el 1948 Wayne
girò tre film, uno dei quali - “Il Fiume Rosso” di Hawks - fu
tra le sue maggiori interpretazioni: gli altri due contribuirono
comunque a mantenere viva l’immagine che il Duca era riuscito ad
imporre dopo la sua interminabile gavetta.
“Wake of the
Red Witch” (La strega rossa) diretto da Edward Ludwig per la
Republic, con Gail Russell e Gig Young, fu la terza delle
pellicole prodotte in quell’anno. Fece seguito all’uscita di un
western decisamente atipico – “Three Godfathers”, I tre padrini
– che Ford aveva voluto dedicare alla memoria di Harry Carey,
scomparso nel ’47 e padre dell’attore Harry Carey Junior,
protagonista del film insieme a John ed al bravo Pedro
Armendariz, l’indimenticabile sergente Beaufort di “Fort
Apache”. Per l’ambientazione, il regista irlandese aveva
momentaneamente abbandonato l’amata Monument Valley dell’Arizona
a favore del Mohave Desert e della Valle della Morte della
California, uno dei luoghi più aridi e inospitali del mondo.
La storia era
decisamente inconsueta e racchiudeva un simbolismo biblico: tre
banditi, fuggiti nel deserto dopo avere compiuto una rapina,
trovano un neonato abbandonato e decidono di portarlo con sé
nella loro tormentata quanto improbabile fuga. Alla fine, dopo
avere visto perire i suoi due compagni, Robert M. Hightower (Wayne)
riesce a raggiungere stremato una cittadina che, guarda caso, si
chiama proprio New Jerusalem. L’ex bandito, riscattatosi dal suo
passato, se la caverà con un anno di prigione, ma dovrà
ringraziare la creatura trovata accidentalmente se la sua vita
potrà riaprirsi alla speranza.
Forse Wayne non
era troppo entusiasta di questa parte, perché il duro Ringo Kid
di “Ombre Rosse” ed il rude cow-boy de “Il Fiume Rosso” cedevano
il posto ad un individuo dal cuore tenero, che mostrava
apertamente i propri sentimenti. Inoltre non si trattava del
solito film in cui prevaleva il suo ruolo di uomo d’’azione. Il
nuovo lavoro di Ford aveva dato all’attore la possibilità di
sfoderare alcune delle qualità solitamente celate dietro la
facciata del duro “frontiersman”.
IN NOME DI
DIO
“In nome di
Dio” – distribuito in Italia anche con il titolo “Il Texano”,
tratto da un racconto di Peter B. Kyne e sceneggiato da Laurence
Stallings e Frank S. Nugent – rappresentò il complemento di un
film assai importante nella carriera di Wayne, prodotto l’anno
successivo e ritenuto da molti critici la vera dimostrazione
della maturità dell’attore: “I cavalieri del Nord-Ovest”.
Quando lo girò,
Wayne aveva 42 anni e ne erano trascorsi 22 dal suo lontano
esordio nel 1927 con “The Drop Kick” di Millard Webb.
John Ford lo
definì il migliore dei suoi film dedicati alla cavalleria,
sostenendo di essersi ispirato per la sceneggiatura agli intensi
quadri di Frederick Remington, il più grande fotografo pittorico
del West. Il direttore della fotografia Winton Hoch lo prese in
parola, riuscendo ad aggiudicarsi un Oscar per i meravigliosi
contrasti creati sullo sfondo color porpora dei torrioni di
roccia nella Monument Valley.
Invece Wayne,
ancora una volta, non ottenne nulla.
Ma la sua
interpretazione del vecchio ufficiale deluso alle soglie della
pensione diventò una pietra miliare nella storia del cinema
western.
IL CAPITANO NATHAN BRITTLES
La trama
scaturiva da un breve racconto di James Warner Bellah,
intitolato semplicemente “War Party”. Vi si narrava dell’estrema
missione del capitano di cavalleria Nathan Brittles, un
ufficiale sessantaquattrenne giunto all’ultimo giorno dei suoi
43 anni di servizio nell’esercito.
Una lunghissima
carriera, costellata di spostamenti, di sacrifici, di rinunce,
ma anche di amarezza e delusioni, alla quale mancava comunque il
giusto riconoscimento finale. Un uomo solo, al quale un’epidemia
di vaiolo aveva sottratto l’affetto della moglie e dei figli,
sepolti nel cimitero militare di Fort Stark, lasciandogli
soltanto un nipote invalido di guerra nella lontana Salem. “E’
una cosa sconvolgente arrivare alla fine di una vita” esordisce
Bellah nella sua opera “dormire le ore buie di un’ultima notte,
aprire gli occhi e capire dalle nere ombre che oscurano l’anima,
che è tutto finito”.
Il film nacque
come “She Wore A Yellow Ribbon” (Lei indossava un nastro giallo)
titolo di una canzone che i soldati cantano durante la marcia.
La distribuzione italiana, poco riguardosa dell’intrinseco
romanticismo del motivo, lo ribattezzò “I cavalieri del
Nord-Ovest”, escogitando un titolo che riteneva più consono ad
una pellicola western. Prodotto dalla Argosy Pictures e
distribuito dalla RKO, venne girato quasi interamente nella
Monument Valley, nella riserva degli indiani Navajo che ormai
chiamavano il regista Ford “Natani Nez”, equivalente a “Capo
Bianco”. Sceneggiato dai soliti Stallings e Nugent, si avvaleva
della colonna sonora di Richard Hageman, lo stesso che aveva
curato il commento musicale di “Three Godfathers”.
