso nordovest
attraverso una prateria così vasta che “disperavo di poter vedere di
nuovo un albero.” In realtà, da tempo ella disperava di poter vedere
di nuovo la libertà.
Ma la sua
salvezza non era poi così lontana. Inkpaduta era entrato nel
territorio degli Yankton, a cui Abbie era stata venduta. Gli Yankton
a loro volta l’avevano venduta a tre uomini Dakota che erano giunti
per soccorrerla, con grossi rischi per sé stessi.
“Il nostro
comportamento dimostra l’apertura di cuore che gli indiani hanno
verso i bianchi,” disse uno dei soccorritori, Hotonwashte (“Voce
Buona”), quando Abbie tornò a St. Paul. “Eravamo pronti a dare la
nostra vita a beneficio dei bianchi all’accampamento di Inkpaduta;
ma il Grande Spirito ha avuto pietà di noi e ci ha preservati.
Questo dimostra che gli Wahpeton (la tribù Dakota alla quale egli
apparteneva) sono brava gente.”
Voce Buona
sapeva che tutti i Dakota sarebbero stati ritenuti responsabili del
massacro. Venne anche proposto di sospendere tutti i pagamenti
annuali ai Dakota finchè Inkpaduta non fosse stato catturato. Alla
fine l’idea venne lasciata cadere. Nel frattempo, Dakota
“amichevoli” come Beautiful Voice si trovavano in una posizione
difficile, mentre in molti Dakota simpatizzanti di Inkpaduta
cresceva l’amarezza per aver firmato quei trattati. Intanto, negli
insediamenti dei bianchi, i gruppi di miliziani crescevano, proprio
mentre i coloni fuggivano verso est con tutto ciò che possedevano.
Nella confusione, i miliziani tesero un’imboscata ad un gruppo di
indiani innocenti, ma non riuscirono a trovare Inkpaduta.
Liberata dopo
tre mesi di prigionia, Abbie Gardner visse una vita lunga e
turbolenta, passando attraverso un matrimonio fallito, due case
incendiate, la morte dei suoi bambini, e anni di salute cagionevole.
Nel 1891, ella comprò la fattoria che era stata dei suoi genitori,
aprì un negozio nella capanna usandola come un’attrazione turistica,
vendendo memorabilia della frontiera e copie del libro nel quale
raccontava il massacro. Oggi la capanna è ancora lì.
Negli anni che
seguirono il 1857, Inkpaduta divenne una leggenda tra i coloni, una
sorta di mostro uscito da un libro di fiabe, e spesso si mormorava
che fosse nascosto in qualche posto lì vicino. Le relazioni tra i
Dakota e i bianchi vacillavano, erano molto precarie, e alla fine
esplosero in una massiccia insurrezione in Minnesota nel 1862, che
costò la vita a circa cinquecento coloni bianchi e a un numero
imprecisato di Dakota. Inkpaduta era là, ma il suo ruolo, se mai ne
abbia avuto uno, non è mai stato chiarito.
Quando la
sommossa rientrò, egli fuggì a est verso le pianure, cedendo alla
fine alle pressioni dei Lakota e diventando amico di Toro Seduto.
L’uomo sacro Lakota Alce Nero ritiene che Inkpaduta fosse uno dei
grandi uomini presenti a Little Bighorn nel 1876, quando Custer
venne “cancellato”.
Quando l’anno
seguente la resistenza Lakota si disintegrò, Toro Seduto e la sua
gente fuggirono in Canada. Inkpaduta, vecchio e sempre più miope,
andò con loro. Diversamente da Toro Seduto, egli non tornò più negli
Stati Uniti, non si arrese mai e non venne mai catturato. Morì a
Manitoba nel 1881.
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