Brokeback Mountain
he il West dei duri e puri sia soprattutto una
leggenda, lo si sa ormai da decenni. E’ noto, almeno agli studiosi e
appassionati di questo genere, che Calamity Jane, sedicente amante
dello sceriffo Wild Bill Hickok, non disdegnasse le compagnie
femminili; che Charlie Parkhurst, conducente di diligenze conosciuto
da tutti come un energico conducente di diligenze, fosse in realtà
una femmina e che la famigerata fuorilegge Myra Belle Shirley,
meglio nota come Belle Starr, intrattenesse addirittura una
relazione incestuosa con il figlio.
Qualche regista “coraggioso” ha osato sfiorare queste scabrose
tematiche in epoche in cui l’argomento era ancora rigorosamente
tabù. Fra questi, il grande John Ford, che in “Sentieri selvaggi”
(1956) lasciò trasparire in modo abbastanza evidente l’esistenza di
rapporto, non si sa fino a che punto platonico, fra Ethan Edwards (John
Wayne) e la cognata Martha (Dorothy Johnson) mentre Robert Aldrich –
“L’occhio caldo del cielo”, 1961 – escogitò addirittura un amore
impossibile fra l’avventuriero Brendan O’Malley (Kirk Douglas) e la
giovane Melissa (Carole Lynley) della quale il protagonista scoprì
in seguito di essere il padre naturale. Anni dopo, il regista Don
Siegel, un altro grande maestro del cinema, si spinse oltre con “La
notte brava del soldato Jonathan”, interpretato da Clint Eastwood,
svelando la tormentata relazione segreta della direttrice di un
collegio femminile con il proprio fratello, un ufficiale
dell’esercito confederato.
Tutto ciò è stato tuttavia considerato quasi
nella norma, almeno fino alla comparsa sugli schermi di “Brokeback
Mountain”, il film – vincitore del Leone d’oro alla 62^ Mostra del
Cinema di Venezia - che ha maggiormente scosso le coscienze, facendo
inorridire i più accesi sostenitori del western alla John Wayne.
Infatti, benché il tema dell’omosessualità sia già stato trattato
più volte dal cinema, per il genere western si può considerare una
novità pressoché assoluta, soprattutto quando viene affrontato nella
maniera esplicita del libro di E. Annie Proulx (intitolato in Italia
“Gente del Wyoming”, edizioni Baldini Castoldi Dalai, Milano,
2001-2005) che la pellicola ricalca praticamente senza saltare una
battuta.
Per la prima volta, un rapporto sessuale fra
due maschi è descritto senza metafore, mascherando gli imbarazzanti
particolari su cui indugia l’autrice del romanzo, nell’oscurità di
una tenda piantata su una montagna dai due sorveglianti di pecore.
Del resto, anche il nome della località – che significa “montagna
spaccata dietro” – è impietosamente allusivo. La
storia, che inizia nel 1963, è talmente semplice da rasentare la
banalità: con grande mestiere ed abilità, la Proulx, una scrittrice
ora settantenne, riesce a vivacizzarla, col suo stile scarno ed
essenziale, condensandola in un volumetto di sole 50 pagine.
Narra di due mandriani del Wyoming ingaggiati per sorvegliare delle
greggi sui pascoli di montagna. Si tratta di due persone normali,
legate dallo spirito cameratesco di tutti i cow-boy, che trovandosi
a dormire nella stessa tenda in una notte molto fredda, cedono
all’impulso di avere un rapporto sessuale. La precisazione fatta da
Ennis del Mar (Heath Ledger) la mattina dopo (“Finisce qui”) al
collega che gli ha fatto da “compagna” la sera precedente, non
impedisce che la relazione continui per parecchio tempo. Anche
quando i due si separano e Ennis viene colto da una violenta crisi,
si tratta di un distacco momentaneo. A distanza di pochi anni, Jack
Twist (Jake Gyllenhaal) – che nel frattempo si è trasferito nel
Texas ed ha sposato la figlia di un ricco allevatore – si rifà vivo,
scrivendo all’amico che passerà a trovarlo in Wyoming, dove anche
questi nel frattempo ha preso moglie. Ennis risponde con un
laconico, quanto perentorio “Ci puoi scommettere” (Proulx, op. cit.,
p.20) e il “feeling” si riaccende prepotentemente.
