In viaggio nel far-west
stato un viaggio di breve durata, ma
assai intenso, quello effettuato fra il 18 e il 30 luglio 2005
attraverso Colorado, Wyoming, South Dakota e Montana, quattro Stati
che complessivamente misurano 1.104.000 kmq. (oltre 3 volte e mezzo
l’Italia) con una popolazione complessiva di soli 6.500,000 abitanti
(1/9 dell’Italia, che ne ha attualmente 58.000.000).
Il West, conosciuto in tutto il mondo per effetto del cinema, è
questo. E’ l’America vera dei pionieri, dei cow-boys, degli Indiani,
dei soldati a cavallo, delle sparatorie nelle Main Streets.
All’Est, nelle New York o Miami
affollate di grattacieli, mèta preferita e quasi obbligata del
turista italiano ed europeo, c’è l’America moderna, con le sue
megalopoli popolate da genti eterogenee, che spesso non hanno nulla
a che vedere con l’eredità lasciata da Buffalo Bill e Custer, da
Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Laggiù, nelle grandi città della costa
atlantica, regnano tecnologia e modernità e fiumi di traffico si
snodano fra imponenti torri di cemento, ma lo spirito della
Frontiera non esiste più da decenni.
Anche a Denver, da dove la nostra
piccola equipe – due uomini e due donne - ha iniziato il proprio
tour attraverso quattro Stati, entri subito in contatto con
l’essenza dinamica degli Americani: mega-strutture, attività
frenetiche, traffico intenso, ma sempre disciplinato. Eppure, in una
modernissima città di 570.000 abitanti, incontri una cordialità ed
una cortesia che non ti aspettavi, con le persone sempre disposte ad
aiutarti a trovare un museo, un monumento, una piazza e ad
orientarti fra avenues e strade frequentemente contrassegnate da
numeri progressivi. L’organizzazione alberghiera è encomiabile,
l’accoglienza molto cordiale, la disponibilità a fornire
informazioni è totale.
Non è difficile raggiungere, con una Buick Century noleggiata da una
grossa compagnia dell’Oklahoma, il centro cittadino, le vie più
caratteristiche, la splendida Mall Ride, pavimentata come un
salotto, con i suoi “cafè” e ristoranti nei quali è quasi
impossibile sedersi. All’apparenza si tratta della solita città
statunitense dai ritmi veloci e programmati, con i marciapiedi tanto
puliti che diventa difficile scorgervi anche un solo mozzicone di
sigaretta, ma poi si scopre un incredibile attaccamento della gente
alle sue tradizioni più genuine, quelle della Frontiera.
Lo scopo del viaggio è stato, fin
dall’inizio, proprio questo.
Non eravamo venuti per ammirare le
meraviglie del progresso, fatte di sontuosi palazzi moderni,
autostrade a otto corsie ed immensi aeroporti, tantomeno per
misurare il tenore di vita degli Americani di oggi o trascorrere le
serate nei night o nei casino.
Al contrario, volevamo vedere con i nostri occhi le antiche piste
degli emigranti diretti verso l’Ovest, i luoghi delle battaglie con
i Pellirosse, le cittadine di Frontiera dove personaggi come Wild
Bill Hickok incutevano timore soltanto con lo sguardo, i luoghi in
cui il generale Custer perse la vita insieme ai suoi 265
cavalleggeri e Buffalo Bill trascorse i suoi ultimi giorni
ripensando nostalgicamente al proprio favoloso passato.
Per questo il nostro primo obiettivo
diviene subito Lookout Mountain, 40 Km ad ovest di Denver, situata
ad un’altitudine di oltre 7.300 piedi (circa 2.400 metri).
Un luogo isolato, da cui si domina un’immensa vallata. Qui si
trovano le tombe di William Frederick Cody, il celeberrimo Buffalo
Bill e di sua moglie Louise Frederici. Il piazzale antistante il
museo è zeppo di automobili di ogni provenienza: Americani di altri
Stati, Florida e New York inclusi, Messicani, Francesi. Noi, che
siamo gli unici Italiani presenti, veniamo spesso scambiati per
Tedeschi, Olandesi o Danesi e la gente si sorprende che abbiamo
tanto interesse per la loro storia più leggendaria. Viene spontaneo
rammentare che John Ford, con i suoi capolavori sul West, ha parlato
al mondo con un linguaggio universale, portando dovunque le gesta
dei protagonisti del West, così come Cody aveva fatto molto tempo
prima con il suo Wild West Show.
All’interno del museo vi è tutto ciò che ciascuno desidera sapere
sul famoso eroe della Frontiera, compreso un registro contenente le
36 tappe che lo scout fece in Italia nel 1890 e nel 1906, allorchè
presentò agli Europei il suo spettacolo itinerante, nel quale
recitavano autentici protagonisti della Frontiera, come Toro Seduto
e Cole Younger della banda di Jesse James, Alce Nero ed il generale
Nelson Miles. Vi sono le armi più comunemente usate da soldati e
cacciatori, esploratori e fuorilegge; fotografie e dipinti, capi
d’abbigliamento e libri. In una sala, viene proiettato in
continuazione un film di 12 minuti che ripercorre la vita e le
imprese dell’eroe. All’esterno, si trovano tende indiane ed un
monumento al bisonte che ritroveremo in ogni altra città visitata.
