I forti nel west
n vento forte che spazza la pianura, l’erba
alta che si piega e, sullo sfondo, nuvoloni grigi gonfi di pioggia e
la palizzata marrone scuro di un forte della frontiera americana.
Uno dei tanti forti delle giacche azzurre, l’esercito americano
che fu incaricato di difendere l’inarrestabile avanzata dei
bianchi verso ovest, nelle terre degli indiani. Così ci
immaginiamo, da vecchi lettori di fumetti e appassionati di west, la
frontiera americana protetta da baluardi fortificati sparsi qua e là
nei punti strategici delle piste.
Ma davvero era questa la realtà? Davvero le
fortificazioni erano quelle che pensiamo e che si sono ben impresse
nella nostra immaginazione?
Facciamo uno sforzo e diciamo subito che
“No!”, quasi mai i forti erano quelli che si crede. Le palizzate
fatte di lunghi tronchi di giovani alberi erano più una
caratteristica della prima frontiera, quella degli Inglesi e dei
Francesi in terra americana. Allora c’era abbondanza di legno e,
soprattutto, le caratteristiche geografiche dell’est americano, la
scarsa difendibilità delle postazioni e l’imponente “marea
verde” costituita da boschi e foreste antichissimi, rendevano
necessaria la difesa delle postazioni in maniera da poter resistere
ad eventuali attacchi inattesi. Allora quasi tutto era inatteso e
tutto poteva costituire un pericolo.
Il west, però, quello della seconda avanzata,
quello a ovest del Missouri, quello era diverso. Spoglio, immenso,
intervallato da frequenti “bluff” (collinette), con la visuale
che si estendeva facilmente fino all’orizzonte e poi fino ad un
altro orizzonte, il west della seconda metà del XIX secolo si
prestava ad un controllo del territorio fin troppo semplice. Era
semplicemente impossibile per chiunque avvicinarsi non visti ad un
posto di scambio nelle pianure, tanto meno ad un forte ben dotato di
sentinelle.
Così le fortificazioni militari non erano
cinte da palizzate di legno e torrette ai quattro angoli. No! Erano
semplici agglomerati “urbani”, posati sul terreno polveroso
d’estate e fangoso d’inverno, sui quali vigilavano le sentinelle
in turni di guardia che coprivano incessantemente tutto l’arco
delle lunghe giornate sulle pianure.
Le case erano un sogno allora. I soldati
vivevano in postazioni veramente precarie, condividendo la stanza e,
spesso, la brandina con altri. Nonostante le prescrizioni dei
regolamenti (un bel bagno alla settimana), di sale da bagno non
c’era nemmeno l’ombra e si finiva per ricorrere al solo
immergersi (quando capitava) nell’acqua di un fiume.
Le prime costruzioni erano quelle che dovevano
servire a nascondere ai ladri le cose preziose, le merci, le scorte
dell’esercito, le munizioni. Spesso gli alloggiamenti dei soldati
erano semplici tende o poco più. Di fronte si apriva uno spiazzo
lasciato libero per le adunate e la vita di tutti i giorni e oltre
c’erano le baracche degli ufficiali e lo spaccio, il trading post.
Anche i cavalloni dei soldati, così temuti
dagli indiani abituati ai loro ben più piccoli ponies, avevano
diritto ad una copertura non troppo precaria perché soffrivano
terribilmente per la durezza del clima delle pianure.
Intorno ai forti vivevano persone di ogni tipo:
indiani, avventurieri, contrabbandieri, millantatori, commercianti,
scout. A volte intorno ai forti sorgevano altri abitati o villaggi
che finivano per fare affidamento sui militari per la tutela delle
proprie cose e della vita. Non era semplice mantenere l’ordine e
la noia veniva sovente interrotta da risse, gare di cavalli e
cavalieri, sfide, scambi.
Le guarnigioni di stanza nei forti erano
costituite da giovani delle classi sociali più basse, da
delinquenti in cerca di un riscatto, di gente che semplicemente
voleva un tetto sotto cui passare la notte e un rancio per riempirsi
lo stomaco. A loro era affidata la vigilanza di tratti immensi di
frontiera e il difficile compito di proteggere le carovane dei
bianchi lungo le piste che attraversavano il territorio indiano in
cerca di terra libera da occupare. Non era facile riuscire a tenere
insieme queste persone, addestrarle ed impedirgli di scappare dietro
il primo miraggio, oro o ferrovia, di cui si sentisse parlare
davanti a boccali enormi di birra o whisky di frontiera.
Nemmeno è del tutto vero che i forti avevano
la sola parvenza di piccole città aperte su tutti i lati. Quelli di
montagna, lungo le piste, nel cuore della terra degli indiani, erano
molto simili a quelli che amiamo immaginare. In queste zone la
presenza di frequenti ripari, nonostante l’incessante
disboscamento operato dai soldati, imponeva la massima cautela. Alte
protezioni di legno li cingevano su tutti i lati e i soldati
vigilavano ben protetti dal rischio di ricevere improvvisamente una
freccia in pancia.
Gli indiani. Proprio da loro dovevano
difendersi i soldati. Proprio come baluardo contro la loro
bellicosità nascevano i forti.
La politica dei governanti americani, spinta a
destra e a mancina dalle opposte fazioni, risentiva delle pressioni
e risultava essere ondivaga, incerta. I soldati si trovavano ad
essere comandati all’attacco e subito dopo a fare rientro nei
forti ad ingannare il tempo.
Raramente, comunque, gli indiani osarono
attaccare i forti dei soldati blu. Il modo stesso di concepire la
guerra da parte degli indiani, il non accettare larghe perdite
umane, il loro stesso modo di vita poneva i forti al riparo dalla
violenza degli assalti dei nativi. D’altra parte, gli stessi
indiani erano spesso contenti di sapere i bianchi ben chiusi dentro
i forti. Era sempre meglio che saperli a spasso per la loro terra.
In ogni caso, gli indiani sapevano bene che i
bianchi, se riparati dietro le palizzate o dietro le strutture in
legno dei carri, erano troppo ben protetti per essere vinti. Non
c’era onore in un attacco al forte.
Qualche attacco si verificò, specialmente
quando la rabbia dei nativi contro la prepotenza dei bianchi non
trovava altro sfogo. Qualche forte finì per essere incendiato e
abbandonato, ma furono eccezioni.
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