Gli incontri clandestini proseguono, prima in un motel, poi nella
silenziosa cornice di Brokeback Mountain, in una tenda come ai tempi
del primo rapporto. La conseguenza è il divorzio di Ennis dalla
moglie, che ha scoperto tutto fin dalla prima ricomparsa di Jack. Ma
alla fine fra i due sorgono seri problemi, perché quest’ultimo non
si accontenta delle poche volte in cui può soddisfare i suoi
appetiti sessuali con il compagno e incomincia ad andare in cerca di
altri partners in un equivoco quartiere oltre il confine messicano.
Infine Jack lancia la proposta ad un altro uomo conosciuto ad una
festa nel Texas e probabilmente quest’ultimo azzardo gli è fatale.
Ennis, appreso della morte accidentale dell’amico dalla poco
convincente telefonata della sua vedova, si reca a trovare i
genitori di Jack, che vivono in una modesta fattoria nel Wyoming.
E’ la conclusione di una vicenda torbida e non troppo segreta, che
la mentalità tradizionalista del West non può accettare, benchè si
sia ormai giunti agli Anni Ottanta. Nonostante Ennis sia convinto
che il suo amante è stato ucciso, camuffando il delitto dietro il
racconto di un incidente, si rassegna all’ineluttabilità della
sorte. Brokeback Mountain rimane l’immagine di una vicenda con
“niente di finito, niente di iniziato, niente di risolto” (Proulx,
op. cit., p. 41).
Dunque, un ottimo film ricavato da un romanzo tanto conciso da
sembrare un racconto breve. Annie Proulx ha compiuto il miracolo di
raccontare la vita di due uomini in un fazzoletto, riuscendo
nell’intento di non trascurare alcun particolare significativo. E’
un romanzo perfetto, veloce e coinvolgente, nel quale l’autrice non
usa una sola parola in più.
Ang Lee – 51enne regista emergente, nativo di Taiwan, già autore di
un western poco noto intitolato “Cavalcando con il Diavolo” nel 1999
- ha fatto il resto, copiandolo sullo schermo come solo un grande
pittore riesce a fare con un quadro.
Non è naturalmente la prima volta che il cinema mostra al pubblico
sequenze di sesso fra uomini. Si possono ricordare, fra i più
celebri film del passato, “Un tranquillo week end di paura” di John
Boorman (1972) e “Cruising”, di William Friedkin (1980).
Per il genere reso famoso dai cow-boy - se si esclude qualche
discutibile tentativo, nel periodo in cui lo spaghetti western era
ormai in declino - si può parlare invece di novità assoluta, almeno
per il modo in cui la storia viene presentata.
Alcuni critici si sono più volte soffermati sui contenuti ambigui di
“Ultima notte a Warlock”, famosa pellicola diretta da Edward
Dmytryck nel 1959, nella quale l’amicizia virile fra il pistolero
Clay Blaisdell (Henry Fonda) e la sua spalla Tom Morgan (Anthony
Quinn) finisce per assumere i contorni di un rapporto omosessuale.
Anche Jim Jarmush, in tempi molto più recenti (“Dead Man”, 1995)
offre al pubblico la sequenza di un vagabondo, vestito con abiti
femminili, che si è dato in moglie ad un altro uomo, lasciando
intendere che situazioni simili fossero tutt’altro che rare anche al
tempo di Buffalo Bill. Ma si è trattato di accostamenti sporadici ad
un problema che l’intera storia del West sembra avere ignorato
completamente.
Il motivo per cui “Brokeback Mountain” ha fatto tanto scalpore
risiede certamente nel fatto che il West sia sempre stato
considerato il regno del maschio virile, un mondo nel quale la donna
– relegata ad un ruolo secondario e spesso marginale, almeno fino
all’uscita di film come “Soldato Blu”, 1971 – è soltanto l’ideale
completamento della personalità del protagonista: estranea
all’azione, raramente volgare, sempre in trepida attesa del suo
partner, per dare vita insieme a lui al sogno di una famiglia. Nel
western la figura femminile, fuori dai casi in cui diventa
semplicemente una “calda preda” o un bottino di guerra, è il premio
finale dell’eroe, la compagna che sarà, una volta spento l’ardore
della lotta, moglie e madre in un assetto sociale rapidamente
avviato alla civilizzazione.
Ang Lee sembra voler significare che probabilmente le vicende umane
non seguono sempre questo filo logico.