La cultura del West non trascura nessuno degli elementi che resero
popolare Bill Cody, che deve proprio al bufalo la sua iniziale
scalata al successo.
Nonostante il caldo terribile di 104
Fahrenheit (40 gradi) che non si abbassa neppure di sera ed un vento
caldo opprimente che ci perseguita anche nelle zone d’ombra,
rientriamo a Denver con l’immagine di Buffalo Bill negli occhi,
eccitati come bambini che abbiano assistito a qualcosa di
meraviglioso. Mi soffermo a considerare, con una vena di tristezza,
come ai ragazzi di oggi vengano spesso propinati improbabili eroi e
pseudo-miti di ogni genere e per una volta mi consolo di avere
superato il mezzo secolo di vita.
La sosta del 20 luglio è la città di
Cheyenne, nel Wyoming meridionale, che ci eravamo proposti di
visitare al rientro dal tour nel Montana. Sono 160 chilometri
d’autostrada, che passa fra distese coltivate e pascoli, lungo la
quale si incrociano spesso mastodontici camion a rimorchio, camper e
auto con roulotte. Nel grande albergo che ci ospita, dotato di tutti
comfort di un “quattro stelle”, vediamo arrivare parecchi cow-boys,
provenienti dal Texas, dall’Idaho, dal Colorado e perfino da
California e Florida. Molti vestono secondo un clichè che ci è
familiare, con calzoni, camicia e giubbino jeans e il caratteristico
cappello “stetson” a larghe tese. Recano tutti sulla schiena il
numero di iscrizione alla gara di rodeo che stanno per effettuare
nei prossimi giorni. Dai brevi contatti e dal rapido scambio di
opinioni che ne abbiamo, ci sembrano tutti affabili e conversatori
brillanti, nonostante la fama di uomini taciturni che ci ha
tramandato la miglior tradizione western. Quando si accostano al
bancone del bar, che è naturalmente in stile saloon, scolano birre e
fumano a volontà, ma si ritirano molto presto per l’impegno che
devono sostenere il giorno dopo. La fantasia richiama ovviamente il
compianto attore Steve Mc Queen, nei panni dell’irriducibile
“rodeo-man” de “L’ultimo buscadero”.
La seconda tappa storica è Fort
Laramie, che si trova a nord-ovest di Torrington, in un luogo
distante poco più di 4 chilometri dalla strada principale.
L’originaria palizzata di tronchi che ha reso celebre l’antico
avamposto – fondato del 1833 o 1834 dal cacciatore La Ramèe – non
esiste più da molto tempo, ma all’interno del presidio si respira
ancora l’atmosfera degli anni più avventurosi della Frontiera. Di
qui transitarono, verso la metà del XIX secolo, le carovane di
Conestoga di pionieri diretti alla California e all’Oregon e quelle
dei Mormoni che cercavano una nuova terra promessa nel deserto
dell’Utah. Per parecchi anni, Fort Laramie fu il principale presidio
militare dell’immensa regione compresa fra il South Platte – che
attraversa anche Denver – e lo Yellowstone. Poco prima della Guerra
Civile, l’avamposto – militarizzato fin dal 1849 – possedeva una
guarnigione di 330 uomini, elevata ad oltre 1.000 durante il periodo
più caldo del conflitto con i Sioux di Nuvola Rossa (1866-67)
ridotta poi a 295 nel 1870 e a soli 114 nel 1878, dopo la fine delle
ostilità con gli Indiani.
All’esterno del presidio, vi sono cippi e lapidi commemorative in
cui si parla del colonnello Maynadier, dell’imprudente tenente
Grattan e dei suoi 29 uomini, che nell’estate del 1854 caddero, a
pochi chilometri di distanza, sotto i colpi di 600 inferociti Sioux.
Perfino all’ingresso della “restroom”, i servizi igienici, si
trovano due grandi fotografie di James Butler Hickok e Calamity Jane,
assieme ad un ritratto di Spotted Tail, il capo lakota Coda
Macchiata.
L’interno del forte è tutto un programma. Sotto un sole cocente,
approfittando della scarsa ombra offerta dagli alberi sparsi per il
piazzale e delle brevi pause al riparo degli edifici, visitiamo
questa pietra miliare della storia del West, dalle residenze degli
ufficiali, alle abitazioni dei civili, dove le stanze sono state
ricostruite con gli arredi dell’epoca. Attraverso le vetrate che
impediscono l’accesso alle camere, si vedono chiaramente i letti, le
culle, le stufe, gli abiti, le calzature, gli attrezzi da cucina ed
una varietà di vasi da notte.