Ancora una
volta, come spesso accadeva nei western dell’epoca, il cast
annoverava attori e caratteristi già popolari: Joanne Dru
(Olivia) che era stata partner di Wayne ne “Il Fiume Rosso”,
Andrew Mc Laglen, il burbero sergente Quincannon anch’egli
prossimo al congedo, John Agar (tenente Cohill) Harry Carey Jr.
(tenente Pennell) George O’Brien (maggiore Allshard, comandante
di Fort Stark).
Wayne avrebbe
assunto i panni del personaggio principale, Nathan Brittles,
ormai rassegnato a trascorrere il resto della sua vita
“ascoltando le stupide chiacchiere dei vecchi intorno al fuoco”.
Con i capelli
brizzolati e i baffi grigi, lo sguardo fiero e un po’
malinconico di un uomo indomito che la vita non è riuscita a
piegare, John impersonò superbamente la figura forse più
drammatica della sua interminabile carriera, confermandosi il
protagonista d’eccezione che Howard Hawks aveva saputo
valorizzare senza le criticità di Ford. Forse quest’ultimo
accusò lo smacco di essere stato troppo esigente verso colui che
sarebbe diventato il suo attore prediletto, ma con questo film
contribuì in maniera definitiva alla sua affermazione.
“I cavalieri
del Nord-Ovest” non è il solito western pieno di scazzottate,
duelli o battaglie contro gli Indiani. L’unico scontro sostenuto
dai cavalleggeri si svolge verso la fine, quando la truppa di
Brittles irrompe di sorpresa nell’accampamento nemico,
disperdendo rapidamente la mandria dei cavalli. La ricchezza del
film consiste nei dialoghi, essenziali e un po’ scontrosi, fra
l’ufficiale e il suo staff, nella dura concezione dell’esistenza
(“non chiedere mai scusa, è segno di debolezza”) e nella serena
constatazione di un uomo che assiste alla fase conclusiva della
sua vita attiva. Ma è anche uno stupendo ritratto della vita
militare dell’Ottocento, reso più vibrante dal vivace contrasto
di colori fra il blu delle uniformi, il giallo delle fodere dei
mantelli, il rosso mattone del paesaggio in cui si muove la
cavalleria.
Wayne sa
mostrare ai suoi uomini la durezza del soldato, ma non resiste
alla commozione quando questi gli regalano un orologio d’argento
per il suo commiato, “il più bell’omaggio che il cinema ha
saputo mai rendere al compimento dell’umano ciclo lavorativo”
(Aldo Viganò, “Western in cento film”, Le Mani, Genova, 1994, p.
67).
“I cavalieri
del Nord-Ovest” è un film perfetto sotto tutti gli aspetti.
Le sequenze di
movimento, con i cavalleggeri in marcia nella vallata polverosa
cui fanno da sfondo i maestosi colossi rocciosi di Castle Rock,
West Mitten e Rock Door Canyon, offrono uno scorcio
irripetibile del West della tradizione. Il suo protagonista, al
quale la maschera da sessantenne sembra avere conferito anche i
modi e la saggezza di un autentico anziano, è un uomo composto e
dignitoso fino alla fine, consapevole della sorte che lo
attende. Ha servito l’esercito e la patria per oltre quarant’anni,
in un paese dove i militari sono considerati degli sfaccendati
senza ambizioni, che si accontentano di una misera paga. Come
sottolinea Warner Bellah, l’autore della storia, “Quelle facce
da cinquanta centesimi al giorno le aveva viste per tutta la
vita: cambiavano i cappelli, cambiava il sottomento, ma le facce
non cambiavano mai.” La presenza femminile – Joanne Dru e
Mildred Narwick (moglie del maggiore Allshard) è discreta e
quasi impalpabile: è un tenero impatto di Brittles con il suo
passato felice di marito e di padre.
Gli Indiani,
come già in “Ombre Rosse”, restano ai margini della vicenda,
esercitando la loro minaccia costante ed invisibile come il
tempo scandito impietosamente dall’orologio di Nathan. Soltanto
il vecchio capo che ammette di non avere più ascolto da parte
dei giovani guerrieri ansiosi di combattere, accomuna i
Pellirosse ai loro nemici bianchi. L’espressione che rivolge
sconsolato al suo amico Brittles - “E’ troppo tardi, Nathan!” –
mette di fronte due uomini sconfitti, perché “il compito di noi
vecchi è quello di impedire le guerre”.
L’anziano
capitano si lascia andare ad una esplosione di gioia soltanto
quando viene raggiunto da un cavaliere che gli comunica – mentre
è già in cammino verso occidente, dove ha finalmente deciso di
andare, rinunciando alle “nebbie atlantiche di Salem” - la
promozione a tenente colonnello ed il nuovo incarico di
comandante degli esploratori, l’evento che gli permetterà di
rimanere in servizio ancora a lungo.
L’uomo ha
esorcizzato in extremis la propria morte virtuale, ma si tratta
dell’euforia di un momento. Rientrato al forte, dove lo
attendono i festeggiamenti, il vecchio ufficiale, abitualmente
riservato e schivo, si defila con la scusa di dover prima
“andare a rapporto”.
Se i tempi
fossero stati più maturi per un simile riconoscimento e la
critica meno avara e prevenuta, John Wayne avrebbe dovuto
ottenere un Oscar perché non era stato “mai così umanamente
convincente come in questo epico viale del tramonto di un
individuo solitario, ma sempre alla ricerca di una comunità
sociale in cui riconoscersi” (Viganò, op. cit., p. 67)
Ma forse anche
pretendere qualcosa, pur avendone il sacrosanto diritto, avrebbe
potuto rappresentare “un segno di debolezza”.