E’ vero che la vicenda di “Brokeback Mountain” si svolge negli Anni
Sessanta del Novecento, proseguendo per circa un ventennio, ma il
contesto non è dissimile da quello di un secolo addietro, nel senso
che la vita del cow-boy moderno non è meno aspra e solitaria di
quella del suo antenato ottocentesco. Dunque, non avrebbe senso
sostenere che ormai l’epopea del West sia soltanto un ricordo remoto
per l’assenza degli Indiani, oppure perché i carri siano stati
sostituiti da auto e camioncini. Come ha affermato giustamente il
critico Aldo Viganò (“Storia del cinema western in 100 film”, Le
Mani, Genova, 1994, p.152) “il cinema western ha trovato, a volte,
modo di esistere anche al di là dei limiti cronologici della
conquista del West”
Il cow-boy ha sempre condotto un’esistenza precaria, fatta di marce
estenuanti, di sudore e di polvere. Per contro, le donne nel West
furono sempre, almeno fin dopo l’arrivo delle ferrovie, abbastanza
poche. Sappiamo che questo discendente del leggendario Pecos Bill
trascorreva il suo tempo libero fra partite di poker e prostitute,
sbornie colossali e risse nei saloon. Ma la parte preponderante
della sua vita la spendeva nei pascoli, a sorvegliare, radunare e
marchiare il bestiame, per poi condurlo a destinazione attraverso i
polverosi sentieri che solcavano le praterie dal Texas al Montana.
In effetti, la probabilità che in questo mondo di soli uomini
nascesse e si sviluppasse un rapporto come quello vissuto da Ennis
del Mar e Jack Twist, i protagonisti di “Brokeback Mountain”,
avrebbe perciò potuto essere abbastanza elevata. Ma la storiografia
ufficiale – che pure non si è mai fatta scrupolo di insistere sui
particolari di massacri, torture e violenze sessuali - non ricorda
alcun caso del genere. C’è da chiedersi pure se non appaia strano
che in luoghi “pettegoli” com’erano le cittadine del West – dove
tutti conoscevano così bene le abitudini e i segreti degli altri –
non siano mai emerse indiscrezioni di questo tipo. Se si vuole
prestar fede alla nutritissima documentazione sull’epopea –
biografie, testimonianze, rapporti, notizie di cronaca – si deve
necessariamente concludere che i casi di omosessualità maschile
fossero del tutto assenti. Per quanto riguarda le donne, si è già
accennato invece alle trasgressioni di Calamity Jane, personaggio
che comunque non stupiva i benpensanti solo per questa
“eccentricità”.
Fatta questa premessa fondamentale, l’opera del regista americano
non può essere letta come dissacrazione del mito centenario che ha
affascinato diverse generazioni. Forse vuole semplicemente
accreditarsi come un’ipotesi da non escludere a priori, lasciando
intendere che, nella massa degli errabondi cavalieri della prateria,
qualcuno potesse manifestare tendenze diverse da quelle considerate
normali.
Ma, più probabilmente, può darsi sia la sottolineatura della
inarrestabile decadenza di un’immagine che ha perso la sua integrità
dai tempi in cui il cinema revisionista ne mise in dubbio la
monolitica struttura creata dalla leggenda. Non si dimentichi che
anche “Un uomo da marciapiede” di John Schlesinger (1969) aveva come
protagonista un ex cow-boy texano (Jon Voight) trasformatosi in
gigolò nella grande New York e che il clichè dell’uomo della
Frontiera era già andato virtualmente in frantumi in film come “La
caccia” di Arthur Penn (1966) e “L’ultimo spettacolo”, di Peter
Bogdanovich (1971). In entrambi vengono messi a nudo i vizi, la
viltà e l’opportunismo degli abitanti del moderno West, nel quale i
giovani sono soltanto “figure sincere in preda ad un autentico
smarrimento” e “non hanno nulla di Marlon Brando e di James Dean”
(“Un secolo al cinema”, a cura di Gaetano Sandri, Ed. Demetra,
Colognola al Colle, 1997; recensione de “L’ultimo spettacolo”, p.
150).
Ang Lee ha aggiunto ciò che ancora non era stato detto per condurre
a termine il processo di “umanizzazione” dei personaggi che
letteratura e cinema avevano innalzato alla statura di semidei,
incrinando anche l’ultimo caposaldo dell’amicizia virile.
Analizzando i molti film che hanno contribuito, nei modi più
diversi, a svalutare il genere, l’ipotesi di “Brokeback Mountain”
non sembra certo la peggiore.
|