Nel posto ristoro della truppa, uno
spiritoso oste in costume d’epoca ci chiede di nuovo se veniamo
dalla Germania. Vi è forse una comprensibile ragione affettiva per
cui sovente ci venga posta questa domanda: da queste parti, oltre il
33 per cento della popolazione è di origine germanica, gli altri
sono anglo-irlandesi e la presenza ispanica e italiana,
considerevole in altre aree d’America, qui è invece del tutto
trascurabile. Chiarita la nostra provenienza, gli spiego che sono
uno scrittore di storia del West e ne rimane compiaciuto ed
incuriosito. Mi mostra alcuni ritratti alle sue spalle, raffiguranti
donne simili a quelle che in un libro di Ann Seagraves sono definite
“soiled doves” ed in un altro di Jon E. Lewis “dirty doves” (sporche
colombe). Sono le “donnine” del West, quelle che lavoravano nei
ritrovi per la truppa e nelle “città del bestiame” in cui facevano
sosta i cow-boys provenienti dal Texas.
La mensa, una lunga costruzione
protetta da un porticato con pavimento in legno, mostra tavoli
apparecchiati per la colazione, con scodelle bianche di terracotta
smaltata e posate di metallo. Quando si ode lo squillo di una tromba
lontana, la mente immagina decine di soldati in divisa blu che si
riversano nel refettorio.
Salendo una stretta e ripida scala, al piano superiore si trovano le
camerate che alloggiavano la truppa di Fort Laramie, con le brande
allineate ed alle spalle l’equipaggiamento individuale delle povere
“facce da mezzo dollaro al giorno” che John Ford rese popolari in
tutto il mondo con i suoi film. I fucili sono disposti in cerchio
vicino all’ingresso, con il calcio appoggiato a terra e le canne
convergenti alla sommità, pronti per essere usati in caso di
allarme.
Attraversando l’ampio cortile in direzione del Visitor Center – dove
vi sono divise, armi d’epoca, fotografie, dipinti, cartoline e
moltissimi libri di storia – si intravede il Laramie River, che, a
differenza di altri fiumi e torrenti incontrati nella regione,
conserva una buona portata d’acqua nonostante la siccità. Abbiamo
modo di vedere perfino le latrine della truppa, che scaricavano
dentro il fiume, in un tempo in cui la parola inquinamento non era
ancora stata inventata.
Mentre mi arrischio ad attraversare il prato falciato di fresco in
direzione del Laramie, rammento l’avvertimento di un ranger di non
mettere piede nell’erba alta, perché da queste parti ed in altri
luoghi del Wyoming si annida il terribile serpente a sonagli, dal
morso fatale. Ma ormai siamo tutti appagati: abbiamo visitato uno
dei maggiori santuari della storia del West e proseguiamo il viaggio
alla volta del South Dakota, con l’odore stantìo delle camerate e la
polvere della piazza d’armi ancora nelle narici.
A metà pomeriggio arriviamo a Lusk,
una cittadina di 2.000 abitanti allineata lungo lo stradone
principale.
L’albergo è confortevole e dotato di una piccola piscina e di un
giardino, l’accoglienza è perfetta come nelle altre località.
L’interno dell’hotel, una bassa costruzione con le camere allineate
al piano terra su due lati contrapposti, divisi da aiuole, ricorda
vagamente la disposizione di un fortino.
Lungo la statale che collega il
Wyoming con il South Dakota, transitano pochissime auto e grossi
camion a rimorchio. Un conducente, che porta un cappello da cow-boy,
si ferma e si affaccia per chiederci se abbiamo bisogno di aiuto.
Rispondiamo di no, ringraziandolo e l’uomo ci saluta con un “You’re
welcome! Stay well!”.
Dal punto più alto della strada in discreta pendenza, che separa le
due file di case della cittadina come le “main street” di un tempo,
prendo un paio di foto della pianura, infinita in qualsiasi
direzione la si guardi. Osservando da una certa angolazione questo
scorcio, fatto di casette sparse e “fast-food”, mi sovviene la foto
in copertina di “Figlio di Dio”, di Cormac Mc Cathy, un
apprezzatissimo cantore moderno del West.
L’Ovest si estende a perdita
d’occhio: è la prateria sterminata e apparentemente senza confini di
cui narrava Francis Parkman, un oceano d’erba che sopravvive ancora
oggi, nonostante i serpenti d’asfalto che si snodano attraverso le
sue suggestive solitudini e molte aree coltivate.
Le successive fermate ci porteranno a
vedere le riserve dei Sioux, dei Crow e dei Northern Cheyenne, le
colossali sculture dei presidenti USA a Mount Rushmore e la statua
ancora incompleta del Crazy Horse Memorial.
Poi faremo la conoscenza dei
famigerati saloon di Deadwood, vedremo la Devil’s Tower, i cow-boys
di Sheridan, Casper e Cheyenne, i bisonti e di nuovo le affollate
strade di Denver.
Soprattutto, ci soffermeremo al
Little Big Horn Battlefield, nel Montana, dove il Settimo Cavalleria
del generale Custer visse la più tragica giornata della sua gloriosa
storia.
Al solo pensiero, un brivido mi
percorre la schiena, facendo accapponare la pelle anche sotto il
sole rovente delle pianure.
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